1- Le varianti verdi.

La legge regionale n. 14/2017 sul contenimento del consumo dei suoli è stata preceduta dalla l.r. 16 marzo 2015 n. 4 che, tra le varie “disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette”, ha previsto, all’art. 7, le “varianti verdi per la riclassificazione di aree edificabili[1]. A differenza di altre leggi regionali – e mi riferisco anche alla legge “organica” sul consumo dei suoli n. 14/2017 – il testo (costituito da un solo articolo della “leggina”) è apparentemente di una semplicità esemplare, contenendo poche disposizioni scritte in corretta lingua italiana e di facile comprensione.

Tutto facile, dunque?

No, come si vedrà.

La “leggina” prevede che entro il 31 gennaio di ogni anno (e quindi per un futuro indeterminato) tutti i comuni debbano pubblicare (l’espressione “pubblicano” è indice inequivocabile del carattere imperativo della prescrizione) un avviso con il quale invitano gli “aventi titolo che abbiano interesse” a presentare entro 60 giorni (termine che è da ritenere ordinatorio) “la richiesta di riclassificazione di aree edificabili, affinchè siano private della potenzialità edificatoria a loro riconosciuta dallo strumento urbanistico vigente e siano rese inedificabili”.

Il Comune ha l’obbligo di valutare le richieste entro 60 giorni (termine anch’esso ordinatorio) e “qualora ritenga le stesse coerenti con le finalità di contenimento del consumo del suolo, le accoglie mediante approvazione di apposita variante al piano degli interventi”, in base a due diversi procedimenti, a seconda cioè che il Comune sia munito o meno di PAT (ovviamente approvato).

Nel primo caso sarà seguita l’ordinaria procedura prevista dall’art. 18 l.r. 11/2004, commi da 2 a 6 per l’approvazione del P.I. e relative varianti, mentre nel secondo caso, in assenza di PAT approvato, dovrà seguirsi la procedura semplificata di cui all’art. 50 commi 6 e 7 l.r. 61/1985 (norma abrogata dall’art. 49 comma 1 lett. e) della l.r. 11/2004, ma più volte risuscitata dal legislatore regionale come si evince dalle svariate norme transitorie contenute nell’art. 48 della legge abrogatrice, ma tant’è).

Il Comune può rigettare la richiesta soltanto se – ragionando a contrariis –  ritenga che la richiesta non sia “coerente con le finalità di contenimento del consumo dei suoli”.

Pacifica essendo, come già detto, la sussistenza di un vero e proprio obbligo di provvedere, il “silenzio” del Comune sulla richiesta di riclassificazione è impugnabile avanti il giudice amministrativo, come già deciso dal TAR Veneto sez. II, con la recentissima sentenza del 24 luglio 2017 n. 732: che ha ordinato ad un Comune “di istruire e concludere il procedimento obbligatorio per legge e sollecitato a seguito della presentazione dell’istanza della ricorrente entro il termine di centoventi giorni dalla comunicazione della presente sentenza”.

Nonostante la chiarezza della legge, la circolare della Giunta regionale n. 1 del 1 febbraio 2016 complica notevolmente le cose, come accade ab immemorabili anche a livello statale, laddove le circolari anziché limitarsi ad illustrare il contenuto della legge tendono sostanzialmente a modificarlo od integrarlo: ciò che potrebbe anche essere sintomo di una carenza della legge, non certo rimediabile con una circolare.

Conviene quindi soffermarsi sul contenuto della circolare, che nel suo esordio precisa che le “varianti verdi…consentono ai comuni di operare, su proposta dei cittadini interessati, la restituzione all’uso agricolo o naturale dei suoli interessati, attraverso la loro riclassificazione urbanistica, in sintonia con gli obiettivi di contenere il consumo di suolo e di invertire il processo di urbanizzazione del territorio….” aggiungendo, poi, che “la norma anticipa dunque le finalità di una legge organica in materia sollecitando, con un primo e temporaneo “rimedio” (rappresentato per l’appunto dalle varianti verdi) l’adesione dei comuni a politiche urbanistiche più attente alla riorganizzazione e alla riqualificazione del tessuto insediativo esistente”.

Fin qui, dunque, nessun problema.

