Sommario: 1. Premessa. – 2. Possibili dubbi di costituzionalità della legge di delega. – 3. Natura e funzione dei decreti c.d. correttivi. – 4. Possibile deficit strutturale della riforma 2016 – 2017. – 5. Distonia funzionale del decreto correttivo. – 6. Necessità, «comunque», del decreto correttivo. – 7. Problemi irrisolti e problemi nuovi nel decreto correttivo.

 

1. Il d.lgs. n. 56/2017 è fonte integrativa e correttiva del codice dei contratti pubblici[1], introdotto con il d.lgs. n. 50/2016; il c.d. correttivo reca migliaia di disposizioni che vanno necessariamente lette in combinato disposto con quelle del codice che vi sono corrette o integrate.

Il corpus normativo che ne deriva assume una connotazione peculiare, anche sul piano funzionale, a fronte delle vicissitudini proprie del sistema normativo previgente. Ognuna delle disposizioni ora vigenti è frutto di percorsi sovente tortuosi e a elevato tasso di tecnicismo, ripercorrere i quali potrebbe essere concretamente utile e anzi finanche necessario per una compiuta esegesi della singola disposizione o del singolo gruppo omogeneo di disposizioni riferiti a una medesima figura giuridica.

Nondimeno può risultare di maggiore interesse, quanto meno in prima battuta, comprendere la genesi del c.d. correttivo e quali siano le dinamiche interne della disciplina di rango legislativo che gli operatori si trovano a dover fronteggiare.

L’antecedente giuridico immediato del vigente codice dei contratti pubblici è il d.lgs. n. 163/2006, che raggruppava norme sparse nell’ordinamento nazionale, introdotte per stratificazioni successive e spesso per ragioni congiunturali, perseguendo l’obiettivo – inter alia – di coordinarle con l’euro-diritto, a sua volta spesso magmatico e alluvionale.

L’esperienza maturata nel vigore delle discipline previgenti non è stata delle più felici: il d.lgs. n. 163/2006 ha subito ben 52 modificazioni nell’arco di dieci anni e ciò ha determinato una situazione di radicale incertezza negli operatori, i quali si sono trovati a dover seguire percorsi operativi, e ad assumere decisioni concrete, sulle sabbie mobili di una disciplina strutturalmente rigida[2] ma continuamente modificata, assoggettata a input diversi e di diversa origine, sovente interpretata in modo ondivago dalla giurisprudenza.

L’esperienza concreta mostra che, su numerose e certo non irrilevanti questioni, lo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia è divenuto di frequentissimo impiego, anche per “scavalcare” soluzioni elaborate, relativamente a esse, finanche dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con inevitabili ripercussioni non solo sui modi ma anche sui tempi di definizione delle liti, oltre che sulla tenuta della filiera di nomofilachia di diritto nazionale[3]. A scapito, naturalmente, sia del principio del giusto processo, nell’accezione di processo a durata ragionevole, sia del c.d. principio di certezza del diritto.

Nel contempo, il d.lgs. n. 163/2006, pur con le innumerevoli modifiche e integrazioni a esso via via apportate dal legislatore, presentava deficit strutturali e contenutistici e autentici buchi neri interpretativi[4], divenuti il terreno di elezione di contrasti giurisprudenziali, i quali a loro volta hanno reso sempre più impellente il tema – e il problema – dell’impatto delle decisioni del giudice amministrativo sull’operato delle amministrazioni[5].

Un esempio, tra i molti che si potrebbero fare, di questione banale lasciata irrisolta dal d.lgs. n. 163/2006, ma di notevole impatto sulla vita delle amministrazioni e delle imprese: una volta che il giudice amministrativo annulli l’aggiudicazione di un appalto per un vizio che determina la riedizione delle operazioni di valutazione delle offerte, queste possono essere svolte dalla medesima commissione di gara o devono essere svolte da una commissione diversa? La giurisprudenza del giudice amministrativo sul punto era divisa, sia fra i vari T.a.r. sia fra le diverse Sezioni del Consiglio di Stato: con il non irrilevante effetto che le pubbliche amministrazioni, ogni volta che l’annullamento dell’aggiudicazione disposta dal giudice amministrativa imponeva il rifacimento delle procedure valutative, non sapevano in concreto come condursi[6].

Il d.l.gs n. 163/2006, in definitiva, ci ha consegnato un insieme di regole frammentate e un mondo devastato, anche per la costante difficoltà di individuare lo spezzone normativo da applicare ratione temporis a una singola fattispecie[7].

Su questo contesto sono intervenute – con un ulteriore impatto destabilizzante sulla sua possibile tenuta futura – le direttive dell’Unione europea del 2014[8], delle quali naturalmente si imponeva il recepimento a opera degli Stati membri.

L’idea di un nuovo codice è sorta quindi dalla necessità di sopperire alle  difficoltà, pragmatiche e sistematiche, derivanti dalla disciplina in allora vigente, nonché dalla necessità di tempestivo recepimento delle direttive europee.

A ciò si è proceduto con una legge di delegazione legislativa – la n. 11/2016 – che impone(va) il riordino della disciplina tenuto conto sia delle nuove direttive, sia della giurisprudenza formatasi nel vigore del d.lgs. n. 163/2006; alla legge delega è stata data attuazione con il d.lgs. n. 50/2016, assoggettato peraltro dalla stessa legge di delega a un intervento correttivo – sempre tramite decreto legislativo – da emanare entro un anno dalla sua entrata in vigore.

 

2. Questa essendo la strada prescelta dal legislatore per la ridisciplina della materia, è opportuno indagare in primo luogo quali sono le regole che presiedono all’esercizio della delega legislativa.

