Il mio intervento è il punto di vista di un magistrato penale, appartenente ad una Sezione della Corte di cassazione, la Sesta, che si occupa, anche, dei reati contro la pubblica amministrazione, tra cui l’abuso d’ufficio.

I dati statistici ricordati dal professor Vittorio Domenichelli sulle condanne relative all’abuso di ufficio sono coerenti e tendenzialmente stabili anche negli ultimi anni, nel senso che esiste un rapporto sbilanciato tra indagini avviate e le poche condanne pronunciate.

Vorrei soffermarmi, rapidamente, sulle ragioni e sugli effetti della riforma del reato di abuso d’ufficio, come realizzata dall’art. 23 del d.l. n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020.

Le ragioni che oggi hanno portato alla riforma dell’articolo 323 sono le stesse che nel 1997 hanno condotto il legislatore ad intervenire modificando profondamente l’abuso d’ufficio (legge 16 luglio 1997, n. 234). Esse possono essere sintetizzate in due formule: a) ridurre l’ingerenza del giudice penale sull’attività discrezionale della pubblica amministrazione per evitare la paralisi della decisione del funzionario, la cosiddetta “paura di firma”; b) delimitare i casi in cui in l’inosservanza di una regola amministrativa avrebbe potuto costituire l’illecito penale.

Senonché, la fattispecie di abuso di ufficio, ossia l’oggetto della riforma, era assai diversa rispetto alla norma su cui è intervenuta pochi mesi fa il legislatore del 2020.

Infatti, la legge n. 86 del 1990 aveva delineato l’abuso d’ufficio come un gigantesco contenitore, in cui confluivano diverse forme di reato, con una evidente rarefazione della tipicità, il che consentiva, effettivamente, applicazioni sorprendenti e non prevedibili da parte del giudice penale, determinando appunto la paralisi del funzionario pubblico.

La legge di riforma del 1997 ha profondamente trasformato questo reato, migliorandolo sensibilmente sotto il profilo della stessa tipicità. È diventato, innanzitutto, un reato di evento; è stato aggiunto e precisato il requisito della patrimonialità per l’ingiusto vantaggio proprio o di altri; la condotta è stata delimitata dal punto di vista formale facendo riferimento al requisito della violazione di norme di legge o di regolamento e all’obbligo di astensione; si è inserito l’elemento soggettivo del dolo intenzionale, con riguardo all’evento del danno o del vantaggio. Un reato, quindi, che presenta un tasso di tipicità e di articolazione molto superiore rispetto al vecchio abuso d’ufficio.

La legge del 2020 è intervenuta con le stesse motivazioni, ma su una norma molto diversa da quella del 1990, in cui è riconoscibile lo sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, il cui tra l’altro l’ambito di applicazione era stato fortemente limitato dalla stessa giurisprudenza. Basti pensare alla teoria della doppia ingiustizia elaborata dalla giurisprudenza e al rilievo selettivo dato al dolo intenzionale. Le statistiche, del resto, evidenziano questa situazione: i dati del 2017 ci dicono che su 6500 procedimenti solo 57 sono state le condanne ci sono state solo 57 condanne per abuso d’ufficio, ma la stessa tendenza si riscontra anche negli anni successivi, in cui tra l’altro il numero dei procedimenti per il reato di cui all’art. 323 c.p. pervenuti in Corte di cassazione sono sempre stati molto esigui, con elevatissime percentuali di annullamento.

A questo punto sorge spontanea la considerazione che non sia la formulazione della norma né tanto meno l’applicazione e l’interpretazione che ne ha fatto la giurisprudenza, a spaventare e a paralizzare il funzionario pubblico, ma semmai i meccanismi che governavano l’avvio di un’indagine e l’instaurazione del procedimento penale: è questo che spaventava e spaventa il funzionario.