Le complicazioni nascono dal fatto che la circolare vincola i comuni a valutare, a’sensi del comma 2 della legge, le domande pervenute a seguito dell’avviso pubblico, sulla base di “criteri oggettivi indicati nell’avviso stesso e stabiliti in coerenza con le indicazioni contenute nella presente circolare[2].

Gli altri parametri cui il Comune dovrebbe attenersi, ai fini dell’accoglimento o rigetto delle istanze di riclassificazione, sono dunque i seguenti:

1) il rapporto con la programmazione urbanistica;

2) la congruenza localizzativa e dimensionale delle aree da riclassificare;

3) il rispetto dei diritti edificatori di terzi;

4) l’attualità delle previsioni di piano o di accordi.

È di tutta evidenza che le indicazioni di maggior rilievo contenute nella circolare vanno ben oltre la previsione legislativa, che, come risulta chiaramente dal comma 2 dell’art. 7, pone un solo parametro per la valutazione delle richieste di riclassificazione: la coerenza con la finalità di contenimento del consumo di suolo.

È infatti indubitabile che gli elementi di valutazione indicati dalla circolare potrebbero essere tali da contrastare con le finalità del contenimento di consumo di suolo e che potrebbero, se ritenute ostative all’accoglimento dell’istanza, comportarne il rigetto e, conseguentemente, il mantenimento dell’edificabilità e quindi consentire il consumo del suolo.

Ne consegue che, a seguire le indicazioni contenute nella circolare, la riclassificazione potrebbe essere negata pur essendo perfettamente coerente con le “finalità di contenimento del consumo del suolo”, espressamente enunciate nella legge, in presenza di ragioni ostative di tutt’altro genere, come quelle indicate nella circolare, comportanti consumo di suolo (e non considerate dalla legge).

Con ciò non si vuol sostenere l’irrazionalità degli elementi di valutazione introdotti dalla circolare rispetto alla legge, ma il loro carattere sostanzialmente modificativo della legge, ciò che non può consentirsi attraverso una circolare.

È il caso di soffermarsi sul contenuto dei parametri individuati dalla circolare regionale per supplire alle carenze – vere o presunte – della legge.

Oscuro – per la sua assoluta genericità – appare il riferimento alla programmazione urbanistica ed all’attualità delle previsioni di piano (o degli accordi aventi efficacia equipollente: stranamente non identificati con riferimento agli artt. 6 e 7 della l.r. 11/2004) di cui ai punti 1 e 4 del riassunto che precede.

Se la Giunta regionale avesse voluto preoccuparsi del rispetto degli standard, meglio avrebbe fatto ad esplicitarlo (ferma l’obiezione sull’impossibilità di integrare la legge attraverso una circolare).

In verità l’unico riferimento agli standard è contenuto nella circolare a tutt’altri fini, per escludere cioè che la riclassificazione possa “consentire la partecipazione delle aree interessate ad operazioni di trasformazioni urbanistica, né direttamente, né indirettamente (localizzazione di standard urbanistici, attribuzione di diritti edificatori di qualsiasi natura ed entità)”.

In parole povere la circolare esclude che le aree riclassificate a verde possano essere destinate a standard, perché ciò comporterebbe il consumo di suolo che la legge vuole evitare.

A questo punto è opportuno chiarire il significato delle espressioni “aree edificabili” e “potenzialità edificatorie” contenute nel comma 1 della legge, tenuto conto che vi sono aree edificabili in via diretta (ad esempio nelle zone B, secondo la terminologia del D.M. 1444/1968) ed aree edificabili in zone C di espansione soggette a strumento urbanistico attuativo, così come sono da considerare a tutti gli effetti edificabili le aree destinate ad insediamenti produttivi (zone D), ma anche quelle destinate ad “attrezzature ed impianti di interesse generale” (zone F): per l’elementare ragione che anche questi insediamenti comportano consumo di suolo attraverso l’edificazione, consentita in molti casi anche ad opera di soggetti privati.

Non potrà pertanto negarsi la riclassificazione di un’area solo perché la “programmazione urbanistica” o le previsioni del PRG o del P.I. la qualifichino come F o per il fatto che sia compresa all’interno di un ambito soggetto a piano attuativo.