Ai sensi dell’art. 76 Cost., il Parlamento può delegare il Governo all’esercizio della potestà legislativa individuandone i tempi, i principi e i criteri direttivi. Per consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, se il Governo non rispetta i tempi o viola i principi e criteri direttivi fissati con la legge di delega, il decreto legislativo delegato si pone fuori dall’orbita della costituzionalità.

Il rischio di incostituzionalità per “difformità” dalla legge di delega, in una materia come quella in esame, è particolarmente forte ove si consideri la struttura del giudizio di costituzionalità possibile relativamente a essa. Siamo infatti nella «materia» della concorrenza[9], che appartiene alla potestà legislativa statale esclusiva: ne consegue che gli eventuali profili di illegittimità costituzionale del decreto legislativo non potranno, per solito, essere fatti valere in via immediata mediante lo strumento del ricorso promosso in via principale dalle Regioni[10] e saranno suscettibili di emergere, sempre per solito, unicamente in sede di giudizio incidentale di costituzionalità promosso da un’autorità giudiziaria chiamata a dirimere una lite nella quale si ponga, e sia rilevante, la questione di legittimità costituzionale di una norma recata dal decreto legislativo di cui quell’autorità giudiziaria ritenga fondato il dubbio di legittimità costituzionale perché esorbitante dai limiti temporali, dai criteri direttivi o dai principi della legge di delega. La questione dunque potrebbe porsi in un momento futuro non definibile e a disciplina legislativa (delegata) vigente e applicata da anni: e va da sé che il suo accoglimento potrebbe determinare il travolgimento in parte qua del decreto legislativo.

Tanto il d.lgs. n. 50/2016 quanto il d.lgs. n. 56/2017 (il c.d. correttivo) scontano l’incertezza – quanto a tenuta costituzionale della disciplina con essi introdotta – derivante dagli importanti profili per i quali è possibile dubitare della loro piena conformità alla legge di delega: essi sono esposti, cioè, sia pure in parte qua, al rischio di essere dichiarati incostituzionali per violazione della legge di delega.

A dirlo, con riferimento al d.lgs. n. 50/2016, è il Consiglio di Stato nel parere reso dall’Adunanza della Commissione speciale n. 782/2017, formulato in funzione dell’emanazione del d.lgs. n. 56/2017. Ivi il Consiglio di Stato ha posto in chiara evidenza che, ai sensi della legge di delega, il Governo era tenuto ad adottare il d.lgs. n. 50/2016 previo parere del Consiglio di Stato. In effetti, lo schema di d.lgs. del 2016 è stato trasmesso al Consiglio di Stato per l’acquisizione del parere prescritto dalla legge, sennonché il testo pubblicato in Gazzetta ufficiale contiene disposizioni non recate dallo schema trasmesso al Consiglio di Stato, sulle quali questo, pertanto, non ha reso il parere necessario.

Il d.lgs. n. 50/2016 contiene dunque alcune disposizioni emanate in violazione delle regole stabilite dalla legge di delega, perché su di esse non è intervenuto il parere del Consiglio di Stato: tali disposizioni sono quindi esposte al rischio di declaratoria di incostituzionalità.

Si tratta di rischio che si riverbera anche sulla stabilità potenziale del decreto correttivo: non può assumersi per pacifico che la problematicità del d.lgs. n. 50/2016 sia elisa dal fatto che il parere del Consiglio di Stato sia intervenuto sullo schema di correttivo: residuano disposizioni originarie, non assoggettate  all’intervento correttivo, emanate senza che su di esse sia stato previamente assunto il parere, necessario, del Consiglio di Stato.

Il Consiglio di Stato non specifica analiticamente quali sono le disposizioni del d.lgs. n. 50/2016 che soffrono del deficit che esso pone in evidenza: sarà quindi compito degli operatori del diritto scovarle, attraverso un minuzioso controllo del contenuto dello schema di decreto, del parere del Consiglio di Stato e del decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale.

E va da sé che l’alert lanciato dal Consiglio di Stato è sufficientemente potente, e persuasivo, per indurre una siffatta operazione, dalla quale potrebbe risultare minata, non si sa con quale impatto concreto, la tenuta della disciplina di rango legislativo.

 

3. La genesi del decreto correttivo è, come dicevo, nella legge di delega, la quale prevede che il Governo, entro un anno dall’entrata in vigore del decreto n. 50/2016, possa emanare un decreto (legislativo) correttivo e integrativo.

L’interprete deve dunque, in via preliminare, interrogarsi in ordine alla natura del decreto legislativo correttivo e integrativo.

Questa species di decreti legislativi non è prevista dalla Costituzione, ma la prassi ordinamentale degli ultimi anni ne ha visto un uso diffuso e avvallato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale è possibile che la legge di delega conferisca al Governo «la possibilità di esercitare nuovamente la potestà delegata entro un determinato termine decorrente dall’entrata in vigore dei decreti legislativi con i quali si è esercitata la delega “principale”»[11].

La Corte costituzionale precisa che la potestà “ulteriormente” delegata, da esercitare cioè a valle dell’esercizio della delega “principale”, ha i «fini di correggere – cioè di modificare in qualche sua parte – o di integrare la disciplina legislativa delegata» e che essa deve osservare i «medesimi criteri e principi direttivi operanti per la delega “principale”, e con le stesse garanzie procedurali (pareri, intese)».

