La giustizia e il PNRR hanno tra loro un evidente collegamento.

La lentezza del sistema giudiziario pare comporti un danno del 2,5 % del prodotto interno lordo. Non so quanto seria sia la stima. E a noi amministrativisti un discorso del genere evoca le affermazioni di chi diceva che bastava sopprimere la giustizia amministrativa per avere un incremento del PIL del 3%: ciò che era ridicolo, perché puoi anche sopprimere la giurisdizione amministrativa, cambiando la Costituzione, ma non puoi certo eliminare la tutela nei confronti dell’attività illegittima della p.a.

Però che il sistema della giustizia possa essere reso più efficiente, liberando così importanti risorse economiche, è indiscutibile.

E, in questa prospettiva, si impone anche una riflessione sull’ordinamento della magistratura.

Comunque la si pensi, e fatta ogni più ampia riserva, un dato da cui muovere è a mio avviso il recente libro di Luca Palamara, perché offre una descrizione “dall’interno” molto tecnica, molto concreta, assolutamente non idealistica, di come funziona il CSM. Descrizione che è divenuta conoscenza comune, e che rende evidente l’esigenza di una riforma.

La diagnosi è chiara. Il CSM garantisce l’indipendenza della magistratura ordinaria, come previsto in Costituzione e come è giusto che sia. Ma è lo strumento di autogoverno di una magistratura che risponde a dinamiche proprie.

Uno strumento dotato di un grande potere. Le funzioni del CSM vanno al di là di quelle individuate dal legislatore (che riguardano sostanzialmente le carriere, procedimento disciplinare compreso). Ci sono i pareri resi dal CSM, su richiesta del potere politico, sui disegni di legge in materia giudiziaria. Ci sono le “linee guida” poste dallo stesso CSM. Ma – soprattutto – c’è una gestione “correntizia” dei propri compiti.

L’enorme potere della magistratura si lega anche all’idea – percepita a livello diffuso nel paese – di una sua superiorità morale rispetto alla politica. Ma ora, che ne è della superiorità morale? Fatte tutte le riserve, ripeto, ciò che viene descritto del modo di operare del CSM si avvicina a fattispecie penalmente rilevanti; o comunque tipiche di realtà che, fatte le debite proporzioni, spesso si incontrano nei settori del pubblico impiego.

Il CSM si rivela – in concreto – un luogo di “compensazione” delle aspettative di carriera, in una ripartizione rigorosamente “lottizzata” che finisce per avere un collegamento con la politica.

Il rapporto elettivo risulta basato sull’appartenenza e sulla riconoscenza. Le correnti, attraverso l’intermediazione dell’ANM, hanno imposto tali logiche, cosicché a gestire il CSM è la magistratura organizzata e schierata nelle sue forme associative.

Dunque il problema è prima di tutto il ruolo delle correnti. Se non si appartiene ad una di esse, non si entra nel CSM e – a quanto ci viene illustrato – non si fa carriera in magistratura.

E una profonda distinzione all’interno del CSM è tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, con una forte sperequazione a favore della prima, che ha acquisito un potere pervasivo.

Sia in termini generali. Il potere della magistratura inquirente in sinergia con la stampa e magari con il sostegno della politica è spesso irresistibile. La possibilità dell’uso dell’azione penale è di per sé uno strumento devastante. Anche perché la fase centrale del processo penale è divenuta quella delle indagini preliminari: le sorti di una persona, anche in ragione della risonanza mediatica, dipendono da quella fase.

Sia nei rapporti interni al CSM. La presenza dei PM ai vertici dell’ANM è molto maggiore della loro consistenza numerica.

Ma l’indipendenza della magistratura – valore primario e intoccabile – non richiede che vi sia un’organizzazione unitaria tra PM e giudici.

Certo, è previsto così in Costituzione.

Ma c’è qualcosa che non è logicamente corretto se l’accusatore può condizionare la progressione in carriera del giudicante. Qualcosa su cui la nostra sensibilità è mutata , e si è acuita, proprio in forza di una norma costituzionale successiva: il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, il principio del giusto processo, l’idea che il giudice è terzo tra le parti: dunque il PM è un’altra cosa, è una delle due parti rispetto a cui il giudice dev’essere terzo.

