Sommario: 1. Premessa. 2. Le origini del problema e l’utilità di “fare ordine” sulla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di “eccesso/rifiuto” di giurisdizione rispetto al quadro legislativo prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale. 3. Il percorso delle Sezioni Unite dalle ordinanze gemelle del 2006 alla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017: vera “interpretazione evolutiva” o “self-restraint”? 4. La conferma dell’atteggiamento (eccessivamente) prudenziale delle Sezioni Unite: la negazione, in concreto, di ipotesi di “creazione normativa” non riconducibili al potere generale di interpretazione e la (conseguente) ricerca di giustificare il sindacato sul “rifiuto di giurisdizione” con l’abnormità dell’“errore interpretativo” implicante diniego di tutela in contrasto con il diritto UE.  5. Segue: il percorso delle Sezioni Unite è stato “riduttivo” e non “evolutivo”. 6. La conferma dell’autolimitazione del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale anche nella giurisprudenza più immediatamente prossima alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale e la conseguente possibilità di “ridimensionare” la portata di tale sentenza. 7. Il self-restraint delle Sezioni Unite (anche) nella sentenza 18592 del 9 settembre 2020. 8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. 8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. 9. Verso l’individuazione di alcuni punti fermi. 10. Prime considerazioni sui quesiti proposti alla CGUE.

 

1. Premessa.

L’ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, reagendo alla “rigida” lettura dell’art. 111, comma 8, Cost. propugnata dalla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, ha riaperto lo scontro tra i vertici della magistratura ordinaria e amministrativa, estendendolo al Giudice delle leggi e chiamandone arbitro la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sotto il profilo della compatibilità dei limiti al sindacato della Corte di cassazione sulle pronunce dei giudici amministrativi di ultima istanza con il principio di effettività della tutela giurisdizionale garantito dall’art. 47 della Carta di Nizza.

La pronuncia ha immediatamente scatenato un acceso dibattito, di cui sono stati frutto interessanti contributi scritti[1] e vari webinar, nel primo dei quali[2] io stessa ho svolto alcune prime considerazioni sul tema.

Nel condividere la preoccupazione generale sui rischi del coinvolgimento del Giudice sovranazionale su una questione interpretativa di una nostra disposizione costituzionale, la lettura dell’ordinanza alla luce del contesto in cui essa si inserisce fa a mio avviso sorgere un dubbio di fondo: era davvero necessario adire la Corte di Giustizia o le Sezioni Unite potevano cassare direttamente la sentenza impugnata? Come noto, nel terzo quesito, che traccia poi la rilevanza della questione per il caso controverso, l’ordinanza chiede alla Corte di Lussemburgo di chiarire se sia compatibile con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla stessa Corte di Giustizia (nelle, ormai varie, sentenze sui rapporti tra i motivi di impugnazione delle gare pubbliche), una normativa processuale nazionale (come quella ritenuta applicabile dal Consiglio di Stato) che impedisce al concorrente escluso da una gara con provvedimento di cui il giudice abbia affermato (sia pure in via non ancora definitiva) la legittimità, di vedere, comunque, esaminati anche gli ulteriori motivi di ricorso miranti (attraverso censure sulla legittima composizione della Commissione e sui criteri di valutazione delle offerte) all’annullamento dell’intera gara. Il tema, dunque, era, sotto una diversa angolazione, quello (potremmo dire, ormai, “solito”) della tutelabilità, in astratto, dell’interesse “strumentale” alla ripetizione della gara, che il Consiglio di Stato aveva qualificato di “mero fatto” e che le Sezioni Unite “dubitano” possa rientrare tra quelli che, sia pure con riferimento ai ricorsi incidentali reciprocamente escludenti e ai ricorsi con i quali lo stesso escluso chiedeva anche (con motivi aggiunti) l’esclusione degli altri concorrenti, la Corte di Giustizia ritiene giuridicamente tutelabili secondo il diritto dell’Unione.

Si trattava, pertanto, di una ipotesi “classica” di “diniego di giustizia”, censura che, a partire dalle note pronunce gemelle del 13 giugno 2006 sulla cd pregiudiziale di annullamento della tutela risarcitoria, seguite, a fronte del perdurante orientamento del giudice amministrativa a favore di tale pregiudiziale, dalla – più netta e “severa” – sentenza n. 30254 del 2008, ha “turbato” il “dialogo” tra la Corte di cassazione e i giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), già messo a rischio dall’improvvida estensione della giurisdizione esclusiva su “gruppi di materie”, opportunamente frenata dalla “storica” sentenza n. 204 del 2004, ingenerando la preoccupazione dei secondi di subire la “cassazione” delle proprie sentenze (oltre che per l’invasione dell’ambito delle altre giurisdizioni e della sfera riservata al “merito amministrativo”) anche per il cd “arretramento” dalla propria potestas iudicandi.

Al di là di alcune affermazioni di principio (su cui tornerò nei prossimi paragrafi), l’atteggiamento delle Sezioni Unite sul punto era sempre stato, tuttavia, estremamente prudente.

Il ricordato intervento del 2018 della Corte costituzionale (sulla cui effettiva portata si dirà meglio infra) ha però scatenato una reazione al “rialzo”, spingendo la Corte di cassazione a investire la Corte di Giustizia della ridefinizione del proprio ruolo di giudice ultimo di garanzia del rispetto del diritto dell’Unione da parte degli organi detentori del potere giurisdizionale nel nostro ordinamento.

 

2. Le origini del problema e l’utilità di “fare ordine” sulla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di “eccesso/rifiuto” di giurisdizione rispetto al quadro legislativo prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale.

Per una più consapevole e proficua riflessione sull’ordinanza del 18 settembre, credo sia importante preliminarmente fare ordine sullo “stato dell’arte” della giurisprudenza prima e dopo la sentenza della Corte costituzionale e sulle questioni che la Corte di cassazione ha oggi portato all’esame della Corte di Giustizia, che, mi pare di poter affermare, sono, a ben vedere, diverse e, forse, a seconda dei punti di vista, meno o più eclatanti di quanto possa prima facieapparire.

