La trattazione del tema presuppone un’attenta considerazione di concetti e istituti di natura costituzionale non sempre adeguatamente precisati, e precisamente nel “passaggio” dal regime sabaudo, fondato sul principio-base posto dall’art. 5 dello Statuto di Re Carlo Alberto, del 1848, secondo cui “solo al Re appartiene il potere amministrativo”, al sistema costituzionale vigente (Costituzione del 1948), secondo il cui art. 1, quella ch’era la sovranità assoluta ed  onnicomprensiva del Re è passata al Popolo ed il suo esercizio è affidato all’Autorità Amministrativa regolata dagli artt. 97, “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari” e 98, “secondo cui tutti “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

Tutta qui, nel radicale cambio dei connotati caratterizzanti della sovranità, la dottrina-teoria che si vorrebbe illustrare, per l’esatta individuazione della concessione amministrativa, istituto giuridico che letteralmente dilaga nell’assetto operativo della funzione pubblica, con conseguenze talora disastrose per il pubblico interesse.

 

La concessione amministrativa

Presupposto essenziale per l’esatta comprensione dei concetti giuridici rilevanti è la distinzione tra funzione e servizio: la funzione legittima il relativo titolare all’esercizio d’un potere d’imperio, che, per essere tale dev’essere specificamente regolato dalle legge, la quale, per l’art. 97 Cost., deve “determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari”, titolari del potere che s’esprime con l’esercizio della funzione; servizio è il bonum, il beneficio -quale che ne sia la natura- che il cittadino ha titolo e diritto d’attendersi dall’esercizio della funzione.

Nella frenetica dinamica della vita moderna crescono a dismisura le funzioni pubbliche, di cui il cittadino ha titolo e diritto di vedere correttamente esercitate dalla “mano pubblica”, spesso sofisticate, comportanti capacità tecniche che l’apparato burocratico può non essere in grado di direttamente esercitare “in proprio”; donde la necessità “fisiologica” -si può ben dire- di ricorrere alla concessione amministrativa. E qui nascono i problemi qui all’esame.

Ai sensi dell’art. 54 Cost, “il cittadino cui sono affidate funzioni pubbliche ha il dovere di adempierle con disciplina e onore”; la nozione di onore è di semplice ed elementare appercezione; più sofisticata ed elaborata è la nozione del “dovere di disciplina”, che allora, nel 1948, in cui esisteva il servizio militare obbligatorio, era di comune accezione; ora  non più altrettanto nota nei suoi tratti essenziali, ma facilmente ricostruibile: riguardava ed esigeva il rispetto di ogni -anche più minuta- regola di condotta: chi scrive ricorda perfettamente che bastava il nodo della cravatta un po’ storto per vedersi negare la libera uscita. Né valeva drizzarselo, perché la violazione della norma consisteva nell’essersi presentato col nodo storto! Disciplina!

Da tutto ciò deriva de plano il diritto del cittadino al servizio, esercitato correttamente secondo le regole di legge, da parte del titolare della funzione, che, per l’art 98 Cost, “è al servizio esclusivo della Nazione”.

 

La concessione di funzione pubblica

Nell’ambito del principio posto dall’art. 97.2 Cost., la traslazione soggettiva del dovere di funzione dal titolare legale ad un soggetto terzo -il concessionario- dovrebb’essere espressamente autorizzata dalla legge della funzione; il principio, pur discendente de plano dalla disposizione costituzionale, è oggetto di diffusa desuetudine, sempre più pressata la Pubblica Amministrazione (nell’acronimo d’obbligo PA) dalle crescenti incombenze dell’Ufficio. Ma se la desuetudine sul “se” far luogo alla concessione di funzione (in tutto o in parte per singole componenti del relativo procedimento formativo) è in crescita, assolutamente stabile e vincolante è il dovere del titolare formale della funzione di far luogo alla concessione sotto la sua piena e completa responsabilità funzionale. Anche se il rapporto di concessione è tipicamente sinallagmatico, nel senso che ambedue sono titolari di specifici correlati diritti/doveri, non v’ha dubbio che la posizione giuridica dell’autorità concedente sia largamente poziore rispetto a quella del concessionario.