V’è dunque da chiedersi se possa legittimamente negarsi la riclassificazione di un’area in base ai parametri di valutazione previsti dalla circolare regionale ma, lo si ripete ancora, non dalla legge – e cioè a tutela di interessi contrastanti con l’obiettivo di contenimento del consumo di suolo predicato dalla legge.

La risposta dovrebbe essere, a stretto rigore, negativa, per la già sottolineata impossibilità di modificare la legge attraverso una circolare.

Ammesso e non concesso che la Giunta regionale si sia resa conto della necessità di modificare la l.r. 4/2015 a meno di un anno dalla sua promulgazione (come sembra potersi dedurre dal tenore della circolare n. 1 dell’11 febbraio 2016) stupisce che non abbia proposto al Consiglio regionale di introdurre modifiche attraverso la legge “organica” sul contenimento del consumo di suolo n. 14/2017.

Anche a voler ammettere tale possibilità, sarebbe precipuo onere del Comune motivare adeguatamente sulle ragioni “imperative” (per usare la terminologia europea) che impongano il consumo del suolo a seguito dell’accertamento che la riclassificazione di una determinata area comporterebbe l’insufficienza degli standard (ipotesi, questa, che potrebbe rivelarsi nella maggioranza dei casi irrealistica, tenuto conto della generale sovrabbondanza degli standard previsti per il passato dagli strumenti urbanistici generali nella prospettiva di uno sviluppo che, come ben sappiamo, non si è concretato).

Passando ora ad esaminare il parametro della “congruenza localizzativa e dimensionale delle aree da riclassificare” (punto 2 delle indicazioni della circolare riassunte nelle pagine precedenti) non possiamo che confessare di non aver capito che cosa la Giunta volesse intendere.

Se il legislatore ha espressamente dichiarato che la finalità della legge è quella di favorire il contenimento del consumo di suolo,  è chiaro che le dimensioni e la localizzazione delle aree da riclassificare paiono irrilevanti, giacché la privazione della potenzialità edificatoria di una determinata area è l’unico obiettivo che la legge si prefigge di raggiungere.

La legge infatti non prevede certo la riconversione all’uso agricolo, ciò che sarebbe assurdo in una zona già urbanizzata, indipendentemente dalla dimensione del fondo: tant’è che la circolare ha cura di precisare – correttamente – che “l’aggettivo verdi” presente nella rubrica dell’articolo suggerisce due possibili riclassificazioni…quella di “zona agricola”…quella di “area di verde privato”.

Ne consegue che anche un lotto di 500 mq – al pari di uno di 5.000 – può essere riclassificato, indifferentemente, a zona agricola od a verde privato, quale che sia la sua “localizzazione”.

In sostanza l’obiettivo implicito nell’art. 7 l.r. 4/2015 ed esplicitato invece all’art. 1 della successiva legge organica 14/2017 è quello di preservare “il suolo, risorsa limitata e non rinnovabile…bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita…per l’equilibrio ambientale….nonchè per la produzione agricola”: laddove la salvaguardia e la promozione della produzione agricola è l’ultima delle ragioni ispiratrici della legge ai fini del contenimento del consumo di suolo, definito all’art. 2 comma 1 lett. c) l.r. 14/2017 come “l’incremento della superficie naturale e semi naturale interessata da interventi di impermeabilizzazione del suolo, o da interventi di copertura artificiale, scavo o rimozione, che ne compromettano le funzioni eco-sistemiche e le potenzialità produttive”.

Problemi più delicati pone il terzo parametro individuato dalla circolare: il rispetto dei diritti edificatori di terzi.

L’espressione usata è ambigua e comunque atecnica e perciò stesso fonte di confusione: più corretto sarebbe il concetto di “potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà”, secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 2861/2017: mezzo secolo fa Aldo Sandulli qualificava come diritto edificatorio soltanto quello nascente dal rilascio della licenza o concessione edilizia).

Non è dunque chiaro cosa intendesse la Giunta per “diritti edificatori di terzi”, da tenere in considerazione ai fini dell’accoglimento o meno della richiesta di riclassificazione, anche se è possibile azzardare delle ipotesi, come si vedrà tra poco.

Meglio avrebbe fatto la circolare a spendere qualche parola a proposito degli “aventi titolo”, che, in forza del comma 1 della legge sono abilitati a presentare la richiesta di riclassificazione.