Il problema dell’ambito del potere di “cassazione” delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti previsto dall’art. 111, comma 8, Cost. non è nuovo e, soprattutto, non è legato ai rapporti con il diritto UE. Mario Nigro, nella sua “Giustizia amministrativa”, negli anni ’70, rappresentava l’esigenza di “precisare l’ambito della verifica che la Cassazione è chiamata a compiere”, riportando le diverse formule usate dal Codice processuale civile e dalla Costituzione, per rilevare che “nessuna di tali disposizioni, come si vede, è idonea a fornire precisazioni circa il detto ambito”. Osservava quindi lo stesso illustre studioso che, per comprendere quale sia una questione di giurisdizione ci si deve rivolgere all’esame della giurisprudenza formatasi sulle norme vigenti: giurisprudenza che, nell’interpretazione dell’articolo 37 cpc, ha dato un significato ampio alla formula “difetto di giurisdizione”, ricomprendendovi, oltre alla figura di improponibilità assoluta della domanda per difetto di potere giurisdizionale, le seguenti figure: a), rifiuto di esercizio della potestà giurisdizionale sull’erroneo presupposto che la materia non possa essere oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale o che non possa essere oggetto della funzione giurisdizionale propria dell’organo investito della domanda; b), invasione dell’altrui giurisdizione, cioè di quella attribuita ad altro giudice (ordinario o speciale) e, c), cosiddetto eccesso di potere giurisdizionale, inteso dalla Suprema Corte come “sconfinamento dell’attività giurisdizionale ordinaria o speciale nel campo dei poteri spettanti ad organi amministrativi o legislativi o costituzionali”. Svolta questa premessa, il Maestro rilevava peraltro che le ipotesi di sconfinamento nel terreno di attività di organi legislativi e costituzionali si possono ritenere meramente teoriche e che lo sconfinamento nel campo legislativo si avrebbe quando il giudice non applica la norma esistente, ma una norma da lui creata e aggiungeva “ma è chiaro che di solito si tratta di mera e legittima attività interpretativa del giudice” (a sostegno dell’affermazione, citava le sentenze delle Sezioni Unite nn. 2543 del 1954 e 304 del 1967 e, in diverso senso, soltanto la sentenza n. 333 del 1946 che aveva annullato per eccesso di potere giurisdizionale una decisione della Commissione per i ricorsi in materia di proprietà intellettuale per avere applicato una norma che, a giudizio della stessa Suprema Corte, era incostituzionale per eccesso di delega[3]). Lo stesso Autore riconduceva poi alla tipologia “sconfinamento in campo riservato ad altro organo costituzionale” l’ipotesi in cui il giudice esamina tanto a fondo una questione di legittimità costituzionale da superare i limiti di valutazione della non manifesta infondatezza, dando però atto della circostanza che la Suprema Corte aveva escluso un tale caso di sconfinamento con la sentenza n. 82 del 1968. Da ultimo, sottolineava che la tendenza a estendere il difetto giurisdizione al di là dei limiti in cui lo colloca l’articolo 37 aveva portato la Cassazione a comprendervi  i vizi inerenti alla stessa posizione dell’organo giurisdizionale (organo privo della indipendenza) o alla sua costituzione (collegio composto da un numero di membri diverso da quello fissato dalla legge), nonché “la mancata motivazione” e aggiungeva che, con riferimento all’impugnativa di decisioni dei giudici amministrativi, la Cassazione aveva invece “giustamente negato” che rientrassero fra i motivi attinenti alla giurisdizione le denunce di vizi di extra o ultra petizione, di violazione del giudicato e di “improponibilità del ricorso per carenza di legittimazione ed interesse ad agire (Cass. 3145/1983) o per tardività del ricorso”.

In altri termini, al di là della maggiore o minore rigidità nell’individuazione delle ipotesi effettivamente riconducibili alle tipologie del rifiuto di giurisdizione e all’eccesso di potere giurisdizionale e ferma – evidentemente – la grande difficoltà di distinguere lo straripamento o arretramento rispetto alla potestas iudicandi dal cattivo esercizio di tale potestas, non era in discussione che i “motivi di giurisdizione” che la Costituzione affida al sindacato della Corte di cassazione non si esauriscono nel “riparto” tra i diversi plessi giurisdizionali, ma coprono tutte le ipotesi di violazione, in eccesso o in difetto, dei cd “limiti esterni” alla giurisdizione[4]. La distinzione teorica tra violazione di legge (insindacabile) ed eccesso/rifiuto di giurisdizione (ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.) era stata cioè tradizionalmente fondata, ben prima che si parlasse di obbligo di disapplicazione delle disposizioni di legge in contrasto con il diritto comunitario (ricordo che quest’ultimo tema è emerso alla fine degli anni ’70[5], e che la Corte costituzionale ha accolto la tesi dell’obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con il diritto sovranazionale solo con la sentenza n. 170 del 1984) sulla differenza tra interpretazione (attività tipica del giudice) e (indebita) creazione giurisprudenziale di regole – sostanziali o processuali – nettamente contra legem (eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore) e, analogamente, tra negazione della tutela nel caso concreto per error in procedendo o in iudicando e negazione astratta e aprioristica della potestas iudicandi del proprio plesso giurisdizionale a fronte di situazioni soggettive giuridicamente protette dall’ordinamento.

 

3. Il percorso delle Sezioni Unite dalle ordinanze gemelle del 2006 alla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017: vera “interpretazione evolutiva” o “self-restraint”?

Sui riferiti presupposti, la Cassazione ha cominciato, anche se molto lentamente, ad acquisire maggiore consapevolezza e sicurezza del proprio ruolo, non soltanto dimostrando una minore ritrosia (non parlerei infatti, comunque, visto l’atteggiamento sempre molto “accorto” e “prudente”[6], di maggiore larghezza) nel riconoscimento dello sconfinamento del giudice amministrativo nell’ambito della sfera riservata alla p.A.[7], ma anche – ed è questo evidentemente il tema oggetto di più acceso dibattito – spingendosi, in alcuni, ma pur sempre limitatissimi, casi, a rilevare (ancorché, come si dirà, tendenzialmente con altro nomen iuris) il cosiddetto “rifiuto di giurisdizione”.

In particolare, come ricordato in premessa, le pronunce gemelle del 13 6 2006 (ordd. 13559, 13660 e 13911), facendo peraltro sin da allora leva sul diritto comunitario, che aveva imposto di riconoscere tutela risarcitoria a ogni posizione soggettiva lesa dalla violazione delle direttive in tema di appalti pubblici[8], avevano stigmatizzato come “rifiuto di giurisdizione” l’orientamento dei giudici amministrativi che, prima del c.p.a., subordinava l’ammissibilità dell’azione risarcitoria alla c.d. pregiudiziale di annullamento[9]; e, due anni e mezzo dopo, a fronte della insistenza del giudice amministrativo (anche in sede di Adunanza plenaria) sulla pregiudiziale, la sentenza n. 30254 del 23 dicembre 2008, confermò, sia pure, come sottolineerò subito dopo, con diversa – e più complessa – motivazione, la riconducibilità di tale “diniego di tutela” a un problema di “giurisdizione”, sul quale si riconosceva, in virtù dell’art. 111, comma 8, Cost., il potere/dovere di intervenire. Invece di invocare, sic et simpliciter, il – più classico – e teoricamente acquisito, “rifiuto di giurisdizione” richiamato nel 2006, le Sezioni Unite giustificarono però il loro sindacato proponendo una puntuale esegesi del concetto di “giurisdizione” nella Costituzione. Osservava in particolare la sentenza che, alla luce della “convergenza” degli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 111, primo comma (“che, mediante i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, esprime quello di effettività della tutela giurisdizionale”), il termine “giurisdizione”, per quanto interessava ai fini della questione sottoposta alla Suprema Corte, “è termine che va inteso nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e dunque in un senso che comprende le diverse tutele che l’ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l’effettività dell’ordinamento”. La conseguenza di tale ragionamento era che “Se attiene alla giurisdizione l’interpretazione della norma che l’attribuisce, vi attiene non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall’ordinamento risulti realizzata, dall’altro i presupposti del loro esercizio”. Il sindacato della Corte sul “rifiuto” dei giudici amministrativi di pronunciarsi sulle azioni risarcitorie non precedute dall’annullamento dell’atto illegittimo (o dalla declaratoria di illegittimità del silenzio) è ritenuto, in questo quadro, ammissibile in quanto dipendente “non da determinanti del caso concreto sul piano processuale o sostanziale, ma da un’interpretazione della norma attributiva del potere di condanna al risarcimento del danno, che approda ad una conformazione della giurisdizione da cui ne resta esclusa una possibile forma”, il che “si traduce in menomazione della tutela giurisdizionale spettante al cittadino di fronte all’esercizio illegittimo della funzione amministrativa ed in una perdita di quella effettività, che ne ha giustificato l’attribuzione al giudice amministrativo”. Al pt. 11.1, la sentenza rafforzava peraltro la prospettata ricostruzione, ritornando in certo qual modo allo schema tradizionale, laddove precisava che “Rientra d’altra parte nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l’operazione che consiste nell’interpretare la norma attributiva di tutela, per verificare se il giudice amministrativo non rifiuti lo stesso esercizio della giurisdizione, quando assume della norma un’interpretazione che gli impedisce di erogare la tutela per come essa è strutturata, cioè come tutela risarcitoria autonoma”, in quanto “è pacifico [invero] che possibile oggetto di sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione sia anche la decisione che neghi la giurisdizione del giudice adito”.

