La tutela cautelare è da sempre uno snodo fondamentale del processo amministrativo, sia per le ragioni che caratterizzano tutti i processi (il pericolo che la durata del giudizio pregiudichi la res controversa), sia per la peculiarità del processo amministrativo, che avendo ad oggetto provvedimenti dell’amministrazione pubblica esige un potere giurisdizionale capace di inibirne gli effetti nelle more del giudizio.

Nel corso del tempo, tuttavia, il carattere strumentale della tutela cautelare si è progressivamente spostato dalla sentenza verso la pretesa azionata.

La “sospensiva” classica, l’unica misura conosciuta per decenni nel processo amministrativo, era consona al processo di impugnazione su ricorso per la tutela degli interessi legittimi, soprattutto oppositivi. Per la verità poteva riguardare anche interessi pretensivi… ma degli altri – dei controinteressati – beneficiati da un provvedimento con effetti dannosi per il ricorrente.

Lungo e travagliato è stato il passaggio da questa tutela, prettamente inibitoria, ad una tutela più ampia e satisfattiva già in sede cautelare: dalla “sospensiva” classica alla tutela cautelare degli interessi pretensivi (la c.d. sospensione degli atti negativi), con anticipazione non degli effetti tipici dell’annullamento, ma degli effetti conformativi delle sentenze.

Un momento importante di svolta si è avuto con il Codice del processo amministrativo, quando il tema dell’incremento delle azioni e delle sentenze nel processo amministrativo si è correlato al tema dell’incremento delle pronunzie cautelari ammissibili, in uno sviluppo coerente dell’ordinamento.

Questa correlazione è stata confermata dall’eliminazione nel testo dell’art. 55 del Codice di ogni riferimento al “provvedimento”: in precedenza l’art. 21, 8° co. L. T.A.R. conteneva ancora un riferimento al “pregiudizio derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato”, ovvero “dal comportamento inerte dell’amministrazione”. Il 1° co. dell’art. 55 si limita invece a prevedere come presupposto della richiesta cautelare l’”allegazione” “di subire un pregiudizio grave ed irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso”.

Del resto, l’insofferenza della dottrina si era manifestata da tempo nei confronti delle forme cautelari “tipiche” (o della forma cautelare tipica della sospensione), auspicando forme “atipiche” che avrebbero garantito una tutela più piena, ma che si scontravano, ovviamente, con la legalità del potere amministrativo, la tipicità e nominatività dei provvedimenti.

Di qui – anche sulla scorta del nuovo Codice – una risposta giurisprudenziale senz’altro favorevole all’espansione delle forme cautelari, per cui la “sospensiva” ha finito per essere un “contenitore” e non un “tipo” di provvedimento: alle ordinanze classiche inibitorie e a quelle rese sugli atti negativi si sono affiancate ordinanze parziali, ordinanze a tempo, ordinanze interpretative, ordinanze sollecitatorie o propulsive di riesame, prescrittive di certi comportamenti, etc.

E dunque il provvedimento (o meglio la forma di espressione del potere amministrativo) non condiziona più la forma della tutela cautelare (il cui contenuto diventa “elastico”).

La tutela cautelare esige, e ha concretamente ottenuto, forme, contenuti, tempi non prefissati tipicamente, così da potersi adeguare concretamente alle diverse esigenze fatte valere in giudizio.

Il giudice amministrativo deve dunque emettere “le misure cautelari che gli appaiono, secondo le circostanze più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso” (formula introdotta dalla L. 205/2000 analoga a quella dell’art. 700 c.p.c. e oggi riprodotta dall’art. 55, 1° co. del codice).

Misure “innominate”, secondo gli auspici della dottrina e le tendenze ormai consolidate in giurisprudenza, per cui l’atipicità diviene così imprevedibilità della misura cautelare di fronte alla variabilità delle fattispecie portate in giudizio.

Certo, il provvedimento cautelare non può di regola prescindere dal giudizio di merito, non può essere autosufficiente nel definire la controversia, come invece avviene nel processo civile dopo la riforma del 2005 dell’art. 669 octies (ultimi 3 comma).