Proprio l’enorme dilatazione della prassi concessoria per una costantemente crescente prassi (si stava scivolando a scrivere “moda”) dell’affidamento in concessione di sempre più numerosi servizi pubblici ha notevolmente allarmato le autorità -specie europee- addette al controllo della correttezza della concorrenza tra imprese operanti sul mercato, imponendo speciali procedimenti selettivi del miglior concorrente al conseguimento della concessione. È tema delicatissimo, per la cui miglior soluzione lo stesso Legislatore ha istituito uno speciale Ente, l’ANAC (istituita con L. 6.11.2012 – Corruzione di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”) per il controllo anche nel merito del singolo appalto.

Questo se sul piano giuridico sgrava notevolmente la posizione dell’appaltante, messo sostanzialmente “sotto tutela” d’un Ente “tutto-fare” (l’ANAC), acuisce quella dell’appaltatore, che non può trincerarsi dietro auto-asserzioni di idoneità all’espletamento del servizio, dovendosi fare integralmente carico delle conseguenze degli eventuali disservizi.

 

La responsabilità del servizio

Al fruitore del servizio, elevato dalla legge al rango di pubblica funzione, interessa evidentemente “sapere a chi rivolgersi” per il dovuto risarcimento in caso di disservizi: al titolare della funzione come conseguenza della scelta del concessionario, o al concessionario inadempiente dell’obbligazione assunta in concessione.

 

a). L’Amministrazione concedente. Nel “maccanismo” instaurato con l’istituzione dell’ANAC pare che la sua posizione giuridica non vada al di là del diritto della partecipazione -solo formale- al procedimento/processo di accertamento del disservizio e della relativa eventuale responsabilità, evidente essendo che la funzione attribuita dalla legge all’ANAC assorbe totalmente le conseguenze dell’eventuale mala gestio nella scelta del partner concessionario. Non pare infatti dubitabile che l’istituzione con “legge di funzione” d’un Ente di controllo tecnico della regolarità del procedimento di scelta dell’affidatario in concessione della funzione (a) ne attui appieno il presupposto costituzionale (art. 97.1 Cost.) della legalità della sua attribuzione; (b) assorbendo ogni responsabilità dell’Ente esecutore (salvo ovviamente inesecuzione, da parte sua, delle direttive ricevute), in applicazione del principio che ubi major minor cessat.

b) Il concessionario. Ben chiara ed in tesi assorbente la sua piena responsabilità a vario titolo.

In primis e “a monte” per responsabilità aquiliana: essendo (e si deve presumere che lo fosse) pienamente compos sui, non può trincerarsi dietro i “non sapevo” o i “mai avrei potuto supporlo”; anche qui sulla base dell’antico adagio del cuius commoda eius et incommoda.

Qui veramente entrano in gioco i fondamentali principi costituzionali enunciati in apertura di quest’intervento: nel regime sabaudo era il Re (o almeno faceva comodo imputarglielo) che sceglieva il suo partner, a cui affidare una sua funzione: affare “del Re”. Un eventuale disservizio nell’esercizio della funzione del Re era lesione (solo) d’un mera interesse legittimo, che non dava luogo ad alcun risarcimento; tutt’al più si poteva attendersi -nei casi più gravi- qualche forma di indennizzo ottriato dalla sacra Maestà del Re: ecco la rivoluzionarietà della storica sentenza a Ss.Uu. n. 500 del 1999, che introdusse la piena risarcibilità anche della lesione del semplice interesse legittimo. È sulla falsariga di quell’affermazione giurisprudenziale (i cui principi ispiratori non sono ancorata interamente entrati nella prassi operativa generalizzata!) che il tema all’esame viene esaminato.

Aggiudicandosi il servizio-funzione, il concessionario diventa ad ogni effetto “cittadino cui sono affidate funzioni pubbliche”, che ha stretto inderogabile “dovere di adempierle con disciplina e onore”, come dispone l’art 54.2 Cost.. Nessuna (proprio nessuna, salvo l’atto d’incardinazione nella funzione) differenza di trattamento giuridico rispetto alla disciplina giuridica del pubblico ufficiale (nell’acronimo d’obbligo p.u.). Tutto questo suonerà certamente innovativo per il comune sentire, ma risponde ineludibilmente a ben precisi principi di diritto, appena che degl’istituti giuridici venga condotta un’analisi sistematica coerente. Invero se p. u. è chi esercita una funzione pubblica per legittima “investitura” dell’Autorità costituita, non si vede differenza tra chi l’esercita a seguito del decreto di nomina avendo vinto il concorso e chi è risultato aggiudicatario d’un appalto di pubblica funzione.