Attraverso il complesso iter logico seguito dalla sentenza, in altri termini, in nome della inscindibile coesione tra “giurisdizione” e “tutela giurisdizionale effettiva”, si cercava – condivisibilmente – di “svincolare” il “rifiuto di tutela” dalla problematica del labile confine tra “interpretazione” e “creazione”. Ciò si avverte chiaramente dal principio di diritto enunciato in chiusura, che, premessa la mancanza nel sistema di una norma che avallasse in modo chiaro l’orientamento della giurisprudenza sulla pregiudiziale, stabiliva che “Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”.

Le Sezioni Unite, confermando il loro atteggiamento di estrema cautela[10], avevano però cura di puntualizzare che “pur così ampliato il campo del suo impiego, la regola dei limiti esterni è in grado di servire allo scopo di espungere dall’area dei motivi attinenti alla giurisdizione ogni segmento del giudizio che si rivela estraneo alla ricognizione della portata della norma che attribuisce giurisdizione, ricognizione che costituisce invece l’oggetto su cui al giudizio del giudice amministrativo si può sovrapporre, modificandolo, quello della Corte di cassazione a sezioni unite”.

In altri termini, non si cercava affatto di aprire un varco per estendere il sindacato della Corte di cassazione a qualsiasi erronea “interpretazione di legge”, ma, in termini affatto diversi, si voleva evitare che il labile confine tra “interpretazione” e “creazione” (che aveva e ha di fatto precluso il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale su questioni di diritto sostanziale) potesse costituire un ostacolo – anche – al sindacato sul, sempre teoricamente ammesso, “rifiuto di tutela giurisdizionale” di posizioni giuridicamente protette nella forma (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) riconosciuta loro dall’ordinamento (nella specie della tutela risarcitoria, azione autonoma “senza pregiudiziali”).

Nella medesima linea, con la sentenza n. 3854 del 12 marzo 2012, le Sezioni Unite hanno rilevato l’eccesso di potere giurisdizionale di una sentenza e di due decreti camerali con i quali la Corte dei conti, attraverso un’errata lettura dell’art. 1, commi 232 e 233, della legge finanziaria n. 266 del 2005, avevano ritenuto che il giudice contabile di appello potesse dichiarare l’inammissibilità della domanda di definizione anticipata di una controversia fuori dai limiti entro i quali la legge attributiva gli consente di rifiutare una decisione nel merito.

 

4. La conferma dell’atteggiamento (eccessivamente) prudenziale delle Sezioni Unite: la negazione, in concreto, di ipotesi di “creazione normativa” non riconducibili al potere generale di interpretazione e la (conseguente) ricerca di giustificare il sindacato sul “rifiuto di giurisdizione” con l’abnormità dell’“errore interpretativo” implicante diniego di tutela in contrasto con il diritto UE.

La “prudenza” con cui la Suprema Corte ha sempre affrontato – e continua ad affrontare – il tema del rapporto tra eccesso/rifiuto di giurisdizione e mera violazione di legge trova del resto piena conferma nel fatto che, nonostante l’innegabile tendenza del giudice amministrativo a sostituirsi a un legislatore sempre meno “coerente” e “convincente”[11], non constano, a tutt’oggi, pronunce che, in nome dell’art. 111, comma 8, Cost., abbiano riconosciuto in concreto l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore non traducentisi in un siffatto “rifiuto”[12].

Se è vero infatti che, come visto, a livello teorico, si ammetteva in termini generali che la Corte di cassazione, in quanto deputata dalla Costituzione a giudice supremo dei confini della giurisdizione, avesse il potere/dovere di sindacare e, se del caso, cassare anche le sentenze dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui, esorbitando dall’ambito tipico della potestas iudicandi, avessero coniato una “propria” regula iuris, sostanziale o processuale, le Sezioni Unite hanno, fino a oggi (e già prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale), costantemente e puntualmente dichiarato inammissibili i ricorsi proposti per tale motivo e cassato, peraltro assai raramente e sempre con rinvio al Giudice che le aveva emesse, soltanto le pronunce che, senza il chiaro supporto di fonti normative primarie (nel caso della pregiudiziale di annullamento e della definizione anticipata dell’appello alla Corte dei conti) o in frontale contrasto con il diritto UE (negli altri – comunque soltanto due – casi), avessero escluso, in modo, aprioristico e astratto, l’accesso alla tutela giurisdizionale di situazioni giuridicamente protette (che, proprio per tale “protezione”, tanto che abbiano la consistenza di un diritto soggettivo, quanto che abbiano quella di un interesse legittimo, non possono essere private, in via, appunto “presupposta” e “aprioristica”, di tale tutela; sicché il giudice competente a conoscere delle relative istanze non può, in via autonoma, perimetrarne l’ammissibilità in senso arbitrariamente riduttivo rispetto a quanto stabilito dalle fonti regolatrici dell’accesso alla giurisdizione).

Le stesse Sezioni Unite, del resto, hanno in varie occasioni rilevato la marginalità dell’ipotesi generale dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, osservando che tale ipotesi, presupponendo che il giudice applichi una norma da lui creata in luogo della norma esistente e che quindi eserciti un’attività di produzione normativa in luogo di un attività meramente euristica, non può che avere rilevanza meramente teorica (cfr., sostanzialmente in termini, inter alia, le sentenze 26 marzo 2012 n. 4769 e 28 febbraio 2019 n. 6059[13]). È significativo che anche la sentenza 30 luglio 2018 n. 20169, che menziona una serie di precedenti a sostegno dell’ammissibilità di tali ricorsi (sì che, a prima lettura, sembrerebbe dar conto di varie decisioni cassatorie), indica in realtà sentenze che, nelle specifiche fattispecie, li avevano dichiarati inammissibili, qualificando il vizio denunciato come mero errore interpretativo. La tradizionale e consolidata “ritrosia” della Corte di cassazione a sindacare l’eccesso di potere giurisdizionale “puro” nei confronti del legislatore emerge con evidenza anche dalla sentenza 30 ottobre 2019 n. 27842[14], che, a fronte di un’ipotesi inconfutabile di “creazione” di un “principio di diritto” ignoto all’ordinamento (la normativa transitoria introdotta dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017, a vantaggio dell’amministrazione, in materia di autorizzazioni paesaggistiche), ha brillantemente “evitato” di entrare nel merito della questione e di esprimere in qualche modo un’opinione sul punto, sia pure con un mero obiter dictum, trincerandosi dietro l’argomento che il potere conferitole dall’art. 111, comma 8, Cost. opera solo rispetto alle pronunce che, “definendo il giudizio di appello mediante accoglimento o rigetto dell’impugnazione e dettando la regola del caso concreto, siano per questo in concreto suscettibili di arrecare un vulnus all’integrità delle attribuzioni di altri” (e, dunque, non si estenderebbe alle – mere – regulae iuriscreate, in astratto, dall’Adunanza Plenaria!).

Senonché, per tenere saldamente fermo questo limite (che, verosimilmente, trae origine dal fatto che ogni giudice tende a rafforzare il potere interpretativo della giurisdizione, rifiutando in buona sostanza in radice l’idea della configurabilità di un eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore), ma, al tempo stesso, salvare il sindacato sul cd diniego di giurisdizione, le SS UU, invece di considerarlo, come pare ontologicamente più corretto, una species aggravata dell’eccesso di potere giurisdizionale, che, per la sua particolare gravità, rende meno fragile il confine tra interpretazione e creazione e osta a una lettura estensiva della funzione interpretativa, lo hanno progressivamente ricondotto proprio a tale ultima funzione, coniando l’ibrida figura del “radicale stravolgimento” delle norme di rito, mediante una “interpretazione” manifestamente “abnorme” delle medesime.