Forse va riconosciuto che vi è stato, talvolta, un uso strumentale delle indagini? Anche volendo riconoscere che a volte questo sia accaduto, va comunque detto che le indagini nascono perché c’è una denuncia di un cittadino che ritiene di essere vittima di un abuso, di un sopruso, di un favoritismo a vantaggio di altri e su queste denunce il pubblico ministero non può far altro che aprire un fascicolo e iniziare l’indagine, in ossequio al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. È anche vero che già nel corso delle prime indagini si dovrebbe accertare, ad esempio, la sussistenza del dolo intenzionale o della doppia ingiustizia, e che invece spesso si omettono accertamenti approfonditi in questa fase e si preferisce rinviare a giudizio l’imputato.

Ma è altrettanto vero che le denunce che arrivano nelle procure della Repubblica sono la conseguenza dell’incapacità della pubblica amministrazione di operare essa stessa con imparzialità ed efficienza, sono il sintomo dell’incapacità dell’amministrazione di assicurare la tutela delle situazioni soggettive e degli interessi che andrebbero presi in considerazione attraverso un’attenta ponderazione e tale incapacità è causata spesso dalla stessa normativa amministrativa che è chiamata ad applicare il funzionario.

La prima e più efficiente difesa del cittadino dovrebbe essere rinvenuta nelle norme che l’amministrazione deve applicare, che dovrebbero essere nitide e precise. Solo a queste condizioni le iniziative giudiziarie basate su fattispecie incriminatrici incentrate sulle modalità di esercizio del potere possono e debbono trovare un argine naturale, diversamente questo argine non ci sarà.

Se effettivamente nel 2020 si voleva tutelare il funzionario pubblico era sul piano amministrativo che si sarebbe dovuto operare, attraverso interventi in grado di anticipare e sostituire l’intervento del giudice, restituendo, in questo campo, al diritto penale un ruolo davvero residuale.

Si è invece scelta una pericolosa scorciatoia che depotenzia e quasi elimina il reato di abuso d’ufficio, ma che allo stesso tempo, a mio avviso, non sembra cogliere l’obiettivo di mettere davvero a riparo il funzionario pubblico da iniziative giudiziarie. Questa riforma non coglie l’obiettivo che voleva perseguire.

Cosa realizza questa riforma? Vuole eliminare del tutto la possibilità che il giudice penale possa attentare alla discrezionalità amministrativa e per farlo sostituisce alle parole “norme di legge e regolamento” il riferimento a “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o ad altri atti aventi forza di legge e dalle quali non residuano margini di discrezionalità”.

Di fatto è una sorta di attacco alla giurisprudenza penale che fino ad oggi ha ammesso che attraverso l’abuso d’ufficio si possa sindacare l’eccesso di potere della pubblica amministrazione.

Invero, subito dopo la riforma del 1997 la giurisprudenza penale, inizialmente, ha escluso che l’eccesso di potere potesse essere sindacato; tuttavia, nel 2011 sono intervenute le Sezioni Unite che hanno censurato questa interpretazione limitativa, ammettendo che un sindacato nei confronti dell’amministrazione potesse essere condotto attraverso il riferimento alla figura dello sviamento di potere.

In che cosa consiste per la giurisprudenza penale il riferimento allo sviamento di potere? Esso viene inteso come l’atto dell’ufficio ovvero il comportamento che sia stato posto in essere per scopi esclusivamente personali o comunque estranei alla funzione della pubblica amministrazione, con l’effetto che tale sviamento produce una lesione dell’interesse tutelato dalla norma.  In altri termini, per sviamento di potere il giudice penale intende una strumentalizzazione dell’ufficio per fini personali, egoistici e comunque che non favoriscano le finalità pubbliche per cui quel potere è stato attribuito. La norma di legge violata viene individuata quindi delle norme attributive della funzione ed è la stessa funzione che subisce un tradimento, a vantaggio proprio o di altri soggetti.