Ma allora ha ancora senso che PM e giudici siano compartati insieme in un unico organo di autogoverno? Va ancora bene così, o non c’è piuttosto una contraddizione da risolvere?

Da qui le proposte di riforma. Da quelle drastiche, nel senso di creare due CSM (per la magistratura giudicante e per quella inquirente, modificando la Costituzione); a quelle intermedie (il sorteggio, che si discute se richieda una modifica della Costituzione); a quelle più limitate (la modifica del sistema elettorale del CSM, prevista sia dalla Commissione Luciani, sia da uno dei referendum “in itinere”).

Ma chi può intervenire a riformare il CSM?

L’autoriforma, da parte cioè della stessa magistratura, non pare verosimile.

Forse si può costituire una commissione parlamentare d’indagine sul sistema giudiziario? O più in generale, può intervenire la politica? Certo, a meno che non si senta condizionata dal potere delle procure: condizionata o per timore, o al contrario per considerazioni utilitaristiche sul pregiudizio che da tale potere – ove utilizzato secondo logiche “lottizzate” – possa derivare alle forze politiche avversarie.

Dovrebbe – per quel che può – attivarsi l’avvocatura, che sembra però più concentrata su questioni interne relative a problematiche come il doppio mandato.

Utile sarebbe anche l’apporto dell’accademia; se non fosse che, come ambiente piuttosto chiuso, costituisce spesso un sistema ancor più autoreferenziale della magistratura…..

E infine i referendum: possono quanto meno smuovere le acque, anche se sono strumenti più limitati rispetto alla legislazione (sono solo abrogativi).

Non so bene, insomma, chi sia in condizione di intervenire. Trovo però che il momento sia unico per poterlo fare (tra elementi quali gli obblighi imposti dal PNRR, una situazione politica caratterizzata da larghe maggioranze, la circostanziata denuncia di Palamara, i ruoli di personaggi di levatura come Draghi e Cartabia, il lavoro – in particolare – della Commissione Luciani: un “mix” difficilmente ripetibile…)

***

Passando dalla magistratura ordinaria a quella speciale, mi limito qui a far cenno della magistratura amministrativa.

Premetto che il giudice amministrativo è il mio giudice, davanti al quale lavoro da trent’anni, da una vita. Ne parlo quindi con grande rispetto, e le considerazioni critiche sono animate da spirito costruttivo.

Parto da una notizia, che mi sembra utile a inquadrare il tema. Dal Sole 24 ore della settimana scorsa.

Il Ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini illustra il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri in tema di appalti.

Va ricordato che in esso si prevede l’applicazione dell’art. 14 del Regio decreto 1054 del 1924, in base al quale il Consiglio di Stato “formola quei progetti di legge ed i regolamenti che gli vengono commessi dal Governo”. Non solo; nel disegno di legge governativo si aggiunge: “il Consiglio di Stato può utilizzare, al fine della stesura dell’articolato normativo, magistrati di tribunale amministrativo regionale, esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’Avvocatura generale dello Stato”.

E dunque, domanda del giornalista: “Sorprende che sarà il Consiglio di Stato a scrivere i decreti attuativi”.

Risposta: “Quanto al Consiglio di Stato, ho già dato prova con la Commissione per le riforme costituita presso il mio Ministero insieme al Dipartimento della Funzione pubblica, al Consiglio di Stato, all’Anac e alla Corte dei conti di avere grande rispetto per un lavoro fatto nella massima collaborazione tra le diverse istituzioni”.

Si può dunque partire da qui per chiedersi che cos’è la magistratura amministrativa e se il Consiglio di Stato ne fa pienamente parte. Quest’ultima domanda non vuole essere provocatoria, la risposta non è scontata. Non è sì e basta.

Nelle parole di un Ministro, che traccia una riforma molto importante, il Consiglio di Stato è un’istituzione, accostata al Dipartimento della funzione pubblica e all’Anac.

Se pensava che fosse un giudice, non si sarebbe espresso così.

E, soprattutto, a un giudice non si chiede di scrivere le norme che poi deve applicare. Eppure è esattamente questo ciò che si chiede al Consiglio di Stato, in base a una norma del Regio decreto del 1924.