Ma esistono anche nel processo amministrativo casi in cui la pronunzia cautelare è autosufficiente, perché definisce la lite: ad esempio, nel caso di provvedimenti cautelari sollecitatori di un riesame, poiché il successivo esercizio del potere di riesame in ossequio alla pronunzia cautelare esaurisce quella lite (se positivamente per il ricorrente perché perde interesse al ricorso, se negativamente perché è tenuto ad impugnare il nuovo provvedimento negativo). E naturalmente in sede cautelare effetti definitivi (più che di definizione della lite) si hanno nei casi in cui, rigettata la domanda cautelare, il provvedimento venga portato ad esecuzione con effetti irreversibili (demolizione; sgombero; espulsione), salvo l’esito del giudizio di merito.

Rimane in tali casi l’azione risarcitoria, ma non viene mantenuta integra la res litigiosa.

Ed effetti definitivi può naturalmente avere anche un’ordinanza cautelare favorevole, tanto che il legislatore prevede in tali ipotesi (se produce effetti irreversibili) la possibilità di disporre una cauzione.

Del resto, la fase cautelare è sempre stata coinnestata – nel processo amministrativo – all’instaurazione del giudizio di merito.

Proprio questo persistente collegamento tra istanza cautelare e domanda principale, unito alla estensione dei contenuti della pronunzia cautelare e alla valorizzazione anche processuale della fase cautelare, delineano ora nettamente il possibile sviluppo del sistema.

Il giudizio cautelare sta cambiando ruolo: oggi l’istanza cautelare e la conseguente udienza in camera di consiglio può diventare (e sta diventando) il mezzo per una prima verifica della causa anche ai fini della decisione di merito, il filtro delle domande portate in giudizio, il luogo dell’eventuale decisione del merito o della necessità di approfondimento nel merito.

Nel processo civile la domanda cautelare ha un grande rilievo, ma non è la regola; nel processo amministrativo, la stragrande parte dei ricorsi contiene un’istanza cautelare, non solo perché il provvedimento impugnato deve essere fronteggiato con il potere inibitorio del giudice, ma anche perché l’incidente cautelare è oggi il passaggio attraverso il quale si può giungere direttamente alla decisione di merito o comunque perseguire un suo più rapido raggiungimento. Oltre ovviamente alla possibilità della sentenza “semplificata”, si ricordi che l’art. 55, co. 10 del Codice ha presto atto di ciò stabilendo che il giudice, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano “apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio di merito, fissa con ordinanza collegiale la data di discussione del merito”.

La fase cautelare cioè diviene il luogo di verifica preliminare, alla prima udienza successiva alla presentazione del ricorso, dell’esigenza di tutela invocata.

Tale esigenza può essere soddisfatta dalla stessa misura cautelare atipica (che può anche essere autosufficiente); o può condurre ad una decisione di merito ove siano completi il contraddittorio e l’istruttoria e sentite sul punto le parti costituite.

E’ importante notare che l’art. 60 del Codice non subordina più la sentenza semplificata alla manifesta irricevibilità, inammissibilità, fondatezza o infondatezza del ricorso, lasciando al Collegio (“può”) la decisione sul punto e condizionando la decisione solo a profili procedurali (che siano trascorsi almeno 20 giorni dall’ultima notificazione), salvo che una delle parti chieda termine per proporre ricorso incidentale, motivi aggiunti o regolamento.

E l’esito della domanda cautelare può inoltre condizionare la fissazione del merito: infatti l’art. 55, co. 11 del Codice stabilisce più in generale che l’ordinanza con cui viene disposta una misura cautelare fissi anche l’udienza di merito.

Mentre il Consiglio di Stato, se conferma l’ordinanza, e questa non abbia fissato il merito (o la riforma accogliendola) dispone che il TAR provveda con priorità.

In questa situazione, la fase cautelare è andata legittimamente sottraendosi al confronto con il tradizionale elemento del “periculum in mora”, dirigendosi finanche a verificare se il ricorso possa essere deciso immediatamente, in quanto l’art. 60 del codice ha “generalizzato” la decisione in forma semplificata senza più tipizzarne le ipotesi.