Questo tipo di sindacato si avvicina molto all’eccesso di potere, ma se si leggono con attenzione le sentenze, ci si rende conto che il giudice penale alla fine si disinteressa del tutto dei vizi dell’atto amministrativo, in quanto finisce per valutare esclusivamente le condotte, ossia le condotte che vengono poste prima, durante e dopo l’emissione del provvedimento amministrativo, (quando c’è un provvedimento), per poi individuare la violazione di norme o di una norma anche generale, che talvolta è stata individuata nell’articolo 97 Cost., al fine di accertare l’avvenuta strumentalizzazione dell’ufficio, che può avvenire, secondo la giurisprudenza, anche nel non uso della discrezionalità ovvero per un uso distorto della stessa, facendo prevalere interessi personali sull’interesse pubblico.

In altri termini, al giudice penale “non interessa” l’eccesso di potere in quanto tale, mentre è interessato a valutare i comportamenti, ovviamente anche quelli produttivi di atti amministrativi; ma l’atto in sé e i suoi vizi non entrano nella sfera d’azione della norma penale. Nell’articolo 323 c.p., prima della modifica del 2020, non assumono rilievo fondamentale gli elementi di fatto che integrano il provvedimento amministrativo, ma i comportamenti precedenti, concomitanti e successivi, che possono denotare la strumentalizzazione dell’ufficio ai fini indebiti, nelle forme della prevaricazione e dello sfruttamento a fini personali dell’ufficio.

Allora, se questo è vero, se questa è la giurisprudenza che si è formata sulla base del reato di abuso di ufficio originato dalla riforma del 1997, occorre comprendere il perché di questa inaspettata riforma.

Se la riforma del 2020 si è posta l’obiettivo di rendere stabile la tipicità della fattispecie penale, va riconosciuto che questo obiettivo è stato mancato, perché – come ha sottolineato recentemente Tullio Padovani –  con riferimento all’abuso di ufficio la tipicità dipende dal livello di determinatezza della normativa amministrativa che attribuisce il potere e della sua dimensione teleologica, cioè dipende dalla disciplina di diritto pubblico che prevede o regola il potere della funzione amministrativa. La salvaguardia della tipicità è collegata al modo in cui è regolato l’esercizio specifico della funzione pubblica entro cui si colloca la legittimità dell’esercizio del potere stesso.

Se quanto detto è corretto, l’aver voluto eliminare ogni riferimento all’attività discrezionale che significato ha?

Se il sindacato penale si rivolgerà ora solo e soltanto all’attività vincolata della pubblica amministrazione, esso coinciderà con il controllo dell’amministrazione nella sua attività meno significativa, quella meramente esecutiva, diretta cioè ad occuparsi di mere bagatelle che fino ad ora il giudice penale non ha mai nemmeno considerato, mentre resteranno penalmente irrilevanti tutta una serie di condotte che la giurisprudenza faceva rientrare nello sviamento di potere: si pensi ai favoritismi indebiti, allo sfruttamento privato, alla prevaricazione arbitraria, tutte situazioni che spesso ritroviamo nelle vicende amministrative. Queste ipotesi, assieme a tante altre, che rientravano nello sviamento di potere e che erano sintomatiche di una finalità estranea alla dimensione pubblica, oggi non saranno più rilevanti dal punto di vista penale.

Siamo in presenza di una riforma che persegue un obiettivo di politica criminale che appare incomprensibile, nella misura in cui finisce per circondare con una muraglia immunitaria irragionevole la discrezionalità dell’amministrazione, con il rischio di una vistosa violazione del principio di uguaglianza, sottraendo al vaglio di legalità le condotte più insidiose da parte del funzionario pubblico.

Una politica criminale “all’impronta”, che continua ad essere orientata dall’emergenza e che avvertiamo come strabica: dopo meno di un anno dalla legge n. 3 del 2019, meglio conosciuta come “spazzacorrotti”, che si è posta la finalità di “combattere” la corruzione e, in genere, la criminalità amministrativa con misure assai aggressive, in alcuni casi spostando il baricentro verso la legislazione in materia di criminalità organizzata, senza neppure cogliere la differenza tra i diversi fenomeni criminali, improvvisamente si assiste ad  una inversione di tendenza, con un legislatore che ci consegna un abuso di ufficio totalmente depotenziato, realizzando un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa. Due interventi, entrambi, fuori misura, sicuramente contraddittori.