Precisa ancora la Corte che «siffatta procedura si presta a essere utilizzata soprattutto in occasione di deleghe complesse, il cui esercizio può postulare un periodo di verifica, dopo la prima attuazione, e dunque la possibilità di apportare modifiche di dettaglio al corpo delle norme delegate, sulla base anche dell’esperienza o di rilievi ed esigenze avanzate dopo la loro emanazione, senza la necessità di far ricorso a un nuovo procedimento legislativo parlamentare, quale si renderebbe necessario se la delega fosse ormai completamente esaurita e il relativo termine scaduto. Nulla – specifica la Corte – induce a far ritenere che siffatta potestà delegata possa essere esercitata solo per “fatti sopravvenuti”: ciò che conta, invece, è che si intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle norme delegate già emanate, e non già in funzione di un esercizio tardivo, per la prima volta, della delega “principale” ».

La c.d. delega correttiva è dunque senz’altro possibile, ma tanto la previsione di essa in sede di legge di delega quanto il suo esercizio incontrano alcuni limiti, sostanziali e procedurali, posti in chiara evidenza dalla Corte costituzionale e sui quali più volte si è analiticamente soffermato il Consiglio di Stato, in sede sia di Adunanza generale sia di Sezione normativa[12].

Innanzi tutto la c.d. delega correttiva trova la sua giustificazione «soprattutto [ma, evidentemente, non solo] in occasione di deleghe complesse»: che quella conferita al Governo con la l. n. 11/2016 sia una delega complessa, non è revocabile in dubbio: e dunque, sotto il profilo causale la previsione della legge di delega di un futuro correttivo appare giustificata.

La legge di delega, poi, deve fissare l’arco temporale entro cui è possibile l’esercizio della delega c.d. correttiva e integrativa; che la legge di delega abbia fissato il limite temporale per l’esercizio della delega correttiva, e che questo sia stato rispettato dal Governo, è del pari certo.

L’esercizio della delega correttiva deve inoltre rispettare i medesimi criteri e principi direttivi operanti per la delega “principale”, e rispettare inoltre le medesime garanzie procedimentali previste per questa. Ciò è ragionevole, perché se i limiti sostanziali e procedurali sanciti dalla legge di delega non possono essere violati dalla decretazione delegata “principale”, men che meno essi sono suscettibili di trasgressione ad opera della decretazione delegata avente funzione meramente correttiva del corpus normativo già posto e vigente.

Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale – e dalla lettura che a essa è stata data in particolare dal Consiglio di Stato – si ricava però che la c.d. delega correttiva è diretta ad apportare «modifiche di dettaglio al corpo delle norme delegate» (già emanate), «dopo la prima attuazione» di queste, «sulla base anche dell’esperienza o di rilievi ed esigenze maturate dopo la loro emanazione»: la funzione della c.d. delega correttiva e integrativa consiste dunque nel correggere o integrare le norme delegate già emanate, né essa può avere il contenuto di esercizio, per la prima volta, della delega “principale”.

Sul clare loqui della Corte costituzionale si è formato il convincimento – espresso limpidamente dal Consiglio di Stato nel parere reso sullo schema di correttivo – che il decreto correttivo deve mantenersi nel solco del decreto legislativo “principale” e non può riformare scelte che in esso siano recate, perché il correttivo è strumento utile, e utilizzabile, non già per «riformare la riforma», bensì per correggere o integrare la riforma introdotta con il decreto “principale”. Il correttivo, detto altrimenti, non è la sede dei ripensamenti del legislatore delegato: se il Governo ritiene di doverli operare, esso è tenuto – beninteso, ove ulteriormente delegato – a introdurre un’altra riforma, non potendo  stravolgere in sede di correttivo l’impianto normativo già posto in essere nell’esercizio della delega originariamente conferitagli. La possibilità per il decreto correttivo di intervenire sul decreto “principale” appare dunque limitata: e a venire in gioco è un limite funzionale del correttivo, quale delineato dalla Corte costituzionale.

Un ulteriore limite proprio della tecnica della c.d. delega correttiva, anch’esso funzionale e anch’esso rinvenibile nella ratio della legge di delega che preveda la possibilità di decreti correttivi o integrativi, è che questi possono assolvere alla funzione di correggere o integrare la disciplina legislativa delegata “principale” dopo un primo periodo di sperimentazione.

Entrambi i limiti funzionali propri della tecnica della delega correttiva, e di conserva del decreto correttivo n. 56/2017, non possono ritenersi integralmente e pienamente rispettati avuto riguardo sia a taluni dei contenuti del correttivo, sia, sul piano generale, ai tempi fissati per l’esercizio della delega correttiva.

Sotto il primo profilo, il Consiglio di Stato, nel parere espresso sullo schema di correttivo, rileva che alcune delle sue previsioni non sono integrazioni o correzioni del decreto delegato di base, ma veri e propri cambiamenti di rotta: i quali, però, non si prestano a essere introdotti con un mero correttivo.