È molto chiara in tal senso, tra le tante, la sentenza 20360 del 2016, che, prima della sentenza 6/2018 della Corte costituzionale, ricordava come la Corte di cassazione avesse “precisato che l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete e non quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico, potendo dare luogo, tale operazione, tutt’al più, ad un error in iudicando, non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (Cass. S.U. 12 dicembre 2012 n. 22784).” E rimarcava che la stessa Corte aveva, “ancora”, “chiarito che la violazione o falsa applicazione di norme processuali può tradursi in eccesso di potere giurisdizionale, denunciabile con ricorso per cassazione, soltanto nei casi in cui l’error in procedendo abbia comportato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia (Cass. S.U. 14 settembre 2012 n. 15428)”[15].

Si ha però l’impressione che proprio questa estrema attenzione e “prudenza” nel contenere le ipotesi di conflitto, che ha portato a qualificare il diniego di giustizia come una forma aggravata di error in procedendo, abbia, a ben vedere, dato il fianco all’intervento riduttivo del Giudice delle leggi.

Per quanto “abnorme” e “radicalmente stravolgente”, il “rifiuto di giurisdizione” è pur sempre (a mio avviso inutilmente) proposto, dalla stessa Corte di cassazione, come un “errore interpretativo”, ovvero come un vizio che, senza una lettura in chiave evolutiva e dinamica dell’art. 111, co. 8, nei termini indicati anche dall’ordinanza di rimessione, tale da affidare alla Corte di cassazione il sindacato ultimo sulla effettività della tutela, non potrebbe farsi rientrare nell’ambito “classico” dei “motivi di giurisdizione”.

 

5. Segue: il percorso delle Sezioni Unite è stato “riduttivo” e non “evolutivo”.

Una prospettiva più distaccata – e meno “difensiva” delle tendenze creative rivelate da certa giurisprudenza amministrativa (penso, ad esempio, oltre al caso affrontato dalla richiamata Adunanza plenaria n. 13 del 2007, all’individuazione di ambiti “privilegiati” di potere sottratti al regime del silenzio assenso[16], all’obbligo di motivazione generalmente e inderogabilmente imposto dal legislatore per gli atti di autotutela[17], o alla configurazione di poteri impliciti con implicazioni sanzionatorie delle Autorità amministrative[18]) – mostra però che, al di là dei termini utilizzati, il riferito percorso della Suprema Corte, ben lungi dall’essere “evolutivo”, è stato in realtà “riduttivo”.

Essendo infatti innegabile che il rifiuto (astratto e aprioristico) di una forma di tutela prevista dall’ordinamento sia una forma particolare di eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore, la Corte ha finito a ben vedere proprio col circoscrivere tale “eccesso” (che ben potrebbe – e dovrebbe – rinvenirsi anche rispetto a norme di diritto sostanziale, ipotesi che però in concreto ha sempre escluso in nome della labilità del confine con l’interpretazione mai rilevato) alle forme più gravi e abnormi di “sconfinamento” nell’ambito legislativo, ovvero quelle attraverso le quali, mediante una indebita usurpazione del potere riservato alle fonti normative primarie, il giudice, con un indebito “arretramento” dal doveroso esercizio della potestas iudicandi conferitagli dalle norme di rito (“norme sulla giurisdizione”), abbia precluso in radice (in modo astratto e aprioristico) l’accesso alla giustizia.

È emblematica in tal senso la sentenza n. 2242 del 6 febbraio 2015, ampiamente citata nell’ordinanza di remissione alla CGUE, di cui, indubbiamente costituisce un’anticipazione.

In tale pronuncia le SSUU hanno cassato la sentenza del Consiglio di Stato a seguito di una sopravvenuta giurisprudenza della CGUE al fine di “impedire, anche nell’interesse pubblico, che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi degli Stati membri deve conformarsi alla normativa comunitaria. In altri termini, la Cassazione, che deve decidere di un motivo di difetto di giurisdizione, applica, nel momento in cui decide, la regola che risulta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e, se riscontra che la regola applicata dal Consiglio di Stato è diversa, cassa la decisione impugnata”. La decisione viene, peraltro, giustificata anche con l’esigenza di evitare la responsabilità risarcitoria dello Stato italiano.

Anche tale sentenza, tuttavia, mantiene un profilo di estrema prudenza. Nel “principio di diritto” specifica infatti che “In tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l’articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea, neppure sotto il profilo dell’osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex articolo 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea”, ricostruendo il proprio potere come sindacato “eccezionale” sull’interpretazione, giustificato dal riferito contrasto con quella, anche sopravvenuta, data dalla Corte di Giustizia. Si afferma infatti nel successivo periodo, significativamente introdotto da una congiunzione avversativa, che “Tuttavia, è affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo va cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è riscontrata essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso affermato con l’interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.

Lungi dall’allargare l’ambito astrattamente consentito dall’art 111, co 8, quando ha portato al vaglio della Corte costituzionale la questione dell’estensibilità del sindacato sulla giurisdizione al diniego di giustizia rispetto alla giurisprudenza CEDU, la Corte di cassazione lo aveva quindi, nella sostanza, ristretto.

 

6. La conferma dell’autolimitazione del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale anche nella giurisprudenza più immediatamente prossima alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale e la conseguente possibilità di “ridimensionare” la portata di tale sentenza. Nella stessa linea si poneva anche l’ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016, con cui, poco più di un anno dopo, le Sezioni Unite – adite per “motivi di giurisdizione” avverso una sentenza con la quale il Consiglio di Stato, in applicazione all’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), aveva dichiarato l’inammissibilità delle azioni proposte da alcuni medici dopo il termine decadenziale (15 settembre 2000) previsto dalla suddetta legge, invocando la circostanza che, dopo il deposito di tale decisione, la Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da altri medici che versavano nella medesima condizione giuridica dei ricorrenti, aveva accertato la violazione dell’art. 6 CEDU[19]– avevano ritenuto di potere, in via analogica a quanto fatto nel 2015 per il denunciato contrasto con la giurisprudenza UE, sindacare tale sentenza per “motivi di giurisdizione” e avevano conseguentemente, ritenuto di poter, direttamente, rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità del suddetto art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 “nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.

In tal modo, più o meno consapevolmente[20], la Corte di cassazione ha aperto il varco al Giudice delle leggi per intervenire (attraverso la pregiudiziale decisione sulla rilevanza) sull’ammissibilità della proclamata “estensione” del controllo sulla “giurisdizione” riservatole dall’art. 111, comma 8, Cost. ai casi di “abnorme interpretazione” delle regole processuali in senso riduttivo del diritto alla tutela.

Ed è (soltanto) su questa “estensione” che la Consulta esprime, anche se in modo forse eccessivamente duro, il proprio giudizio negativo.

Ricorda, del resto, il Giudice costituzionale, nella sentenza 6/2018, che l’ordinanzadi rimessione, ricostruendo l’interpretazione consolidata dell’art. 111, comma 8, Cost. (che la sentenza, si badi, non contesta!), aveva sottolineato che “A tale stregua, il rimedio in questione sarebbe esperibile nell’ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale esercitandola nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negandola sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale ovvero nell’ipotesi in cui abbia violato i cosiddetti limiti esterni della giurisdizione, allorquando, cioè, si pronunci su materia attribuita al giudice ordinario o ad altro giudice speciale, oppure neghi la sua giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro giudice”.

La Consulta non ha dunque contestato il potere della Cassazione di sindacare il rifiuto radicale di giurisdizione, il quale, come detto, lungi dal costituire (come riduttivamente ritenuto dalle Sezioni Unite) un “abnorme” errore interpretativo, deve essere più correttamente ricondotto a una forma di eccesso di potere giurisdizionale in forma di arretramento (rispetto al potere/dovere di tutela conferito al giudice dal contesto normativo di riferimento).