L’istanza deve essere presentata dal proprietario o, nel caso di comunione, da tutti i comproprietari, giacché va escluso che possa considerarsi “avente titolo” un solo comproprietario, in base al principio generale dell’art. 1102 cod. civ. (“ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”).

Se il lotto edificabile è gravato da usufrutto, è da escludere che l’usufruttuario “abbia titolo” a chiedere la riclassificazione senza il consenso del nudo proprietario, mentre sembra da escludere la necessità del consenso dell’usufruttuario per la richiesta avanzata dal nudo proprietario del terreno edificabile, dal momento che in forza dell’art. 986 cod. civ. l’usufruttuario non potrebbe costruire senza il consenso del nudo proprietario.

Diverso è il caso se l’area edificabile è ricompresa all’interno di una zona di espansione soggetta a strumento urbanistico attuativo (come già accennato in precedenza) o addirittura all’interno di un piano attuativo già approvato o in corso di approvazione su istanza del (o dei) titolari di almeno il 75% della superficie dell’intero ambito, come previsto dall’art. 20 l.r. 11/2004.

In questi casi la riclassificazione potrebbe pregiudicare l’interesse dei terzi all’attuazione dello strumento attuativo, salvo l’ipotesi dello “stralcio” dell’area da riclassificare, rimesso alla valutazione del Comune, tipica espressione di discrezionalità tecnica.

La l.r. 4/2015 non si preoccupa di tutelare l’interesse dei terzi, titolari o meno dei “diritti edificatori”, ancorché portatori di un interesse contrapposto a quello del richiedente la riclassificazione: costoro potranno soltanto proporre osservazioni nel procedimento di approvazione della variante urbanistica a seguito della pubblicazione della delibera di adozione, come previsto dall’art. 18 comma 3 l.r. 11/2004.

Come è noto l’art. 13 l. 241/1990 esclude l’applicabilità delle norme sulla partecipazione agli atti di pianificazione, ma nulla vieterebbe comunque al Comune di inviare una comunicazione di avvio del procedimento di variante verde a potenziali controinteressati a’sensi dell’art. 7 l.r. 240/1990 tenendo conto peraltro del breve termine di 60 giorni (sicuramente ordinatorio come già detto) fissato dal secondo comma dell’art. 7 l.r. 4/2015 per la valutazione della richiesta di riclassificazione da parte del Consiglio comunale.

In caso di opposizione di un terzo pregiudicato dall’istanza di riclassificazione il Comune si troverebbe costretto ad operare una scelta tra i contrapposti interessi, privilegiando quello del contenimento del consumo di suolo oppure quello del consumo; così come a fronte dell’approvazione della variante verde il terzo potrebbe far valere le proprie ragioni avanti il giudice amministrativo cui competerebbe la ponderazione dei contrapposti interessi (al di là della valutazione di eventuali vizi procedimentali). Nell’ipotesi opposta di rigetto dell’istanza, il proprietario dell’area rimasta edificabile sarebbe ovviamente legittimato ad impugnare il provvedimento negativo.

Sia consentito rilevare da ultimo, in base all’esperienza personale, che non sempre il Comune resiste alla tentazione di ostacolare la riclassificazione delle aree edificabili per poter continuare a percepire l’IMU, ma tale obiettivo – astrattamente encomiabile in quanto diretto ad assicurare un’entrata fiscale, ma a danno del singolo proprietario – urta irrimediabilmente con la volontà del legislatore, che è quella di ridurre il consumo del suolo, pur nella consapevolezza che ciò può comportare una riduzione  delle entrate comunali. È la stessa circolare, peraltro, ad indicare lo “sgravio dell’imposizione fiscale immobiliare a carico dei proprietari dei suoli interessati” come una delle “ragioni pratiche – la cosiddetta ratio – della norma, come peraltro è emerso nel dibattito avvenuto in sede di esame della legge da parte del Consiglio regionale”.

In conclusione, dunque, la difficoltà dell’interprete discende da un lato dalla forse eccessiva sinteticità della legge, dall’altro dalla consapevolezza dimostrata dalla Giunta regionale che l’art. 7, inserito in una legge contenente svariate modifiche a numerose altre leggi regionali, quale anticipazione di una legge organica sul contenimento del consumo di suolo, intervenuta due anni dopo: “leggina” che avrebbe meritato una maggiore attenzione soprattutto in ordine alle conseguenze sulla pianificazione comunale.