La posizione ufficiale è nota. Per tradizione storica, il Consiglio di Stato ha competenze non solo giudiziarie, ma anche consultive. La legge n. 127/1997 ha istituito la Sezione consultiva per gli atti normativi, competente sugli atti di natura regolamentare e legislativa. La consulenza del Consiglio di Stato è resa sui quesiti posti dal Governo, dalle Regioni, dalle Autorità indipendenti, dalle Camere. Il parere viene reso sugli schemi generali di contratti – tipo, accordi, convenzioni e sull’attività normativa del Governo.

Il Consiglio di Stato in sede consultiva opera in posizione di terzietà e indipendenza. E’ un’attività di garanzia svolta, come quella giurisdizionale, nell’interesse dello Stato – comunità (e non dell’amministrazione). Le due funzioni (consultiva e giurisdizionale) concorrono a realizzare la missione istituzionale della giustizia amministrativa.

Non so se è così. Direi piuttosto che non è ancora del tutto completato il lungo passaggio del Consiglio di Stato dall’originaria natura di Consiglio del Re a quella di organo giurisdizionale.

Però nel corso del tempo sono cambiati i tratti fondamentali della giurisdizione grazie soprattutto al nuovo art.111 della Costituzione – già sopra ricordato – e al principio del giusto processo, con l’effettiva parità tra le parti del giudizio.

E poi, al di là delle funzioni del Consiglio di Stato, ci sono i Consiglieri di Stato. E la loro competenza tecnico-giuridica li ha da sempre resi destinatari di importanti incarichi extragiudiziari conferiti dal potere esecutivo.

I Consiglieri di Stato sono solo una parte della magistratura amministrativa. La quale dunque non è omogenea. In realtà, non ha ragione di esserci una duplicazione del plesso della magistratura amministrativa tra giudici di primo e di secondo grado, se non per la diversità dei compiti. Per questo, dunque, sembra necessario partire dai compiti (in particolare, appunto, quelli del Consiglio di Stato).

In altre parole, l’unificazione del plesso giudiziario – che, storia a parte, appare oggi la scelta più logica – deve accompagnarsi a una omogeneità dei compiti.

Se non c’è l’unificazione, è chiaro che la distinzione tra magistrati amministrativi si ripercuote all’interno dell’unitario organo di autogoverno, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (CPGA). Ed è attorno a questa distinzione che si coagulano i nuclei “correntizi” del CPGA.

Venendo dunque all’autogoverno della magistratura amministrativa, è chiaro che il CPGA non può che avere il CSM come modello: è quest’ultimo ad avere una precisa definizione nella Costituzione, mentre le competenze del CPGA sono definite dalla legge ordinaria. E le magistrature speciali devono avere gli stessi caratteri di terzietà e indipendenza della magistratura ordinaria (perché – ripetesi – il riferimento è sempre all’art. 111 Cost.).

Il CSM è il modello di un autogoverno che presidia l’indipendenza della magistratura dal potere politico.

Ma è un modello, abbiamo visto, che ha dei difetti.

E che non offre risposta alle questioni specifiche che si pongono nella giustizia amministrativa, nella quale – oltre alla distinzione tra giudici di primo e secondo grado – è presente un elemento assai rilevante nel rapporto con il potere politico: l’esistenza dei Consiglieri di Stato di nomina governativa.

Sotto altro profilo, poi, c’è il rischio che un’autonomia e un autogoverno non equilibrati, staccati dalla realtà, possano rendere la magistratura amministrativa autoreferenziale.

Nel senso di vivere un po’ come in una “bolla”, con l’idea che i ricorsi sono troppi, che bisogna sfoltirne il numero, che i carichi di lavoro sono una barriera invalicabile, che si potrà aumentare il numero dei ricorsi solo se e quando gli organici saranno coperti …

La prospettiva non è però corretta, se si guardano le cose da dentro la “bolla”.

Non va disincentivata la proposizione dei ricorsi se sono espressione di un’effettiva domanda di giustizia; non va avallato un sistema in cui il contributo unificato è dolosamente preordinato alla deflazione del contenzioso, cioè a rendere impossibile l’accesso alla giustizia.

Vanno invece aumentati i giudici secondo le necessità; i giudici, più che gli aiutanti provvisori dei giudici.