Al pt. 15, la sentenza 6 ha anzi, espressamente, affermato che “L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”.

Ciò posto, la Corte costituzionale ha, in termini affatto diversi, escluso – soltanto – che l’art. 111, co 8, possa giustificare la tesi “evolutiva” secondo cui “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri”, ammetterebbe soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, dirette a consentire, in via eccezionale, la censura di sentenze “abnormi” o “anomale” con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti, attraverso  uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”, una “interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”.  Il sostanziale “arretramento” effettuato dalla Corte di cassazione attraverso l’autoqualificazione di siffatte questioni come “interpretative” (da ultimo, ancora l’ordinanza n. 19084 del 14 settembre 2020!) ha consentito in altri termini al Giudice delle leggi di negarne l’ammissibilità, con la motivazione, ex se difficilmente contestabile, che “attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”.

Per una più completa valutazione della posizione della Corte di cassazione prima della riferita decisione della Consulta merita peraltro soffermarsi anche sulla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017 (immediatamente precedente, dunque, all’arresto della Corte costituzionale), che ha, per la terza e, ad oggi, ultima volta (in un arco di oltre 70 anni) disposto una “cassazione” di una sentenza del Consiglio di Stato per “diniego di giustizia”. Ribadendo la posizione che ho sopra definito “riduttiva”, le Sezioni Unite avevano infatti anche in quella occasione sottolineato che “il sindacato esercitato dalle Sezioni Unite della Cassazione rispetto alle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti ha ad oggetto l’osservanza dei soli limiti esterni della giurisdizione e non anche dei suoi limiti interni (quali, ad es., gli errori in iudicando o in procedendo) pur quando ciò abbia determinato violazioni dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. Tale premessa è parimenti valevole con riferimento alle norme del diritto dell’Unione europea, la cui violazione non costituisce, in quanto tale, vizio attinente alla giurisdizione, neppure sotto il profilo della violazione dell’obbligo di rimessione alla Corte di giustizia delle questioni interpretative relative ai trattati e agli atti dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E.”. E, per ammettere – e accogliere – il ricorso (originato per vero da una situazione di fatto di cui non smetterò mai di denunciare l’estrema gravità), hanno fatto appello a quella che esse stesse hanno qualificato ““ulteriore”interpretazione, c.d. “dinamica” o “funzionale” [dell’art. 111, comma 8] secondo la quale rientra nell’ambito della giurisdizione l’interpretazione della norma che quest’ultima attribuisca, …., pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela che a livello giurisdizionale possono essere impartite a garanzia che la protezione assicurata dall’ordinamentorisulti realizzata, dall’altro i presupposti del loro esercizioRichiamando quanto affermato nel lontano 2008 sulla pregiudiziale di annullamento, la sentenza ha poi aggiunto che “Sarà quindi considerata norma attinente alla giurisdizione non solo quella volta a determinare i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che specifica i contenuti del potere specificando le forme di tutela finalizzate all’estrinsecazione del potere stessoIn termini ancora più chiaramente indicativi di una posizione sostanzialmente “prudenziale”, la pronuncia sottolineava poi che “….resta ferma, anche nella giurisprudenza di legittimità posteriore [alla richiamata sentenza del 2008], l’esclusione da tale categoria delle questioni attinenti alla mera violazione del diritto dell’Unione europea (cfr. Cass. Sez. U. 2403/2014, 23460/2015, 3236/2012, 16886/2013, citt.) e dei principi del giusto processo (Cass. Sez. U. 3688/2009, 12539/2011, 16165/2011, 12607/2012, 12497/2017, citt.)E, a chiusura della proposta ricostruzione, osservava che “2.4. L’apertura alla nuova concezione della giurisdizione quale tutela delle situazioni giuridiche soggettive ha successivamente trovato ulteriore specificazione nell’orientamento secondo cui, alla regola della non estensione agli errori in iudicando o in procedendo del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, può derogarsi nei casi eccezionali o estremi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, tale da ridondare in manifesta denegata giustizia (tra le molte, Cass. Sez. Un. 14/09/2012, n. 15428; 30/10/2013, n. 24468; 12/12/2013, n. 27847; 04/02/2014, n. 2403; 06/02/2015, n. 2242; 31/05/2016, n. 11380; 17/01/2107, n. 964; 19/09/2017, n. 21620).

Con specifico riferimento allo spazio che, anche in questa ipotesi, spettava alla Corte di cassazione nel caso in cui la denegata giustizia fosse riconducibile al contrasto con il diritto UE, aggiungeva peraltro che “Con riguardo all’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (attribuito dall’art. 111, ultimo comma, Cost. alla Corte di Cassazione) non ricomprende anche l’operare di una verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto eurounitario” e, nuovamente, circoscriveva il potere cassatorio, per “difetto di giurisdizione”, di una sentenza del Consiglio di Stato all’ipotesi in cui essa “si rilevi fondata su una interpretazione delle norme volta a negare alla parte la possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo; accesso che invece è garantito in base all’interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.

Nella specie, pur accogliendo il ricorso, ritenendo “contrastante con il diritto dell’Unione europea, così come statuito dalla Corte di Giustizia, una norma nazionale che, per quanto concerne ricorsi simmetricamente escludenti relativi a una procedura di appalto pubblico con due soli concorrenti, consenta al giudice di non procedere all’esame nel merito delle censure che un concorrente abbia azionato avverso l’ammissione del secondo concorrente quale conseguenza dell’accoglimento del ricorso di quest’ultimo rispetto all’ammissione del primo”, le Sezioni Unite rinviavano comunque la definizione della controversia al suo “giudice naturale”[21].

 

7. Il self-restraintdelle Sezioni Unite (anche) nella sentenza 18592 del 9 settembre 2020.

La posizione di self-restraintdelle Sezioni Unite rispetto alle ipotesi di “sconfinamento” del giudice amministrativo era stata peraltro confermata anche dalla sentenza 18592 del 9 settembre 2020 (già richiamata alle note 4 e 13), pubblicata solo nove giorni prima dell’ordinanza di rinvio alla CGUE, con la quale, avallando la decisione con cui il Consiglio di Stato, esorbitando peraltro dai limiti della domanda, aveva direttamente ordinato al Ministero dell’Università il rilascio di un’Abilitazione nazionale all’esercizio delle funzioni di professore universitario, le Sezioni Unite, pur riconoscendo la natura tecnico discrezionale della valutazione sottesa alla predetta Abilitazione, hanno supportato il Consiglio di Stato in un’operazione che, a parte l’indebita invasione della sfera amministrativa, si è sostanziata nella evidente “creazione” di una norma ampliativa del potere giurisdizionale totalmente eccentrica al sistema. Si legge infatti nella sentenza, in termini che lasciano sinceramente delusi sull’effettivo esercizio della funzione di controllo che la Cassazione sarebbe chiamata a svolgere, che “Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all’Amministrazione di attribuire alla (omissis) l’abilitazione scientifica nazionale (di seguito: “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l’interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l’attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell’attività riservata alla Pubblica Amministrazione”, in quanto “la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed “evolutiva” delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall’art. 34, comma 1, lettera e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza. E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche – e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza – possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all’esigenza di una tutela piena ed effettiva dell’interessato “secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto”.