Di cambiamento di rotta il Consiglio di Stato parla con riferimento alla ri-disciplina del sub-appalto recata dallo schema di correttivo, nonché con riferimento alle modifiche introdotte alle procedure di affidamento per i servizi sociali (di cui all’All. 9 d.lgs. n. 56/2017). Con riguardo a questi ultimi, il Consiglio di Stato osserva che il d.lgs. n. 50/2016 aveva operato una scelta specifica: mentre nel campo dei servizi sociali le procedure europee lasciavano spazi di manovra alla legislazione nazionale per predisporre procedure di affidamento e scelta del contraente più «leggere» rispetto al modello ordinario, il d.lgs. n. 50/2016 ha ritenuto di estendere la procedura ordinaria in modo uniforme anche ai servizi sociali. Si tratta di una scelta di sistema del codice, che investe un intero settore oggetto di regolamentazione. Sennonché il correttivo, nell’ambito dei servizi sociali, ne estrapola una species, predisponendo per questa un regime semplificato, mentre per gli altri lascia immutata l’applicazione della procedura ordinaria. Il parere del Consiglio di Stato è che ciò non possa essere fatto in sede di correttivo, in quanto si tratta di un evidente «cambiamento di rotta» rispetto alla scelta di sistema operata con il d.lgs. n. 50/2016. Non solo. Il Consiglio di Stato stigmatizza che la suddivisione dei servizi sociali in species distinte è priva di una chiara ragione, apparendo in definitiva estemporanea. Si noti che, nonostante lo stigma del Consiglio di Stato sullo schema di decreto correttivo, questo, nel testo poi approvato ed entrato in vigore, reca la segmentazione dei servizi sociali in due species (art. 140, commi da 5-bis a 5 nonies del codice, come riformulato dal correttivo).

Ritengo di dover rimarcare che il Consiglio di Stato reputa che simili cambiamenti di rotta rispetto al codice originario sia di dubbia costituzionalità: ed è presumibile che gli operatori abbiano già elaborato ricorsi, i cui motivi sono già stati scritti dal Consiglio di Stato.

Si tratta soltanto di due modesti esempi, rilevanti però sul terreno operativo, di ambiti relativamente ai quali il correttivo ha trasbordato dalla funzionalità ordinariamente propria dei correttivi, così ipotecando la propria stabilità (per il rischio di incostituzionalità che vi è insito).

Il correttivo appare deficitario anche al cospetto del secondo dei limiti funzionali dei decreti correttivi che ho sopra compendiato: la ratio della loro possibile emanazione (che beninteso deve essere recata dalla legge di delega) consiste nel consentire, dopo un primo periodo di sperimentazione, gli aggiustamenti e i correttivi del decreto delegato “principale” che si rivelino necessari o finanche opportuni a seguito di una prima applicazione operativa di questo, ovvero «dell’esperienza o di rilievi ed esigenze avanzate dopo la [sua] emanazione»[13] .

A questo proposito, il parere del Consiglio di Stato evidenzia che dal momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 all’emanazione del correttivo non è passato un arco temporale sufficiente a consentire la sperimentazione pratica necessaria per comprendere cosa fosse necessario correggere o integrare.

A essere così posto in luce è un deficit strutturale della stessa legge di delega, per aver questa assegnato al legislatore delegato un arco temporale troppo breve per l’emanazione del correttivo: il Governo era bensì vincolato a emanare il correttivo entro l’arco temporale fissato dalla legge di delega, ma quell’arco temporale era troppo esiguo per consentire al correttivo di svolgere la funzione ad esso propria.

Il deficit strutturale della legge di delega si riverbera dunque in deficit funzionale del correttivo.

E sembra chiaro che ciò mina in profondità la riforma del 2016-2017, ipotecando la ragionevolezza, la bontà, l’efficienza e l’efficacia dell’operazione normativa perseguita dal legislatore sin dalla legge di delega.

 

4. Il deficit strutturale della riforma, apprezzabile in special modo sotto il profilo della inidoneità del correttivo ad assolvere alla funzione a esso propria, appare evidente sotto un ulteriore profilo, anch’esso posto in luce dal parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di correttivo.

E infatti, come rileva il Consiglio di Stato nel parere sul decreto correttivo[14], il d.lgs. n. 50/2016 abbandona il modello della regolamentazione di attuazione compatta, imperniato sull’integrazione della disciplina legislativa di base con un regolamento unitario di attuazione (modello seguito invece con il d.lgs. n. 163/2006 e relativo regolamento di attuazione), e introduce il modello della regolazione attuativa affidata a una pluralità di autorità diverse, alle quali è sovente demandato il compito di emanare atti attuativi di tipo c.d. flessibile: al criterio gerarchico si è, cioè, fortemente combinato il criterio della settorialità e della competenza settoriale, affidata ad autorità terze (taluna delle quali denominata indipendenti) ed esercitata con strumenti c.d. di soft law[15].

Nell’effettuare tali scelte il d.lgs. n. 50/2016 risponde a input derivanti in parte dal diritto europeo e dall’avvertita necessità che gli atti necessari per l’attuazione del corpus normativo di rango legislativo avvenga per blocchi disciplinari specifici. La scelta di un modello di regolazione attuativa affidata a strumenti flessibili risponde poi, oltre che a un trend ormai diffuso, a esigenze pratiche, perché la rigidità strutturale delle norme diverse da quelle c.d. flessibili rappresenta sovente la causa di difficoltà di loro celere adattamento a contingenze o bisogni di nuova emersione: di qui la preferenza per modelli di atti attuativi che siano, anche sotto il profilo temporale, agevolmente  modificabili e non dotati di rigida vincolatività (e cioè, come talora si dice, soft).

Si può senz’altro convenire sulla opportunità, finanche sulla necessità, del passaggio dal modello di una normativa attuativa unica, compatta e assoggettata a meccanismi rigidi, e dispendiosi in termini temporali, di modificazione-adattamento a situazioni nuove o non previste, a una regolamentazione attuativa per settori e connotata in termini di maggiore fluidità, elasticità, possibilità di rapida modificazione.

Si può anche prendere atto dell’entusiasmo del  legislatore delegato nei confronti di strumenti c.d. di soft law, quali sono, secondo un’opinione diffusa, le linee guida, ma non si può trascurare che sono sempre più percepibili, una volta «assopita l’entusiastica retorica della persuasione, i segni dell’intervento giurisdizionale su atti sin lì designati o designabili come privi di efficacia vincolante e/o privi di sanzione: fenomeno che viene oramai correntemente definito come di “indurimento” del soft law»[16].