Ed è grave che il legislatore regionale quando ha emanato la legge “organica” 14/2017 non abbia approfittato dell’occasione per modificare – od integrare – la scarna disciplina contenuta nell’art. 7 l.r. 4/2015 piuttosto che lasciare i comuni in balia di una circolare i cui limiti si è cercato di sottolineare.

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2) La decadenza dei vincoli urbanistici e delle previsioni di espansione.

L’art. 23, comma 2,  l.r. 14/2017 ha modificato – o, per meglio dire, integrato – il comma 7 dell’art. 18 l.r. 11/2004, del quale è rimasta immutata la disposizione contenuta nel primo periodo che prevede la decadenza per il decorso dei quinquennio non soltanto dei vincoli preordinati all’esproprio, ma anche delle “previsioni relative alle aree di trasformazione o espansione soggette a strumenti attuativi non approvati, a nuove infrastrutture e ad aree per servizi per le quali non siano stati approvati i relativi progetti esecutivi”.

Va detto che la durata quinquennale dei vincoli urbanistici preordinati all’esproprio, già prevista dall’art. 2 l. 1187/1968 (a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 55/1968) è stata codificata dall’art. 9 del T.U. sulle espropriazioni n. 327/2001, talché la decadenza prevista dalla l.r. 11/2004 costituiva in un certo senso un “atto dovuto” per il rispetto del principio fondamentale della temporaneità dei vincoli urbanistici.

La decadenza delle previsioni relative alle aree di trasformazione ed espansione, nonché di quelle destinate a nuove infrastrutture ed aree per servizi, rappresentò invece una novità della l.r. 11/2004, che, in piena consonanza con altre leggi regionali ed alla luce della nuova concezione del piano regolatore elaborata negli anni ’90 dall’Istituto Nazionale di Urbanistica, decise l’articolazione del PRG in un piano strutturale ed in uno operativo, quest’ultimo definito abitualmente – ma impropriamente – come “piano del Sindaco”, quasi che l’approvazione del piano operativo dovesse coincidere con la durata quinquennale del mandato del Sindaco.

Ad evitare la decadenza è dunque necessaria l’approvazione dello strumento attuativo (ma non anche la stipula della convenzione urbanistica) e, per le infrastrutture ed aree per servizi, l’approvazione del progetto esecutivo, non essendo sufficiente l’approvazione dello strumento attuativo, ove previsto per tali aree.

La durata limitata delle previsioni di espansione (oltre che dei vincoli espropriativi) veniva in certo qual modo a sostituire e neutralizzare l’istituto del programma pluriennale di attuazione previsto dall’art. 13 l. 10/1977 (cosiddetta “Bucalossi”): tuttora in vigore perché mantenuto in vita – ancorché ridimensionato – dall’art. 20 l. 114/1999.

Anche il legislatore regionale del 2004, dunque, si era preoccupato in certo qual modo del contenimento del consumo di suolo, prevedendo la decadenza dei vincoli e delle previsioni di trasformazione ed espansione per decorso del quinquennio, con la conseguenza che tali aree vengono considerate come “non pianificate” (o “bianche” che dir si voglia) dall’art. 33 l.r. 11/2004 ed equiparate alle zone agricole se esterne al perimetro dei centri abitati, mentre nelle aree interne sono consentiti soltanto gli interventi previsti dall’art. 3 del T.U. Edil. 380/2001 (dalla manutenzione straordinaria fino alla ristrutturazione edilizia, con esclusione di nuove costruzioni).

Se le aree di espansione sono situate nella maggior parte dei casi all’esterno del perimetro dei centri abitati, non altrettanto accade per le aree oggetto di trasformazione, che ben possono essere ubicate all’interno dei centri abitati: basti pensare agli insediamenti produttivi dismessi, ancora esistenti nei centri urbani, classificati come “incompatibili” dallo strumento urbanistico ed assoggettati in genere a piano di recupero.

Tutto ciò, dunque, era già previsto dall’art. 18 l.r. 11/2004 fin dall’origine.

La rilevante novità introdotta dalla l.r. 14/2017 concerne la fissazione di un termine, non meramente ordinatorio, entro il quale il Comune deve darsi una nuova disciplina urbanistica delle aree “da adottarsi entro centottanta giorni dalla decadenza”.