Non è questa la sede per entrare più approfonditamente nel dettaglio della questione, ma non si può non rimarcare che essa non atteneva tanto al potere del giudice di anticipare alla fase di cognizione l’assunzione di misure idonee a dare attuazione al giudicato, bensì al potere del giudice di pretermettere la fase di valutazione tecnico discrezionale (che, anche in ottemperanza, esso è chiamato a effettuare, direttamente o attraverso un commissario appositamente individuato per le sue competenze tecniche), arbitrariamente avocandosi il potere (mai conferitogli dalla legge) di “sanzionare” la reiterata illegittimità dell’operato amministrativo trasformando un’abilitazione (che, a prescindere dal soggetto chiamato a rilasciarla, il legislatore ha costruito come esito di una “valutazione”) in un atto vincolato. E la soluzione accolta è tanto più grave in quanto, come chiaramente si legge nel riportato passaggio della sentenza, essa sarà utilizzata anche per le procedure concorsuali e, dunque, anche a danno di potenziali controinteressati!!

*

Il confronto tra questa sentenza e la – immediatamente successiva – ordinanza di rinvio alla CGUE quindi, per un verso, rivela una sostanziale convergenza delle due magistrature supreme nella ricerca di “interpretazioni evolutive” a sostegno di una “estensione” dei propri poteri e nella giustificazione della potenziale lesione arrecata ad altri poteri con il richiamo all’effettività della tutela e ai principi del diritto europeo (che, singolarmente, nella prima sentenza fa “gioco” al Consiglio di Stato e nella seconda gli si ritorce contro), e, per l’altro, conferma una estrema – ed eccessiva – ritrosia della Corte di cassazione nel censurare gli “eccessi” del Consiglio di Stato, che, al di là delle affermazioni di puro principio, disconosce sempre in concreto e stigmatizza solo nel caso in cui si sostanziano in un “arretramento” e, anzi, come detto, attraverso l’indebita assimilazione all’errore interpretativo, in un “abnorme” arretramento, che peraltro, dopo le risalenti pronunce sulla pregiudiziale di annullamento (comunque ricondotte al diritto comunitario) e quella (del 2012) nei confronti della Corte dei conti, ha, fino ad oggi, riconosciuto (una volta nel 2015 e una volta nel 2017!) soltanto nelle ipotesi di “rifiuti” in frontale contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia.

 

8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”.

Anche l’ordinanza del 18 settembre, nella prima parte (al punto 26), riconduce a ben vedere il proprio sindacato per denegata giustizia agli “errores in procedendo”, ascrivendo comunque a tale categoria (piuttosto che a quella, a mio avviso, per quanto detto, più propria, dell’eccesso di potere giurisdizionale) “l’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia”.

Qualche spunto per una più corretta chiave di lettura del “rifiuto di giustizia” sembrava forse rinvenibile (solo) nella sentenza n. 771 del 2014, che, nel ribadire, anche in quel caso, l’inammissibilità del ricorso per error in iudicando o in procedendo, osservava come non fosse applicabile alla fattispecie controversa “il principio secondo il quale la questione di giurisdizione si presenta non solo quando sia in discussione la circostanza che essa spetti al giudice cui la parte si è rivolta, in quanto solo al medesimo competa di provvedere, ma anche allorché si debba stabilire se, in base alla norma attributiva della giurisdizione, ricorrano le condizioni alla cui presenza il giudice abbia il dovere di esercitarla (così Cass., sez. un., n. 2065/2011, che ha fatto seguito all’approfondita analisi cui a Cass., sez. un., n. 30254/2008; e cfr. anche, ex multis, Cass., sez. un., nn. 11075/2012 e 15428/2012)”. E ricordava che “E’ stato infatti chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 362 cod. proc. civ., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, che non possa per questo essere da lui conosciuta (così Cass., sez. un., n. 3037/2013), sicché l’evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8, quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. Cass., sez. un., n. 10294/2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori in iudicando o in procedendo che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame”.

Al di là del generico richiamo all’effettività della tutela, la sentenza sembrava dunque (correttamente) distinguere il “rifiuto di giurisdizione” dall’ambito degli errori interpretativi, piuttosto che configurarlo come una tipologia eccezionale di tale categoria.

Più confusa e in parte contraddittoria, la ricostruzione proposta dall’Adunanza Plenaria 9 giugno 2016 n. 11, che comunque si riferisce, ancora una volta, all’ipotesi, più revocatoria che cassatoria, del contrasto con decisione CGUE sopravvenuta. Come rileva la suddetta ordinanza di rinvio, infatti, il Supremo Consesso giurisdizionale amministrativo aveva evidenziato “come sia già (…) presente nel nostro ordinamento il principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario o, più in generale, contrastante con norme di rango sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione”, ricordando testualmente [sempre l’Adunanza Plenaria] che “Come, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno anche recentemente ribadito, l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un “limite esterno” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “casi estremi” in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per “errores in iudicando” o “in procedendo” che danno luogo al superamento del limite esterno (…). In questi “casi estremi” (…) si impone la Cassazione della sentenza amministrativa “indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria””.

*

Al di là del nomen utilizzato, ciò che però soprattutto emerge dalla suddetta analisi è che il vero “criterio guida” sul quale, fino all’ordinanza del 18 settembre, la Corte di cassazione ha tracciato il confine tra violazione di legge (insindacabile) e motivo di giurisdizione (sindacabile) non era tanto – né soltanto – il contrasto con il diritto sovranazionale, ma proprio il “diniego di giurisdizione”, che, ma solo occasionalmente (si vedano infatti le sentenze del 2008 e del 2012, che lo hanno rilevato rispetto al diritto interno) tale contrasto ha aggravato (reso più “abnorme”). Si precisa infatti, nella stessa ordinanza di rinvio alla CGUE, che “si è ritenuto ammissibile il sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, per motivi inerenti alla giurisdizione, nei casi di radicale stravolgimento delle norme di rito, tali da implicare un evidente diniego di giustizia e un eccesso di potere giurisdizionale (Cass., Sez. Un., 17 gennaio 2017, n. 964; 12 ottobre 2015, n. 20413; 30 ottobre 2013, n. 24468; 14 settembre 2012, n. 15428)”.

Per parlare, ancora una volta, con la voce della Cassazione, si ricorda che la sentenza n. 956 del 17 gennaio 2017 aveva d’altro canto assai chiaramente precisato che “come già rilevato in casi simili dalle stesse sezioni unite in materia di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione – che l’articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione – non include anche una funzione di verifica della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea (sezioni unite, n. 14043, n. 14042 e n. 10501 del 2016) e l’error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale sol perché venga denunciata la violazione di nome funzionali quali chiarite dalla Corte di giustizia (ex plurimis, sezioni unite, n. 3915 del 2016; n. 2403 del 2014; n. 16886 del 2013)”. E, ancora più nettamente, ha specificato (al pt. 2.4), sgombrando il campo da possibili equivoci, che i “casi estremi” in cui un error in iudicando del Consiglio di Stato per contrarietà ad una pronuncia della Corte di giustizia, ove idoneo a realizzare un “radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, così come interpretate dalla Corte di giustizia” (e cita SS UU, nn. 11380 del 2016, 2242 del 2015 e 15428 del 2012), “si risolve eccezionalmente in un eccesso giurisdizionale tale da consentire il ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione [che] vanno necessariamente identificati [soltanto] in fattispecie in cui la decisione del Consiglio di Stato contraria alla giurisprudenza unionale preclude, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale con conseguente ingiustificato (anche dal punto di vista costituzionale) vuoto di tutela giurisdizionale per l’indicato “indebito rifiuto di erogare” tale tutela “a cagione di una malintesa autolimitazione”, in via generale, dei poteri del giudice speciale” (sezioni unite n. 2403 del 2014) con un “aprioristico diniego di giurisdizione” (sezioni unite n. 771 del 2014)[22].

 

9. Verso l’individuazione di alcuni punti fermi.Alla luce delle precedenti considerazioni, mi sembra possibile individuare alcuni, primi, punti fermi.

Il primo. 