La concessione di aree demaniali per attività che comportino modifiche variamente strutturali allo status quo in atto -dalla costruzione edilizia alla semplice installazione di manufatti prefabbricati- può

formare oggetto solo di concessione onerosa, stante l’inalienabilità dei beni demaniali; principio peraltro notevolmente attenuato, stante la possibilità di dismissione di aree demaniali non più funzionali ad una fruizione pubblica. La distinzione di fondo tra le concessioni demaniali è legata al tipo di fruizione che ne forma oggetto, fermo che l’uso edificatorio dell’area è consentito solo a titolo superficiario regolato dagli artt. 952-956 del codice civile, in cui l’art. 952 dispone che “il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà” (ovviamente solo dell’edificio), fermo che, per l’art. 953, “se la costituzione del diritto è stata fatta a tempo determinato, allo scadere del termine il diritto si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione”.  Ovviamente la concessione demaniale è a titolo oneroso ed il relativo canone è regolato dall’art. 39 del CdN, fermo che per l’art. 49  (sempre del CdN) “quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restana acuisite allo Stato senza alcun compenso o rimborso” (non deve far meraviglia tale intima connessione delle due normative -C.C. e CdN- data la stretta connessione delle rispettive promulgazioni -CC 16.3.1942; CdN 30.3.1942- che presuppongono assoluta unitarietà di redazione).

 

Concessione di attività d’impresa

Un regime del tutto particolare segue la concessione d’un’attività d’impresa, che può avere ad oggetto sia l’organizzazione e/o la gestione d’un servizio pubblico, sia l’uso/esercizio d’un immobile pubblico (area o edificio) da usare/esercitare in forma d’impresa: in tutti codesti casi -sempre più frequenti nella dinamica della vita d’oggi- l’applicazione dei principi giuspubblicistici deve coordinarsi col complesso dei ”diritti d’impresa” particolarmente articolati, oggetto di recenti provvedimenti legislativi interni (cfr. L, 11.11.2011 n. 180, Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese”), attuativi dei principi del diritto europeo (Carta di Nizza).

 Nei bandi d’appalto per l’affido in concessione di servizi integranti funzione pubblica, non v’ha dubbio che debbano essere rispettate la disposizioni poste dallo Statuto legale dell’impresa, a cominciare da quel “principio generale” posto dalla lett. c dell’art. 2 della L. 180/2011, secondo cui il ”diritto dell’impresa di operare in un contesto normativo certo e in un quadro di servizi pubblici tempestivi e di qualità, riducendo al minimo i margini di discrezionalità amministrativa”. Tenendo presente che il bando di gara è la legge della concessione e che nessuna possibilità d’imposizione di adempimenti/vincoli della prestazione estranea e/o ulteriore al contenuto del bando è consentita al concedente, si deve ritenere, dall’un canto, che l’esecuzione/attuazione del bando di gara sia esaustivo delle obbligazioni comportamentali del concessionario; dall’altro, che le eventuali deficienze emergenti nel servizio in concessione siano imputabili/ascrivibili all’Amministrazione autrice del bando. Con una chiara conseguenze a favore della “stazione appaltante” (come un tempo era d’uso definirla) in ordine alla responsabilità della scelta del concessionario, rimessa integralmente all’ANAC. Tutto ciò sul piano negoziale e di adempimento delle obbligazioni di concessione.

Un tanto, se è esaustivo per le concessioni di servizi, non lo è affatto per le concessioni aventi ad oggetto, oltre che la prestazione d’un determinato servizio integrante la pubblica funzione, anche la modifica dello status -sia funzionale che immobiliare- del bene pubblico demaniale strumentale alla prestazione del servizio formanti oggetto della funzione in appalto. Si pensi -per stare in un campo d’azione divenuto di gran moda- alle concessioni del trasporto pubblico, che s’articola in vari adempimenti tra loro per nulla omogenei (dalla formazione degli orari alla manutenzione dei mezzi di trasporto e delle strutture necessarie al loro funzionamento), in cui il servizio finale dell’utente è la sommatoria d’una nutrita serie di sub-adempimenti di settore, il cui coordinamento risponde all’antico broccardo bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu.