Discorso a parte meriterebbero certo gli specifici riti, e andrebbero approfonditi i rapporti tra udienza cautelare e udienza di merito nei nuovi riti speciali “abbreviati” (disciplinati dagli artt. 119 e 120 del Codice).

Ma, in definitiva: nel quadro complessivo che si è fin qui esposto, è necessario considerare che la strumentalità della tutela cautelare nel processo amministrativo è cambiata, e che soprattutto è cambiato e sta cambiando il ruolo dell’udienza cautelare: da uno strumento diretto a mantenere adhuc  integra la res litigiosa fino all’esame del merito ad un mezzo o momento di verifica dell’esigenza di tutela, da soddisfare con misure provvisorie o con una decisione di merito semplificata o con un ordinato sviluppo del giudizio.

Discorso a parte meriterebbero peraltro i rapporti fra misura cautelare e decisione di merito dopo l’avvento dell’azione risarcitoria, giacché è evidente che la possibilità di condanna dell’amministrazione alla reintegrazione in forma specifica, ma soprattutto di condanna al risarcimento del danno per equivalente, introduce un altro elemento di stretta connessione tra fase cautelare e di merito; la possibilità di risarcimento per equivalente può indebolire le ragioni della tutela cautelare, come può indebolirla o rafforzarla la possibilità di ottenere una sentenza di reintegrazione in forma specifica, a seconda che il rapporto in cui si inserirà la sentenza possa essere ancora vitale o già esaurito. D’altro canto, la domanda risarcitoria collegata alla domanda di annullamento dovrebbe responsabilizzare il giudice, chiamato a considerare come l’accoglimento o meno della domanda cautelare possa, all’esito del giudizio, comportare o meno la condanna risarcitoria dell’amministrazione, una volta che l’annullamento non sia più satisfattivo.

A fronte di questo cambiamento, la regola della condanna alle spese nella fase cautelare (art. 57 del Codice), che risponde all’evidente fine di disincentivare l’utilizzo dello strumento, appare antistorica e miope, in quanto volta a contenere – con le potenzialità espansive della domanda cautelare – l’effettività della tutela giudiziaria.

Deve invece apprezzarsi e valorizzarsi il fatto che l’udienza cautelare finisca per essere la prima (e preziosa) occasione di incontro fra le parti e il giudice, il luogo della verifica delle esigenze concrete di tutela e dello stato del processo, così da consentire l’adozione di tutte le misure necessarie per una efficace protezione degli interessi in gioco e insieme per una celere conclusione del processo.

E sarebbe oltremodo opportuno che tale occasione fosse esplicitamente riconosciuta dal legislatore: in questo senso è stata infatti la proposta votata dall’Unione degli avvocati amministrativisti al Congresso di Bologna del 2018.

Come si collega questo ruolo “potenziato” dell’udienza cautelare con il nuovo art. 71 bis (effetti dell’istanza di prelievo), introdotto dalla legge di stabilità del 2016 secondo il quale “a seguito dell’istanza di cui al co. 2 dell’art. 71, il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma “semplificata”? In precedenza la funzione dell’istanza di prelievo, introdotta per la prima volta in modo formale e autonomo dal Codice del processo amministrativo al 2° comma dell’art. 71, era quello di sollecitare il Presidente a fissare anticipatamente l’udienza di merito rispetto all’ordine costituito dalla data di deposito del ricorso.

Nella prassi l’istanza di prelievo era diventata così frequente da farne ritenere inutile la presentazione se non con una specifica motivazione e sempre che i Presidenti attribuissero ad essa un’effettiva rilevanza.

L’istanza di prelievo, prima dell’introduzione dell’art. 71 bis, aveva dunque perso gran parte della sua funzione (salvo gli effetti sulla applicazione della legge Pinto: cfr. ROMEO), proprio per il rilevato sviluppo del ruolo dell’udienza cautelare nella quale il giudice può disporre ben di più della semplice sospensione del provvedimento impugnato e viene stemperato anche il rilievo del periculum in mora (GALLO).