Il rifiuto radicale di giustizia, sub specie di “arretramento” – aprioristico e astratto – dall’obbligo di fornire tutela giurisdizionale a una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento, adducendo ostacoli in rito manifestamente confliggenti con il sistema normativo primario, è una species, particolarmente grave, del genus “eccesso di potere giudiziario” nei confronti del potere legislativo.

Ricostruito in questi termini – e davvero non si vede come possa non esserlo – il “rifiuto” è, tipicamente, una “questione di giurisdizione” e rientra, come tale, nell’ambito delle garanzie primarie dello Stato democratico che il Costituente ha inteso assicurare, anche, e direi proprio, nei confronti dei giudici amministrativi, che più facilmente, anche per la loro istituzionale vicinanza al potere normativo (come consulenti istituzionali e come componenti degli uffici legislativi), possono propendere allo sconfinamento.

Il secondo.

In questi termini, il problema tocca o dovrebbe toccare solo accidentalmente il diritto eurounitario, ovvero lo tocca soltanto se e in quanto il “rifiuto” si realizza rispetto a una fonte UE, atteso che, per le stesse ragioni, la Corte di cassazione dovrebbe potere, e a mio avviso può e deve, cassare le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui “creino” un radicale e aprioristico vuoto di tutela, in frontale contrasto con il quadro legislativo interno: è quanto, del resto, era stato chiaramente affermato nelle pronunce gemelle del 2006 sulla vexata quaestio della pregiudiziale amministrativa (ed è stato, ancorché con una formula più incerta, affermato dalle richiamate sentenze n. 30254  del 2008 e n. 3854 del 2012).

Quello che vorrei cioè sottolineare è che il legame tra le vicende in cui la Corte di cassazione ha rilevato il diniego di giustizia e il diritto europeo (UE e CEDU) non può essere decisivo e, dunque, non solo giustificare, ma neppure esaurire, il sindacato su tale “rifiuto”.

L’argomento del “radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, così come interpretate dalla Corte di Giustizia” (invocato, ex plurimis, nelle sentenze nn. 11380 del 2016, 2242 del 2015 e 1548 del 2012), è, invero, piuttosto, servito alle Sezioni Unite per rafforzare la gravità (e i rischi) del rilevato diniego e, se mai, per circoscrivere – ulteriormente rispetto all’art. 111, comma 8 – l’ambito delle pronunce cassatorie, che, come visto, al di là delle numerose affermazioni di principio, non sono mai concretamente intervenute sull’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del nostro legislatore e, soltanto in due casi, sono state giustificate dal diniego di giustizia rispetto a una norma interna (ricordo, ancora, che le ordinanze gemelle del 2006 si limitarono a una “ammonizione” e che le sentenze n. 30254 del 2008 e n. 3854 del 2012 utilizzarono peraltro la formula dell’estensione della questione di giurisdizione ai “contenuti” della tutela).

Il terzo. 

L’uso, molto accorto, che la Corte di cassazione ha fatto finora dello strumento e i limiti in cui essa stessa lo ha, come visto, dichiaratamente contenuto, negando in buona sostanza la concreta rinvenibilità di ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore in ambito sostanziale e riducendo quelle in ambito processuale all’aprioristico e “abnorme” diniego di giustizia (riconosciuto in un arco di 70 anni solo in quattro occasioni, di cui solo due in riferimento al diritto UE), rendeva molto remoto – e direi, anzi, puramente teorico – il rischio che esso si trasformasse, da garanzia dell’assetto costituzionale dei poteri pubblici, in un eccentrico terzo grado di giudizio amministrativo[23].

Il timore di una progressiva “colonizzazione” del terreno riservato al giudice amministrativo, attraverso un lento e progressivo tentativo delle Sezioni Unite di convergere verso l’unicità della giurisdizione[24], sembrava, quindi, in concreto infondato.

E, significativamente, esso si è palesato soprattutto quando si è temuto che la Suprema Corte, più che attraverso le sue (come visto, rarissime) pronunce cassatorie, nella motivazione sottesa al “rinvio” alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale delle norme in contrasto con le sentenze CEDU sui casi Mottola e Staibano, insistendo sulla portata evolutiva del concetto di giurisdizione e sul proprio potere di sindacare la decisione di inammissibilità assunta, in forza di tali norme, dal Consiglio di Stato (in violazione della Carta EDU), stesse in realtà cercando di legittimare un più ampio sindacato sull’interpretazione, suscettibile di sconfinare nella identificazione con il sindacato generale sulla violazione di legge di cui all’art 111, comma 7, Cost..

È questo, mi pare, anche alla stregua di un’attenta rilettura “a freddo” della sentenza n. 6 del 2018, il problema che ha preoccupato il Giudice delle leggi, che, lungi dal negare valenza alla suddetta costruzione “tradizionale”, ha semplicemente affermato che, fermo restando il sindacato sull’eccesso di potere nei confronti dell’amministrazione e del legislatore, e quello sull’aprioristico e astratto diniego di giustizia, il contrasto con l’interpretazione del diritto UE accolta dalla Corte di Giustizia non è di per sé idoneo a consentire alla Corte di cassazione un sindacato generale sulla – diversa – ipotesi della, pur abnorme, “interpretazione” del quadro normativo da parte del giudice amministrativo, per ciò che detto sindacato sarebbe assimilabile alla violazione di legge.

Per quanto sopra esposto, si tratta però, di un “falso problema”, ché, appunto, il rifiuto aprioristico di tutela di una posizione giuridica nelle forme stabilite dall’ordinamento non è una mera “violazione di legge”, ma è, incontrovertibilmente, una “questione di giurisdizione”.

Il quarto. In questo quadro, il problema della possibilità di rilevare/riconoscere il suddetto “rifiuto” (l’eccesso di potere giurisdizionale sub specie di rifiuto di giustizia) anche rispetto alle forme di tutela stabilite dal diritto dell’Unione e, più in particolare, all’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, presenta alcuni contorni particolari, legati, per un verso, al primato del diritto dell’Unione e al valore di “fonte” super primaria che si riconosce all’interpretazione datane dalla sua Corte e, per l’altro, alla peculiare funzione di quest’ultima, che, come ben rilevato in passato dalle stesse Sezioni Unite, “non opera, nell’esercizio del potere d’interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale” (sent. n. 6605 del 2015, cit.).

Sotto il primo profilo, si potrebbe dunque porre il problema se lo “sconfinamento/arretramento” rispetto alla regola interpretativa data dalla Corte di Giustizia sia davvero equiparabile a quello nei confronti del legislatore. Il secondo profilo rileva invece essenzialmente ai fini della configurabilità dell’omesso rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE come invasione delle competenze di un’altra “giurisdizione”. Un ulteriore profilo investe l’organo competente a risolvere tali questioni e, in particolare, la spettanza dell’ultima parola a un organo sovranazionale.

Si tratta, evidentemente, di interrogativi che non hanno e non avranno un’univoca soluzione.

Una cosa a me pare comunque certa. Il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale rispetto al diritto UE “va necessariamente insieme” a quelli sul “rifiuto” e allo “sconfinamento” rispetto al “quadro” tracciato dal legislatore interno: se si nega, nei fatti, quest’ultimo, perché lo si assimila all’errore interpretativo, non si può, a mio avviso, affermare il sindacato della Corte di cassazione solo per l’arretramento rispetto alla tutela assicurata a una posizione giuridica soggettiva dal diritto UE, perché non si riuscirebbe a ricondurlo a una “questione di giurisdizione”.