La stessa efficienza del paradigma attuativo per settori e con strumenti flessibili è condizionata inoltre dalla limpidezza del quadro legislativo da attuare e dal suo atteggiarsi a corpus disciplinare omogeneo; dovrebbe in ogni caso essere evitata la frammentazione dello strumentario attuativo in una pluralità di atti promananti da una pluralità di soggetti istituzionali, il cui reperimento e il cui coordinamento è suscettibile indurre in capo agli operatori proprio quelle difficoltà decisionali che il paradigma attuativo per settori e affidato a strumenti flessibili vorrebbe invece eliminare.

Si è però calcolato – lo ricorda sempre il Consiglio di Stato nel suo parere sullo schema di correttivo – che l’attuazione del d.lgs. n. 50/2016 richiedeva 53 atti attuativi necessari alla sua operatività, ai quali si aggiungono ulteriori due atti attuativi introdotti dal correttivo: l’iper-regolazione in funzione attuativa è, perciò, tratto connotante la riforma del 2016-2017.

Nel nostro caso, il mutamento di paradigma – da uno strumento di regolazione attuativa unitario e compatto, tramite d.p.r., a una pluralità di strumenti eterogenei e flessibili – poggia su un corpus legislativo di per sé e per larghi tratti dotato di scarsa chiarezza e suscettibile di una pluralità di interpretazioni contrapposte: tale dunque da esporre gli atti di attuazione a critiche di arbitrarietà per aver prescelto una piuttosto che altra delle contrapposte interpretazioni possibili della disposizione da attuare, oppure per aver introdotto regole attuative non indotte dal tenore delle disposizioni legislative da attuare e perciò prive di copertura legislativa.

Non solo: il mutamento di paradigma quanto all’attuazione delle disposizioni di rango legislativo è stato realizzato con la previsione di una pluralità di atti attuativi affidati alla competenza di una pluralità di soggetti istituzionali diversi, tutti appartenenti al novero delle amministrazioni pubbliche e tutti perciò esposti al rischio di essere travolti dall’intervento costitutivo del giudice amministrativo, ove li ritenga illegittimi vuoi per contrasto con la fonte di rango legislativo, vuoi per contrasto con i principi di ragionevolezza o di proporzionalità[17].

Quanto alla frammentazione degli strumenti attuativi, il Consiglio di Stato osserva, nel parere reso sullo schema di correttivo, che il d.lgs. n. 50/2016 ne delinea almeno quattro species: le linee guida[18], vari decreti del Ministero delle infrastrutture, decreti interministeriali, alcuni di concerto e altri no, deecreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Il quadro degli atti necessari per l’operatività del sistema tuttavia non si esaurisce nelle quattro species di atti attuativi sopra ricordati, emergendone, dalla disciplina posta dal d.lgs. n. 50/2016, almeno altre due tipologie.

Il d.lgs. n. 50/2016 infatti prevede che A.n.a.c. abbia anche il potere di definire la propria struttura organizzativa e procedimentalizzare l’esercizio dei propri poteri: l’esercizio dei poteri di auto-regolamentazione presuppone peraltro l’adozione di atti di auto-regolamentazione, per i quali la legge richiede l’acquisizione del parere del Consiglio di Stato. Va da sé che la sola procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri di A.n.a.c. postula un arco di tempo non breve per essere disciplinata, a scapito quindi della possibilità di immediato esercizio di quei poteri e così, e di conserva, di celere entrata a regime del sistema delineato dal d.lgs. n. 50/2016.

Non sono infrequenti poi le ambiguità interpretative delle norme del decreto attributive di poteri ad A.n.a.c., né quelli in cui si registrano difformità di vedute tra le convinzioni di A.n.a.c. e il Consiglio di Stato, in sede di parere, in merito a ciò che la legge consenta oppure no ad A.n.a.c.[19]

Ulteriore atto di competenza di A.n.a.c., definito nella legge come «linee guida», è la fissazione dei costi standard, dei quali il Consiglio di Stato rileva non essere chiara né la natura giuridica né la forza, né il coordinamento con i c.d. prezziari regionali di cui all’art. 213 del codice.

L’ambiguità e l’incertezza che ne derivano non sono certo di poco rilievo.

 

5. I dati sopra compendiati, posti in luce dal Consiglio di Stato nel parere reso sullo schema di correttivo, sono significativi di per sé, e dal punto di vista pratico sono tali da rendere del tutto prevedibile già ai nastri di partenza, ossia al momento dell’elaborazione del decreto legislativo “principale”, che una tale mole di atti attuativi non avrebbe potuto essere emanata, nel rigoroso rispetto dei procedimenti stabiliti dalla legge, entro un anno dalla sua entrata in vigore.

E così infatti è stato: dopo un anno dall’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 era stata emanata soltanto una piccola frazione degli atti necessari per la sua attuazione e dunque per l’operatività del sistema da esso introdotto. Detto altrimenti, la macchina era ancora ben lungi dal funzionare.

Va da sé pertanto che, allo scadere del primo anno di vigenza del d.lgs. n. 50/2016, non era neppure ipotizzabile un’applicazione pratica della disciplina con esso introdotta che fosse tale da consentire di evidenziare i problemi attuativi suscettibili di essere risolti con il correttivo.

La conseguenza è che il correttivo è inidoneo ad assolvere alla sua funzione: esso è (avrebbe dovuto essere) deputato a correggere le carenze applicative di un sistema che, nella sua compiutezza, non è mai divenuto operativo.