L’art. 71 bis attribuisce dunque alla istanza di prelievo un effetto nuovo: non solo che il ricorso possa essere deciso con priorità, ma che possa essere deciso nel merito in camera di consiglio con sentenza resa in forma semplificata.

Se l’istanza di prelievo debba evidenziare oltre che l’urgenza di una decisione anche una situazione di manifesta fondatezza (o infondatezza, irricevibilità, improcedibilità etc.) del ricorso (visto che può essere presentata tanto dal ricorrente quanto dall’amministrazione resistente o dal controinteressato), sembrerebbe doversi dedurre dal rito camerale e dalla forma semplificata della sentenza che conclude il giudizio.

Se questo rito abbia o meno un reale significato ce lo chiariranno i successivi relatori.  Mentre io vorrei osservare soltanto che il nuovo rito dell’art. 71 bis dovrebbe comportare che tutte le istanze debbano essere tempestivamente esaminate dal Presidente e tutte, di accoglimento o di rigetto, motivate ai sensi dell’art. 3, co. 1 del Codice che impone la motivazione a tutti i provvedimenti giurisdizionali (ferma restando che la decisione se il giudizio meriti o meno la forma semplificata, secondo alcuni, spetta poi al collegio, sentite le parti, che ben potrebbe poi rimetterlo ad una pubblica udienza).

La loro generalizzazione e l’acquisto di una funzione effettiva nello svolgimento del giudizio potrebbe effettivamente depotenziare il ruolo assunto dall’udienza cautelare perchè le nuove istanze di prelievo potrebbero soppiantare quelle cautelari prive di un effettivo periculum in mora, ma presentate egualmente dal ricorrente al fine di ottenere un primo confronto con il collegio per manifestare le proprie esigenze di celerità ovvero dirette ad ottenere una sentenza resa in forma semplificata, riducendo così il ruolo delle cautelari a quello più tipico di preservare la situazione soggettiva adhuc integra nelle more dello svolgimento del giudizio di merito.

Ciò non significa che il provvedimento e l’udienza cautelare torneranno ad essere le “sospensive” che furono perché rimarranno dotate di quei caratteri di atipicità e adeguatezza che hanno conquistato nel tempo, ma certo una generalizzazione dell’istanza di prelievo ex art. 71 bis, con il conseguente ampliarsi del rito camerale con decisioni rese in tempi accelerate e in forma semplificata, renderà l’incidente cautelare necessario per fronteggiare effettivi pericula in mora, posto però, ripeto, che i ricorrenti e i presidenti delle sezioni colgano tutte le potenzialità delle nuove istanze di prelievo.

Vedo invece un ruolo autonomo del rito del prelievo ex art. 71 bis, sganciato da qualsiasi attinenza con il ruolo dell’udienza cautelare, se guardato dal punto di vista delle parti resistenti, che effettivamente vengono a disporre di uno strumento molto utile per fronteggiare ricorsi strumentali “messi lì” da ricorrenti che non hanno reale interesse alla decisione, ma solo a mantenere uno stato di “belligeranza minacciosa” con l’amministrazione o i controinteressati, da risolvere eventualmente su altri tavoli che non quello del giudizio.   Ricorsi che dunque mai saranno sollecitati dai ricorrenti, ma che possono esserlo dalle altre parti chiamate in giudizio e che hanno invece interesse a risolvere il (o a sgomberare il campo dal) contenzioso.

Certo molto cambierebbe di quello che ho detto sul ruolo dell’udienza cautelare se dovesse aver seguito la proposta di Caputi Jambrenghi (al convegno di Bologna) di introdurre anche nel giudizio amministrativo l’istituto della mediazione/conciliazione che esigerebbe dunque una udienza ad hoc. Ma su questo tema so che parlerà/interverrà l’avv. Veronese.

Vittorio Domenichelli

* Relazione tenutasi al convegno su “Dal processo al procedimento: ruolo e prospettive della tutela cautelare e del rito camerale nel rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione” svoltosi a Venezia il 2 dicembre 2019, presso Cà Vendramin Calergi.

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