Obbligo accompagnato da sanzione giacché decorso inutilmente tale termine “si procede in via sostitutiva a’sensi dell’art. 30”: e cioè ad opera del presidente della Provincia come previsto dal comma 6 del suddetto articolo e cioè mediante convocazione d’ufficio del Consiglio comunale o assegnazione di un termine per il compimento dell’atto, decorso inutilmente il quale il presidente nomina un commissario ad acta.

L’uso dell’espressione “da adottarsi” – a proposito della variante urbanistica – pone un problema interpretativo, in quanto questa, per la sua genericità, può riferirsi sia alla conclusione dell’iter della variante urbanistica obbligatoria (e cioè all’approvazione di cui al comma 4 dell’art. 18) sia all’adozione in senso proprio (prevista dal comma 2).

È senz’altro preferibile la prima opzione giacché se entro il termine fissato dalla legge regionale il Comune si limitasse all’adozione della variante senza poi provvedere all’approvazione, la norma verrebbe sicuramente elusa.

Il potere sostitutivo può dunque essere esercitato dalla Provincia anche se entro il termine di 180 giorni il Comune non abbia ancora approvato la variante, ma l’abbia soltanto adottata: non pare che l’intervento sostitutivo sia rimesso alla discrezionalità del presidente dalla Provincia, in considerazione dell’espressione usata dal comma 6 (“il presidente della Provincia esercita i poteri sostitutivi”).

V’è da aggiungere che di fronte all’inerzia del presidente della Provincia dovrebbe applicarsi il comma 7 dell’art. 30, che prevede il potere sostitutivo del presidente della Giunta regionale.

L’esplicitazione della sussistenza di un vero e proprio obbligo del Comune di provvedere, entro un termine preciso, ad attribuire una nuova destinazione alle aree oggetto di previsioni urbanistiche decadute, offre indubbiamente una maggior tutela al proprietario rispetto a quella riconosciuta dalla giurisprudenza in caso di mancanza di un termine: attraverso l’attivazione della “procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti al g.a.; peraltro l’obbligo di ripianificazione sussiste soltanto in relazione alla decadenza dei vincoli espropriativi, e non anche di caso di vincoli conformativi” (così Cons. di Stato, sez. IV, 7 novembre 2012 n. 5666, che, in motivazione, cita anche Cass., sez. un., 6 maggio 2009 n. 10362).

Come ognun vede, dunque, l’impugnazione del “silenzio” non è più necessaria e l’obbligo di ripianificazione sussiste in base all’art. 18 l.r. 11/2004 anche nel caso di vincoli conformativi o procedimentali quali sono quelli che prevedono la necessità del piano attuativo

A proposito della non sempre facile distinzione tra vincoli espropriativi e conformativi, v’è da osservare che tale distinzione (tuttora rilevante ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione) diviene irrilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 18, comma 7 per l’ipotesi di decadenza ivi prevista, che si applica non soltanto ai vincoli espropriativi, ma anche alle aree di trasformazione o espansione: si veda in tal senso la recente sentenza del TAR Veneto, sez. II, 7 aprile 2017 n. 351.

Altra questione di non scarso peso, già emersa subito dopo l’entrata in vigore della l.r. 11/2004, è quella dell’applicabilità della decadenza anche alle previsioni dei piani regolatori di “vecchia generazione” disciplina dalla l.r. 61/1985 o soltanto ai nuovi Piani degli interventi.

Il testo originario dell’art. 48 contenente le disposizioni transitorie (nel corso degli anni modificato innumerevoli volte: basti constatare che iusexplorer riporta ben 76 note relative alle modifiche via via introdotte!) si limitava a prevedere, al comma 5, che “i piani regolatori vigenti mantengono efficacia fino all’approvazione del primo PAT. A seguito dell’approvazione di tale piano i piani regolatori generali vigenti acquistano il valore e l’efficacia del PI per le sole parti compatibili con il PAT”.

Il comma 5 è stato sdoppiato (in forza dell’art. 4 l.r. 23 dicembre 2010 n. 30) in quanto il primo periodo è rimasto immutato, mentre il secondo è stato sostanzialmente riprodotto nel comma 5 bis.