Sotto il profilo del metodo, poi, un’operazione volta a correggere o a integrare disposizioni la cui inadeguatezza sia rilevate in sede di sua applicazione, postula che si proceda, previamente, al monitoraggio sull’applicazione della regolazione vigente, alla valutazione di impatto di questa (v.i.r.) e all’analisi di impatto della regolazione da introdurre (a.i.r.).

Il Consiglio di Stato, nel parere sullo schema di correttivo, rileva che nulla di tutto questo è stato realmente fatto: la v.i.r. si è risolta in un’indagine parlamentare e in una consultazione dei r.u.p. di stazioni appaltanti, manca l’analisi di un qualsiasi legame tra eventuali criticità emerse in sede di applicazione del d.lgs. 50/2016 e le modificazioni introducende, le quali sono prive di alcuna indicazione e analisi degli indicatori.

La carenza, alla base del decreto correttivo, di processi istruttori, e in particolare di v.i.r. e di a.i.r., non è rilevata dal Consiglio di Stato per mero spirito critico, ma perché ha ricadute rilevantissime su taluna delle scelte compiute dal Governo in sede di correttivo e sulla loro reale genesi, non riconducibile alle funzioni proprie di un decreto correttivo.

Ciò è a dirsi – tra i molti esempi che si potrebbero fare – in tema di allocazione del rischio e di equilibrio economico e finanziario nelle concessioni (art. 165 d.lgs. n. 50/2016): il codice ante correttivo stabiliva che, per il raggiungimento di detto equilibrio, l’amministrazione poteva stabilire in sede di gara anche un contributo pubblico non superiore al 30% del costo complessivo dell’investimento; il correttivo modifica la soglia percentuale del contributo pubblico possibile. elevandola dal 30 al 49%. Il Consiglio di Stato osserva che il Governo non ha fatto precedere l’innalzamento della soglia del contributo pubblico possibile né da v.i.r. né da a.i.r., quand’anche ciò sarebbe stato necessario per verificarne l’impatto complessivo, anche in termini di finanza pubblica aggregata, e rileva che la sola spiegazione rinvenibili è rappresentata dalla pressione sul Governo degli operatori del settore, interessati a ottenere una riforma delle concessioni utile a diminuire il rischio a proprio carico. Il Consiglio di Stato, in altre parole, adombra che il Governo si sia piegato, sostanzialmente, a pressioni lobbistiche di operatori di mercato.

Il Consiglio di Stato osserva, con prosa direi sferzante, che «il mancato raccordo tra monitoraggio, v.i.r. e correttivo, rappresenta la vera occasione mancata dell’intervento correttivo che, senza analisi d’impatto, rischia di trasformarsi in un intervento poco efficace se non oneroso o controproducente».

 

6. Al contempo, lo stesso Consiglio di Stato sottolinea che, comunque, l’adozione di un correttivo era necessaria: e non è operazione facile contemperare la critica strutturale-funzionale così del correttivo come del decreto legislativo “principale” e della stessa legge di delega con la rilevazione della necessità «comunque» del correttivo.

Le ragioni per le quali, secondo il Consiglio di Stato, il correttivo era «comunque» necessario perché rispondente a esigenze ineludibili, nonostante la sua evidente distonia rispetto alla funzione propria dei correttivi, sono presto dette, e sono riconducibili a quattro macro-aree.

La prima macro-area prende corpo a fronte della constatazione che il d.lgs. n. 50/2016 è un codice «fatto in fretta» e figlio della fretta, affetto da centinaia di errori materiali, addirittura con proposizioni prive di punteggiatura conclusiva; al disastro, nelle sue componenti più marchiane, è stato ovviato nell’immediato con l’avviso di rettifica pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 16 luglio 2016[20], ma molti altri errori materiali sono sopravvissuti.

Il correttivo dunque ha rappresentato l’ultima spiaggia per cercare di superare almeno qualcuno dei deficit più importanti del d.lgs. n. 50/2016: e rappresentava l’ultima spiaggia perché, scaduto l’anno dall’entrata in vigore di questo, le disastrate discipline che vi erano recate sarebbero state emendabili solo con leggi (e relativi tempi) di riforma, ripetendo così l’esperienza, non ripetibile perché dannosa per l’economia, per la stabilità dell’ordinamento e per la certezza del diritto, del d.lgs. n. 163/2006 e delle sue oltre cinquanta modifiche legislative in sei anni. La prima macro-area di intervento del correttivo è quindi l’eliminazione degli errori materiali del codice sopravvissuti alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’avviso di rettifica. Va da sé che si tratta di funzionalità eccentrica a quella tipizzata per i correttivi, ma comunque necessaria.

La seconda macro-area relativamente alla quale il correttivo doveva necessariamente intervenire ed era quindi «comunque» necessario, è quella relativamente alla quale il d.lgs. n. 50/2016 manifestava deficit di coordinamento esterno (con altri leggi vigenti). All’indomani della sua pubblicazione era stato immediatamente rilevato, per esempio, il difetto di coordinamento con il codice del processo amministrativo, rinvenendosi nel d.lgs., plurimi rinvii a discipline processuali recate dal d.lgs. n. 163/2006 ma ormai da anni non più  vigenti e sostituite dal cod. proc. amm. Il correttivo ha così creato o rafforzato alcuni coordinamenti esterni, ma altri ne sono sopravvissuti o si sono successivamente generati: si pensi all’emanazione del d.lgs. sulle partecipate, che “parla” dell’in house in modo non del tutto conforme a come ne “parla” il d.lgs. n. 50/2016.