E’ probabile che a questo depotenziamento seguirà il tentativo di interpretazioni adeguatrici da parte della giurisprudenza per riconquistare spazi applicativi al reato di abuso d’ufficio.

Non vi è il tempo per una ricognizione degli spazi di intervento interpretativi che si aprono, sicché mi limito ad una sintetica elencazione, che potrà essere utile al dibattito che seguirà:

– si dovrà verificare se con la nuova formulazione, che richiama “specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, possa ancora farsi riferimento, nel valutare le condotte  poste in essere in violazione di legge, all’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità dell’amministrazione ex art. 97 Cost., nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione;

– d’altra parte, è facilmente pronosticabile che la giurisprudenza valorizzerà al massimo tutte le disposizioni contenute nella legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, che sicuramente corrispondono a quella “specificità” delle regole di condotta richiesta dalla nuova formulazione e che formeranno il parametro basilare per valutare le violazioni di legge e non è escluso che attraverso un controllo capillare del procedimento, attraverso cui si realizza la funzione amministrativa, si finisca per riconquistare quegli stessi spazi di sindacato della discrezionalità che la riforma voleva sottrarre al giudice penale;

– inoltre, proprio in relazione alla discrezionalità amministrativa, che il legislatore del 2020 ha voluto sottrarre al controllo giudiziario penale, si dovrà accertare se la novella possa o meno riguardare anche la discrezionalità tecnica dell’amministrazione ed eventualmente entro che limiti;

– ancora, sebbene nella nuova disposizione sia stato incredibilmente espunto il riferimento anche alla violazione dei regolamenti, nonostante oggi costituiscono le fonti che più di tutte definiscono moduli operativi, limiti specifici  e contenuti necessari dell’attività del funzionario pubblico, quindi in perfetta aderenza con l’obiettivo riformatore  di riferirsi a regole di condotta il più possibile specifiche – si pensi, ad esempio, ai codici disciplinari delle pubbliche amministrazioni, su cui molto ha investito negli ultimi anni l’A.N.A.C.  – può prevedersi che tali fonti regolative saranno recuperate in relazione alla seconda parte dell’art. 323 c.p., quella relativa all’inosservanza degli obblighi di astensione, con riferimento non tanto all’astensione determinata dalla presenza di un interesse proprio o di un  prossimo congiunto, ma “agli altri casi prescritti”, che coincideranno con le numerose ipotesi di conflitti di interesse che trovano considerazione proprio nei codici disciplinari delle amministrazioni e in genere in fonti regolamentari, con l’effetto di una sicura valorizzazione applicativa di questa seconda parte della norma incriminatrice, fino ad oggi trascurata;

– sarà da valutare l’ambito applicativo di alcune fattispecie penali, destinate a coprire gli spazi lasciati dal reato di abuso di ufficio riformato, come ad esempio il peculato per distrazione nel caso in cui l’agente realizzi la sottrazione del denaro o dei beni alla destinazione pubblica, utilizzandoli per il soddisfacimento di interessi privatistici (Padovani).

Dalle risposte che si daranno alle questioni suindicate dipenderà anche la fine che faranno i procedimenti ancora pendenti e le condanne irrevocabili pronunciate per il reato di abuso di ufficio.

Avendo oggi il reato un ambito di operatività ridotto con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, si pongono serie questioni di diritto intertemporale.

Infatti, non può dubitarsi che operi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 cod. pen., ad esempio perché realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Pertanto, all’abolizione parziale del reato consegue, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, c.p. nei processi in corso il proscioglimento dell’imputato, con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato” e nel caso di condanne irrevocabili la revoca della sentenza ai sensi dell’art. 673 c.p.p.

Giorgio Fidelbo

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