Di notevole rilevanza, ai fini che ci interessano, è il comma 5 quater (introdotto dalla legge regionale da ultimo citata) che così recita: “Dall’approvazione del primo PAT decorre, per il piano degli interventi di cui al comma 5 bis, il termine di decadenza di cui all’articolo 18, comma 7, ferma restando la specifica disciplina per i vincoli preordinati all’esproprio prevista dalla normativa vigente”.

La norma è chiarissima: la decadenza delle previsioni di trasformazione ed espansione previste dal “vecchio” PRG si verifica dopo il decorso del quinquennio dalla data di approvazione del PAT, giacché è da quel momento che il PRG “diventa il Piano degli interventi” (comma 5 bis, richiamato dal comma 5 quater).

Alla luce del tenore dei due commi dell’art. 48 appena richiamati – oltre che dell’art. 18 comma 7 – v’è da dubitare della legittimità delle norme di PAT che anticipano la decadenza ad un momento precedente o che prescrivono non solo l’approvazione dello strumento attuativo prevista dall’art 18 comma 7, ma anche ulteriori adempimenti non previsti dall’art. 18[3].

 

3) La proroga del termine quinquennale.

Il comma 7 bis dell’art. 18 (introdotto dall’art. 23, comma 3 l.r. 14/2017) stabilisce che la decadenza – relativamente alle aree di espansione soggette a strumenti attuativi non approvati – può essere evitata dagli “aventi titolo” dietro richiesta di proroga al Comune che “può essere autorizzata previo versamento di un contributo determinato in misura non superiore all’1 per cento del valore delle aree considerato ai fini dell’applicazione dell’IMU” e che il contributo debba essere corrisposto “entro il 31 dicembre di ogni anno successivo alla decorrenza del termine quinquennale”, con l’ulteriore previsione che “l’omesso o parziale versamento del contributo nei termini previsti comporta l’immediata decadenza delle previsioni oggetto di proroga e trova applicazione quanto previsto dal comma 7” (vale a dire la trasformazione in “area bianca”, con la conseguenza che il Comune sarà obbligato ad imprimere una nuova destinazione urbanistica all’area in questione, entro 180 giorni dalla decadenza, che, pur essendo automatica dovrebbe essere comunque dichiarata dal Comune).

In mancanza di indicazioni sulla durata della proroga non è chiaro se questa debba essere relativa ad un altro quinquennio o possa essere disposta per un periodo minore: nello spirito della legge che mira a contenere il consumo di suolo potrebbe ammettersi anche un termine inferiore, con il vantaggio di ridurre i tempi dell’incertezza sulla sorte dell’area sotto il profilo urbanistico[4].

In sostanza la proroga (che potrebbe anche tornare gradita al Comune per la possibilità di ottenere un sia pur modesto introito) lascerebbe in sospeso la sorte dell’area per tutta la durata della proroga.

Non pare concepibile un diritto del proprietario ad ottenere la proroga (sia pure a pagamento) anche in considerazione dell’uso dell’espressione “la proroga può essere autorizzata”, talchè la sua concessione è rimessa ad una valutazione discrezionale del Consiglio comunale (la cui competenza non è espressamente prevista dall’art. 18 comma 7, ma che pare indiscutibile non foss’altro per il principio generale contenuto nell’art. 42 lett. b) del T.U. n. 267/2000 sugli Enti Locali) che attribuisce al Consiglio comunale l’approvazione dei “piani territoriali ed urbanistici” e ovviamente anche delle varianti.

Non va sottovalutata la circostanza che la proroga priva di fatto il Comune del potere di dare una destinazione all’area non ancora divenuta “bianca”, giacché soltanto esigenze impreviste di rilevante portata potrebbero giustificare una variante urbanistica relativamente all’area oggetto di proroga.

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Che dire, dunque di questi due interventi del legislatore regionale, entrambi dichiaratamente finalizzati a favorire il contenimento del consumo di suolo?

È semplicistico affermare che la l.r. 4/2015 mostra di privilegiare l’interesse del proprietario a rinunciare al vantaggio dell’edificabilità prevista dallo strumento urbanistico per ottenere un significativo sgravio fiscale: interesse che ben si sposa con quello di tutela dell’ambiente?