La terza macro-area di intervento del correttivo è volta a colmare alcune distonie del d.lgs. 50/2016 rispetto sia all’euro-diritto sia alla legge delega. Mantenere in vigore un codice affetto da distonie di tale portata significava consegnare alle amministrazioni e agli operatori economici un testo normativo quanto meno fragile, esposto – quanto alle distonie rispetto all’euro-diritto – a forti rischi di disapplicazione da parte delle amministrazioni ovvero di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte dei giudici, ed esposto inoltre – quanto alle distonie rispetto alla legge di delega – all’intervento della Corte costituzionale. Va da sé che le pubbliche amministrazioni e gli operatori, così come tutti i cittadini, non possono sopportare l’aleatorietà di una disciplina e della sua tenuta, che è ovviamente cosa ben diversa dalla in parte strutturale incertezza che la connoti. E tuttavia, come rileva il Consiglio di Stato nel parere sullo schema di correttivo, non tutte le distonie tra codice ed euro-diritto sono state eliminate con il correttivo….

Infine, la quarta macro-area alla quale sono riconducibili le disposizioni del correttivo è quella della correzione e integrazione del d.lgs. n. 50/2016: ma, come rileva il Consiglio di Stato nel parere sullo schema di correttivo, le disposizioni così funzionalizzate – rispondenti cioè alla funzione tipica dei correttivi – sono, paradossalmente, minimali nell’impianto del correttivo.

 

7. Il Consiglio di Stato rileva infine che lo schema di correttivo non ha colmato tutte le lacune né ha eliminato tutte le ambiguità proprie del d.lgs. n. 50/2017, e che pure ben si prestavano a essere rimediate; ne segnalo soltanto una, di impatto immediato.

L’art. 24 d.lgs. n. 50/2016 dispone che, per i prezzi, si deve fare riferimento ai prezziari regionali, che scadono al 31 dicembre ma sono comunque utilizzabili nei sei mesi successivi; il codice non dispone alcunché per il caso in cui una Regione non predisponga il prezziario; sorge dunque l’interrogativo, posto dal Consiglio di Stato, se, ove si verifichi una tale evenienza, le gare possano oppure no essere bandite.

Il d.lgs. n. 50/2016, all’art. 213 – lontanissimo dunque dall’art. 24 – dispone che A.n.a.c. provveda, «con apposite linee guida, e fatte salve le normative di settore, all’elaborazione dei costi standard dei lavori e dei prezzi di riferimento di beni e servizi». Il Consiglio di Stato pone così il problema della conciliazione tra prezziari regionali e costi standard e prezzi di riferimento elaborati da A.n.a.c., e rileva inoltre la necessità di regolare il rapporto tra competenze regionali e poteri di A.n.a.c.

Questo non è stato fatto con il correttivo, ed è agevole presumere che ne nascerà una conflittualità non di poco momento tra Regioni e A.n.a.c. quanto al ruolo e alla forza dei rispettivi atti.

Il correttivo appare lacunoso anche quanto alla disciplina dei nuovi poteri di impugnativa attribuiti ad A.n.a.c., dei quali il Consiglio di Stato – in sede di parere – ha rilevato il mancato coordinamento con le disposizioni del cod. proc. amm., segnalando la molteplicità delle questioni che si determineranno nella pratica: prima tra tutte quella dell’ammissibilità di una eventuale domanda giudiziale di A.n.a.c. di dichiarazione di inefficacia del contratto stipulato a valle dell’atto da essa impugnato e reputato illegittimo dal giudice.

Non è certo di poco momento né di scarso rilievo pratico e sistematico il problema che il correttivo non si è posto e che ha consegnato agli sconfortati interpreti.

Chiara Cacciavillani

 

[1] Così chiamato nel lessico corrente, ma denominato dal legislatore come «attuazione delle direttive 2013/23 Ue, 2014/24/Ue e 2014/25 UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture».

[2] Perché introdotta con atto avente forza di legge, e in quanto tale impermeabile a modificazioni ad opera di atti privi di tale forza.

[3] Cfr., paradigmamente, il rinvio pregiudiziale di C.g.a.R.S., ord. n. 848/2013, in dissonanza da Ad. plen. n. 9/2014, in tema di decidibilità di ricorso principale e di ricorso incidentale escludenti nel contenzioso relativo a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, cui ha fatto seguito Corte giust. 5 aprile 2016, C-689/13, Puligenica c. Argest, e su cui, di recente, Cons. Stato, Sez. III, n. 3708/2016. Sul tema, da ultimo, cofr. Sez. un., n. 31226/2017.

[4] Basti pensare a quello di recente posto in luce da Cons. Stato, Sez. III, n. 5294/2017, che, con stigma esteso per vero anche alla disciplina del codice dei contratti pubblici oggi vigente, osserva che «il tema della finanza di progetto implica la soluzione di questioni molto complesse sul piano giuridico, funzionale, amministrativo, economico e processuale, anche perché solo adesso stanno venendo al pettine molte problematiche finanziarie, gestionali e operative di precedenti esperimenti di project financing», e che «il vero problema è che, sul punto, la normativa che si è succeduta nel tempo non appare di grande chiarezza sistematica e si presta a interessate interpretazioni ondivaghe».