 

Le concessioni demaniali “balneari”  

Nel secondo dopoguerra è letteralmente scoppiato il boom delle vacanze al mare, alle quali nessuno vuol rinunciare, donde la corsa dell’imprenditoria vacanziera agl’investimenti ”di spiaggia”, ovviamente per la maggior parte siti in aree demaniali marittime. Dopo il mezzo secolo “di pace” cominciò maturare la scadenza di moltissime concessioni di aree balneari, con i problemi nascenti dal citato art. 49 del CdN, donde un contenzioso assai aspro, a cui vari tentativi legislativi -sia statali che regionali- di “aggirarne” la perentorietà hanno soltanto aggravato una situazione normativa ben datata (il CdN è del 1942), ma mai correttamente impostata sul piano istituzionale, che non può che essere quello costituzionale. Ad aggravare l’asprezza del “contenzioso scadenziario” (relativo al trattamento post-scadenza) è intervenuto anche il diritto europeo, con la famigerata (per le aberranti disavventure interpretative di cui fu vittima) Direttiva Bolkenstein del 2006.

Sorprendente sul punto è l’impostazione di quel contenzioso -anche nelle Magistrature supreme- caratterizzata da una strana ed acritica sudditanza nei confronti delle leggi di materia (TU 1775/1933 sulle acque pubbliche & Codice della Navigazione -nell’acronimo d’obbligo, CdN), delle cui disposizioni viene fatta una del tutto acritica applicazione, senz’alcuna verifica della relativa compatibilità costituzionale (notare che anche il CdN risale al 1942), sostanzialmente incentrato sull’applicazione dell’art. 49 del CdN, secondo cui “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la  concessione le opere non amovibili, costruite nella zona demaniale, restano allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’Autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”.

La durata delle concessioni di aree demaniali è regolata dall’art 36 del CdN, che la distingue in breve, fino a 4 anni, e media, fino a 15 anni, di competenza dell’Autorità demaniale “locale”, mentre quelle di durata eccedente tale limite è di competenza del Ministero. Essendo la moda delle “vacanze al mare” scoppiata solo nel secondo dopoguerra, non parrà strano che della possibilità di “diversamente stabilire nell’atto di concessione” di aree balneari rispetto alla durata-standard non sia stata fatta applicazione (notare peraltro che nella concessione demaniale della spiaggia al Lido di Venezia per la costruzione del celebre albergo Excelsior, rilasciata nel 1888 -il cui rinnovo venne curato da chi scrive- la durata era stata fissata in novantanove anni).


= le controversie

Le controversie scoppiarono quando, venute a scadenza le concessioni di aree “balneari”, sulle quali erano state erette anche talora importanti opere edilizie (sempre ovviamente su benestare dell’Autorità demaniale), essendone vietato il rinnovo, si doveva far luogo ad una gara per la nuova concessione, ponendosi il problema del trattamento economico dell’indennizzo per la parte delle opere realizzate dal concessionario cessato e non ancora ammortizzate. A complicare -ammesso che fosse possibile- la già complicata situazione “interna” creata dalla mala interpretazione dell’art. 49 del CdN (peraltro del tutto erronea come tosto si dirà) intervenne la citata Direttiva Bolkenstein del 2006, che, per garantire la parità del trattamento delle imprese concorrenti, impose sempre ed in ogni caso l’asta pubblica. Qui ebbe a verificarsi quella che ben può definirsi la segnalata schizofrenia sia legislativa che giurisprudenziale.

Sul piano legislativo varie Regioni disciplinarono la fattispecie, stabilendo che il concessionario decaduto senza che fosse stato “coperto” con l’ammortamento delle opere legittimamente eseguite il suo credito residuo, ove non fosse stato risultato aggiudicatario della nuova concessione, conservava il diritto a percepire dal suo successore (il nuovo aggiudicatario) la  quota di ammortamento  non “coperta” col canone concessorio assolto; di tal che l’aggiudicatario diventava ipso jure vincitore di due “cose”: della gara della concessione e del suo il debito nei confronti del suo predecessore! Il tutto fatto derivare dalla Direttiva Bolkenstein, interpretata come riferita ad ogni concessione di aree demaniali, dove tale interpretazione della disposizione europea è null’altro che una Fake news, perché (come dichiarato dal suo stesso autore, il Bolkenstein, al Governo Italiano) essa si riferisce solo alle concessioni di servizi “di spiaggia” e non ad interventi edificatori, quelli che l’ultima parte del secondo comma dell’art. 36 del CdN definisce “impianti di difficile sgombro”. Per la cronaca va precisato che l’assunto contestato si riferisce ad una legge della Regione Friuli – Venezia Giulia dichiarata incostituzionale dalla Corte Cost. con sentenza 30.5.2018 n. 109, peraltro a sua volta con motivazione assolutamente inaccettabile. Ancora per completezza d’informazione va precisato che anche il Legislatore statale, sulla scia della stessa aberrante interpretazione della Direttiva Bolkenstein, è intervento col DL 194/2009, per intanto prorogando tutte indistintamente le concessioni demaniali di opere. Il tutto dovuto al fatto che nessuno di quei prodi supremi interpreti della legalità sia stato tentato a compulsare un indice analitico del codice civile alla voce proprieta superficiaria! Veramente mala tempora currunt!