E vanno affrontate alcune questioni sostanziali quali la nomina governativa di un quarto dei Consiglieri di Stato; la possibilità che ai Consiglieri di Stato siano attribuiti incarichi fuori ruolo; le problematiche legate al cumulo tra funzioni consultive e funzioni giurisdizionali in capo al medesimo organo.

Una riforma coerente richiede la soppressione delle nomine governative, ad evitare ogni ipotesi di condizionamento, o il confinamento dei Consiglieri di nomina governativa alle sezioni consultive; e richiede grande cautela nel ritorno alle funzioni giurisdizionali da parte di chi abbia ricevuto incarichi fuori ruolo. Ed è solo un sintomo di una situazione da cambiare lo svolgimento di attività di insegnamento finalizzate al superamento di concorsi pubblici (attività che non pare opportuno venga svolta da chi poi potrà essere chiamato a giudicare di quei concorsi).

Un altro elemento di cui si avverte la necessità è un organismo che consenta il confronto tra giudici e avvocati operanti nella giustizia amministrativa.

Il modello, anche qui con grandi margini di miglioramento, è quello dei consigli giudiziari.

I consigli giudiziari esistenti (previsti dal d.lgs. n. 25/2006 sull’ordinamento giudiziario) rispondono appunto al fine di coinvolgere nell’attività della magistratura altri soggetti che quotidianamente entrano in contatto con l’ordinamento giudiziario (gli avvocati in primis).

Sono organi a “geometria variabile”. La composizione “allargata” è prevista solo su certe materie (ad es. sui criteri per l’assegnazione degli affari e la sostituzione dei giudici impediti). Per le altre questioni il consiglio decide in forma “ristretta” ai soli magistrati. Ed è al centro del dibattito il ruolo che devono avere i “laici” in questi consigli.

Il risultato concreto è assai deludente, ma l’idea è buona.

E la giustizia amministrativa, su questo, è rimasta indietro.

Al di là di volontaristiche – e meritorie – esperienze, l’organizzazione della giustizia amministrativa ha sempre avuto quale unico riferimento il CPGA (al cui interno non sono rappresentate le istanze dell’avvocatura).

Si sono ultimamente registrate importanti aperture nella collaborazione. E ne è esempio quanto accaduto nel processo amministrativo telematico (PAT), la cui attuazione è stata accompagnata dalla creazione di un tavolo permanente di confronto fra componente magistratuale e foro specialistico.

Ma sarebbe certamente una cosa diversa se, in modo istituzionale e permanente, venisse istituito per legge presso ogni TAR e presso il Consiglio di Stato un organo comprendente tutte le parti del processo amministrativo e in grado di consentire il loro concorso, con pari dignità, alla programmazione giudiziaria e alla verifica delle situazioni problematiche.

Ci deve essere – infine – qualcosa che non va nel Tar Lazio, se finisce lì un terzo di tutti i ricorsi su scala nazionale.

Come è noto, il Codice del processo amministrativo ha posto due criteri di competenza: accanto a quella territoriale, c’è una competenza funzionale.

Quest’ultima non si basa sull’efficacia dell’atto o sulla sede dell’organo, ma sull’assegnazione di particolari materie a determinati Tar (in pratica, al Tar Lazio).

Materie però assai eterogenee, per le quali non è sempre evidente la logica dell’attribuzione.

La mancanza di giustificazione di tali scelte, i dubbi sulla conformità ai principi costituzionali (e al modello di distribuzione territoriale degli organi di giustizia amministrativa di cui all’art. 125 Cost.), le evidenti criticità che ne derivano, richiedono una ridefinizione delle competenze.

In conclusione: forse è davvero il momento di guardare a una giurisdizione speciale come quella amministrativa, in un settore importantissimo quale quello dell’attività amministrativa, come a una risorsa per il paese, anche in termini di correttezza e di efficienza delle pubbliche amministrazioni.

Una risorsa che però va cercata nel costante miglioramento dell’esistente, che non è un dato immutabile.

Stefano Bigolaro

* Il testo riproduce e amplia l’intervento tenuto al XXXI convegno di Cortina d’Ampezzo, organizzato dall’Associazione veneta degli avvocati amministrativisti – UNAA e intitolato al prof. Feliciano Benvenuti, svoltosi il 9 luglio 2021 sul tema “Le sfide del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza – PNRR”.

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