[5] Ne è un esempio la vicenda sottostante al caso deciso da Ad. plen. n. 2/2017, in cui un’amministrazione, dopo aver aggiudicato un appalto alla ditta prima classificata, è intervenuta in autotutela sull’aggiudicazione e, scorrendo la graduatoria, ha disposto l’aggiudicazione in favore della ditta seconda classificata. L’impresa prima graduata, colpita dalla revoca dell’aggiudicazione, ha adito vittoriosamente il T.a.r. e l’amministrazione, in esecuzione della sentenza di primo grado, ha a essa aggiudicato in via definitiva l’appalto. La seconda graduata, divenuta prima a seguito della revoca originariamente disposta dall’amministrazione nei confronti della prima, ha appellato al Consiglio di Stato la sentenza di accoglimento del ricorso di quest’ultima e conseguito vittoria. Risulta così definitivamente accertato il suo diritto all’aggiudicazione e al contratto ma, medio tempore, esso ha avuto integrale esecuzione e non può quindi conseguire l’utilità materiale per ottenere la quale ha vittoriosamente agito in giudizio.

[6] A questo specifico problema fa fronte, almeno apparentemente, l’art. 77 d.lgs. n. 50/2016.

[7] Cfr. ad es. l’imponente sforzo ermeneutico profuso da Cons. Stato, Sez. III, n. 975/2017 per risolvere la controversia sottopostagli – con ratio decidendi innovativa decisamente apprezzabile – alla luce della disciplina applicabile ratione temporis ma ormai superata da sopravvenienze legislative.

[8] Si tratta delle ben note direttive UE nn. 23, 24 e 25.

[9] La quale, per la compatta giurisprudenza della Corte costituzionale, è però una non materia, o materia trasversale.

[10] Per Giurisprudenza costituzionale pacifica, «le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono il riparto di attribuzioni solo quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di competenze (Corte cost., ex multis sent. n. 251/2016, § 2.1. del considerato in diritto).

[11] Così Corte cost., sent. n. 206/2001, par. 5 del considerato in diritto. Dalla medesima sentenza sono tratte le citazioni che seguono.

[12] I riferimenti sono recati nel parere del Consiglio di Stato, Commissione speciale, n. 782/2017, reso sullo schema di decreto correttivo: Ad. gen., n. 1/2007; Sez. normativa, n. 2660/2007; Sez.  normativa, n. 3838/2007; Sez. normativa, n. 2602/2011.

[13] Cfr. Corte cost., sent. n. 206/2001, par. 5 del considerato in diritto.

[14] Cfr. § 1.2.

[15] Spunti al riguardo in F. Sorrentino, Il sistema delle fonti nel diritto amministrativo,  in Le fonti del diritto amministrativo, Annuario A.i.p.d.a. 2015, Napoli, 2016, pp. 1 ss, il quale osserva «il declino della legge, come fonte di norme generali, astratte e soprattutto stabili nel tempo (sì da poter rappresentare per i singoli e per gli operatori economici un affidabile parametro di orientamento per le proprie attività)»  e la corrispondente tendenziale preferenza per un «flessibilità normativa di soft law, che dovrebbe produrre efficienza e legalità, ma che è invece destinata ad accrescere il tasso di discrezionalità normativa e amministrativa, fonte sicura di incertezze e arbitrii.».

[16] Così M. Mazzamuto, L’atipicità delle fonti nel diritto amministrativo, in Le fonti del diritto amministrativo, cit., 193 ss., qui 242.

[17] Del resto, come osserva ancora M. Mazzamuto, L’atipicità delle fonti, cit., p. 245, «soltanto il fervore ideologico degli innovatori o la pura ingenuità o ancora la scarsa sensibilità per la tutela dei cittadini di fronte ai pubblici poteri potevano lasciar pensare che siffatto nuovo fenomeno fosse risolvibile nell’elusione di una grandiosa tradizione, uno dei pezzi più pregiato delle garanzie costruite dalla civiità giuridica moderna, e cioè il diritto amministrativo». Vero è, osserva lo studioso, che quel patrimonio è oggi esposto a pericoli perché «la spinta all’efficienza che deriva dalla competitività … pretende di intaccare le garanzie dello Stato di diritto (amministrativo), prospettando pubblici poteri che hanno solo da raggiungere risultati e che si preferirebbe così, avventuristicamente, affrancare dal sindacato del giudice amministrativo». Il quale, aggiungo, non sempre dà mostra di essere insensibile alla spinta all’efficienza.

[18] Le quali sono di diversa tipologia e diversa – e talora incerta – denominazione: il d.lgs. n. 50/2016 parla di linee guida vincolanti, di linee guida non vincolati, di linee guida «generali», di linee guida «comunicate», senza che si possa comprendere quale figura giuridica sia di volta in volta evocata. Competenti all’emanazione di linee guida, poi, sono A.n.a.c. e vari Ministeri.

[19] Basti considerare i rilievi svolti dal Consiglio di Stato, Commissione speciale, n. 282/2017, con riferimento alle originarie linee guida di A.n.a.c. per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house: elenco, con correlato potere di A.n.a.c.di disciplinare con apposite linee guida l’iscrizione a esso, previsto dall’art. 192 d.lgs. n. 50/2016. Il caso è curioso e merita di essere ricordato: le linee guida originarie prevedevano che dalla data di cancellazione dall’elenco i contratti già aggiudicati devono essere revocati e affidati con procedure di evidenza pubblica; nel parere reso in argomento, il Consiglio di Stato aveva rilevato che la previsione delle linee guida era priva di copertura legislativa…

[20] Il quale concerne quasi la metà degli articoli di cui si compone(va) il d.lgs. n. 50/2016.

 

*Il presente intervento riprende l’analogo contributo pubblicato in “La professione del giurista – Scritti in onore di Luigi Manzi” – Editoriale scientifica, Napoli, 2018

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