= la soluzione corretta

La soluzione corretta muove da due punti-rilievi: il primo di sistema, il secondo di rilievo costituzionale.

a) il rilievo “di sistema”: l’art. 49 del CdN, regolando il regime delle concessioni demaniali “di spiaggia”, che allora (1942) erano rara avis ma che sarebbero poi dilagate nella prassi, apriva con una chiara riserva: “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione”, con ciò ponendo una gerarchia di concessioni fondata sulla relativa durata, regolata dall’art. 36 (sempre del CdN) secondo tre ipotesi: infra quadriennali; infra quindicinali, e tutte “le altre” la cui emanazione era riservata al Ministero; tutte peraltro e sempre “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione”. Ecco la chiave della soluzione, data dallo stesso tenore letterale della norma: regola generale è che il canone di concessione venga determinato discrezionalmente sulla base del valore delle opere costituenti l’oggetto della concessione; ciò a valere per ogni tipo di concessione “edificiale”. Ecco che conseguentemente l’intero art. 36 del CdN si limita a regolare la sola competenza al rilascio della concessione, fermo che il relativo canone va determinato ob rem discrezionalmente, sulla base della consistenza delle opere previste.

b) ad avvalorare l’assunto enunciato sovviene il primo Protocollo della CEDU, sulla tutela del diritto di proprietà, che dichiara in contrasto col diritto europeo la lesione d’un bene di proprietà del cittadino, quale che ne sia il titolo costitutivo. Le opere oggetto della concessione dell’area demaniale sono pleno jure nella proprietà superficiaria del concessionario (art. 952 C.C.) e tali restano finché il relativo costo non sia stato ammortizzato col pagamento del canone concessorio. Ovvia quindi e addirittura superflua la precisazione -sempre dell’art. 49 CdN- che, venuta a scadenza la concessione e quindi maturato l’ammortamento delle opere eseguite dal concessionario, “le opere non amovibili, costruite nella zona demaniale, restano allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’Autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”. Ovvio che quanto eretto dal cocessionario passa allo Stato senza indennizzo: è solo quanto prevede/prescriveamr l’art. 953 del codice civile per la proprietà superficiaria. Donde la palese aberranza dell’intera quaestio, cosi superficialmente posta.

 

La responsabilità del disservizio

Riprendendo il tema d’apertura, occorre precisare la responsabilità di eventuali disservizi che dovessero verificarsi nell’esercizio della pubblica funzione gestita dal concessionario, sia che venga esercitata da un soggetto singolo o in forma d’impresa.

Fermo che il controllo dell’ANAC sul bando di gara assorbe ogni dovere dell’Amministrazione appaltante di verificare l’esattezza delle dichiarazioni del concorrente, resta la diretta (e sostanzialmente unica) responsabilità del concorrente medesimo (soggetto singolo o società/impresa) in ordine alla veridicità del contenuto della richiesta di partecipazione alla gara. Non c’è dubbio che l’eventuale mendacio contenuto nella domanda di partecipazione alla gara costituisce illecito, che nei casi più gravi può dar luogo all’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione.

In ogni caso non pare dubitabile che la responsabilità dell’eventuale disservizio nell’adempimento (è la parola usata nell’art. 54.2) della funzione risponda il concessionario, nei confronti sia del cittadino che ne abbia subito le conseguenze, sia dell’Amministrazione concedente. Ciò discende de plano dal citato art. 54.2 Cost. che impone al ”cittadino cui sono affidate funzioni pubbliche” il dovere di “adempierle con disciplina e onore”: dove presupposto della responsabilità è l’affidamento della funzione non la qualifica di pubblico ufficiale. Ovvio che anche al concessionario si applica pleno jure il principio posto dall’art. 98 Cost., pur egli e per quanto di ragione posto “al servizio esclusivo della Nazione”.

Un quadro non sempre tenuto in debita considerazione.

Ivone Cacciavillani

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