E che la legge “organica” n. 14/2017 sembra preoccuparsi, specie con le forse troppo generose disposizioni transitorie, di salvaguardare l’interesse di “altri” proprietari a consumare il suolo?

La contraddittorietà emerge soprattutto dall’art. 23 l.r. 14/2017, che ha modificato l’art. 18 l.r. 11/2004, specie laddove (comma 7) impone ai comuni di dichiarare la decadenza delle previsioni relative alle aree di trasformazione od espansione decorso il quinquennio, per prevedere poi (comma 7 bis) la proroga “a pagamento”.

Rimane un ultimo interrogativo: come si comporteranno i comuni a fronte dell’intrinseca contraddittorietà del legislatore?

Alberto Borella

 

[1] “1. Entro il termine di centottanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, e successivamente entro il 31 gennaio di ogni anno, i comuni pubblicano nell’albo pretorio, anche con modalità on-line, ai sensi dell’art. 32 della l. 18 giugno 2009 n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione la competitività nonché in materia di processo civile”, un avviso con il quale invitano gli aventi titolo, che abbiano interesse, a presentare entro i successivi sessanta giorni la richiesta di riclassificazione di aree edificabili, affinché siano private della potenzialità edificatoria loro riconosciuta dallo strumento urbanistico vigente e siano rese inedificabili”

  1. Il Comune, entro sessante giorni dal ricevimento, valuta le istanze e, qualora ritenga le stesse coerenti con le finalità di contenimento, del consumo del suolo, le accoglie mediante approvazione di apposita variante al piano degli interventi (PI) secondo la procedura di cui all’art. 18, comma 2 e 6, della legge regionale 23 aprile 2004 n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” ovvero, in assenza del piano di assetto del territorio (PAT), di variante al piano regolatore generale (PRG) con la procedura prevista dai commi 6 e 7 dell’art. 50 della legge regionale 27 giugno 1985 n. 61 “Norme per l’assetto e l’uso del territorio” e successive modificazioni.
  2. La variante di cui al presente articolo non influisce sul dimensionamento del PAT e sul calcolo della superficie agricola utilizzata (SAU).

[2] Queste le indicazioni contenute nella circolare: “La valutazione riguarda la coerenza delle richieste con la finalità generale di contenimento del suolo, il loro rapporto con la programmazione urbanistica in atto e la congruenza localizzativa e dimensionale delle aree da riclassificare. In particolare, l’eventuale riclassificazione delle aree non deve compromettere i diritti edificatori di terzi, né pregiudicare l’attuabilità di previsioni di piano o accordi d’interesse pubblico”.

 

[3] A titolo esemplificativo è il caso di riferirsi all’art. 20.4 del PAT del Comune di Treviso che prevede, al comma 5 che “tutte le zone individuate dal previgente PRG soggette a PUA o a PIRUEA, non ancora attuate, e per le quali non sia stata approvata dalla Giunta comunale la convenzione urbanistica al momento dell’adozione del PAT…mantengono i parametri urbanistici e la capacità edificatoria loro assegnata dal P.R.G. sino all’adozione della prima variante al piano degli interventi”.

Nel PAT adottato il comma successivo così recitava: “All’adozione della prima variante al P.I. i diritti edificatori decadono, fatto salvo che gli aventi titolo non abbiano sottoscritto un accordo a’sensi dell’art. 6 della l.r. 11/2004 che acceda alla prima variante al P.I., introducendo nuove previsioni per l’area”.

Quest’ultima disposizione è scomparsa nelle norme tecniche del PAT approvato: se ne dovrebbe dedurre che la decadenza non sia più prevista, salva la possibilità per la “prima variante al P.I.” di modificare le previsioni del PRG.

[4] Questa è anche l’opinione di TRAVAGLINI (pure fortemente critico nei confronti del comma 7 bis) nel commentario “CONTENIMENTO DEL CONSUMO DI SUOLO E DI RIGENERAZIONE URBANA”, a cura di Barel, Corriere del Veneto, 2017, pag. 202, al cui  commento si rinvia.

 

* Relazione tenutasi al Convegno tenutosi a Castelfranco Veneto il 24 novembre 2017 “La disciplina della Regione Veneto sul contenimento del consumo di suolo: considerazioni sulla recente L.R. 6 giugno 2017 n. 14”

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