L’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia, del resto, è ben consapevole che le due cose “vanno insieme”: lo dimostra al pt. 41, laddove invoca il principio dell’equivalenza, rappresentando al Giudice sovranazionale che, in Italia, la Cassazione può effettuare il sindacato sull’eccesso di potere nei confronti del legislatore e che, in un caso come quello del giudizio a quo, rispetto al diritto nazionale, lo avrebbe effettuato, censurando l’operato del giudice per avere “esercitato poteri giurisdizionali di cui è privo”.

Il rischio del vuoto di tutela paventato dalle Sezioni Unite per giustificare il ricorso ai Giudici di Lussemburgo si percepisce, dunque, piuttosto, all’inverso e in termini più generali, nel fatto che, fino a oggi, il nostro “Giudice garante dei limiti della giurisdizione” abbia invece – tenacemente – disconosciuto la rilevabilità di ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale rispetto al legislatore e, per di più, “dequotato” il diniego di giustizia a mero errore interpretativo, avvertendo poi l’esigenza di ricorrere al radicale stravolgimento delle regole UE per giustificarne la sindacabilità, così, in buona sostanza, teorizzandone il confinamento a tale ipotesi (così peraltro indebolendo, se non radicalmente svilendo, il richiamo all’equivalenza).

Più delicato, indubbiamente, il problema se, spettando al Corte di Giustizia l’interpretazione delle regole unionali e imponendo l’art. 267 del TFUE ai giudici nazionali di ultima istanza di rimettere allo stesso Giudice sovranazionale i loro eventuali “dubbi”, il mancato rispetto di quest’obbligo di rimessione possa essere, ex se, ricondotto a una questione su “motivi di giurisdizione”, soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di cassazione. Per un verso, infatti, si tratta in questo caso, evidentemente, di una “interpretazione”, come tale, per quanto ripetutamente sottolineato dalle stesse Sezioni Unite, insindacabile ai sensi dell’art 111, co 8.

Per l’altro verso, tuttavia, è innegabile che la decisione sulla necessità o meno del rinvio impatta sulla “riserva” di interpretazione della Corte di Giustizia, tanto che il mancato rinvio è causa di responsabilità per gli Stati e, di conseguenza, per gli stessi giudici. Tali circostanze potrebbero indurre a ritenere che il mancato rinvio sia, in effetti, riconducibile ai “motivi di giurisdizione”. Nella linea seguita in questa analisi, non si può in proposito omettere di ricordare che, come visto, fino all’ordinanza del 18 settembre, la Corte di cassazione ha costantemente escluso che anche la propugnata lettura “evolutiva” della nozione di “giurisdizione” possa legittimare l’attrazione al suo sindacato del mancato esercizio di detto obbligo di rinvio (menziono, tra le altre, ancora una volta, la sentenza n. 6605 del 2015, cit., che, confermando la propria linea di estrema cautela, osserva che, dal momento che “la suddetta Corte non opera, nell’esercizio del potere d’interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale (in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale), il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato a detta Corte non configura una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr., tra le altre, s.u. n. 16886 del 2013)”; analogamente, oltre a quelle già richiamate, anche la sentenza n. 14042 del 2016).

Tornando però ai “punti fermi”, rilevo che, quale che sia la soluzione che si ritenga di accogliere in merito a tale profilo, non vi sono, a mio avviso, margini per una distinzione tra omesso rinvio su questioni processuali e omesso rinvio su questioni sostanziali, con conseguente oggettiva difficoltà di evitare un’apertura del varco al sindacato generale della Corte di cassazione su tutte le questioni di rilevanza eurounitaria (fermo restando che essa dovrebbe rimetterne la formulazione del quesito al Giudice amministrativo).

 

10. Prime considerazioni sui quesiti proposti alla CGUE. 

Come si inserisce in questo contesto l’ordinanza del 18 settembre? In modo sicuramente dirompente.

Le Sezioni Unite compiono invero un indubbio révirement rispetto alla precedente giurisprudenza e, cancellando i confini entro i quali, come ricordato al pt. 23 della stessa ordinanza[25], con giurisprudenza consolidata, avevano delimitato il loro potere (abnorme stravolgimento di norme di rito tali da implicare un evidente diniego di giustizia e un eccesso di potere giurisdizionale, precludendo l’accesso alle forme di tutela riconosciute dall’ordinamento, anche attraverso l’interpretazione accoltane dalla Corte di Giustizia, ferma in ogni caso l’insindacabilità delle decisioni del giudice amministrativo per omesso rinvio ex art. 267 TFUE) e, “preoccupate” dall’arretramento annunciato, anche in tali casi, dalla propria giurisprudenza all’esito della richiamata sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale[26], allargano il compasso e, abbandonando (recte, rinnegando) l’atteggiamento riduttivo che riportava il diniego di giustizia a un errore interpretativo per ricondurlo (finalmente, ma, per quanto visto, per la prima volta) alla – inammissibile – “attività di produzione normativa”,

  • affermano innanzitutto, in termini generali, che il riferito orientamento “era fondato sulla decisiva considerazione che il giudice nazionale che faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali o processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell’Unione applicabili nella controversia, come interpretate dalla Corte di giustizia … esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione – per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale – censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione, a prescindere dall’essere la sentenza della Corte di giustizia precedente o successiva alla sentenza amministrativa impugnata nel giudizio di cassazione”.
  • Su questa base, investono la CGUE della valutazione della compatibilità con il diritto unionale (in particolare, “gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”)della “prassi interpretativa” (che, secondo l’ordinanza, prenderebbe le mosse dalla Corte costituzionale, ma che, in realtà, come visto, fuori dai più volte richiamati confini, era già consolidata nella propria giurisprudenza) che “modificando il precedente orientamento, ha ritenuto che il rimedio del ricorso per cassazione sotto il profilo del cosiddetto «difetto di potere giurisdizionale», non possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea (nella specie, in tema di aggiudicazione degli appalti pubblici) nei quali gli Stati membri hanno rinunciato ad esercitare i loro poteri sovrani in senso incompatibile con tale diritto, con l’effetto di determinare il consolidamento di violazioni del diritto comunitario che potrebbero essere corrette tramite il predetto rimedio e di pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria, in contrasto con l’esigenza che tale diritto riceva piena e sollecita attuazione da parte di ogni giudice, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione da parte della Corte di giustizia, tenuto conto dei limiti alla «autonomia procedurale» degli Stati membri nella conformazione degli istituti processuali”. Anche se il quesito è ampio e generale, tre elementi potrebbero essere indici di una volontà delle Sezioni Unite di mantenere comunque la distinzione tra il contrasto con le norme in rito e quello con le norme sostanziali, limitando in ogni caso il proprio potere di intervento cassatorio soltanto al primo: (i) il riferimento all’asserita “modifica del precedente orientamento”, che, come visto, apriva il sindacato solo al contrasto con le norme processuali, (ii) il riferimento, al pt. 41, al potenziale contrasto col principio di equivalenza della prassi interpretativa che ritiene pregiudizialmente inammissibili i ricorsi per cassazione volti a denunciare il difetto di potere giurisdizionale del giudice che eserciti poteri di produzione normativa preclusi anche al legislatore nazionale “elaborando ed applicando regole processuali” contrarie al diritto UE e, soprattutto (iii) l’accento posto, al pt. 43.1, sul fatto che la Corte di Lussemburgo avesse affermato il primato del diritto UE sull’autonomia procedurale degli Stati membri “con riguardo al rispetto dei diritti della difesa e del regolare svolgimento del procedimento”. .
  • A seguire, proprio perché “dubitano” della effettiva ravvisabilità di un frontale contrasto della decisione del giudice amministrativo con il diritto UE, per come interpretato dalla Corte di Giustizia nelle note sentenze Lombardi, Fastweb e Puligenica (tanto da formulare il terzo quesito: v. infra), rimettono alla stessa Corte sovranazionale di valutare “Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, TUE e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art, 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [e dunque il combinato disposto tra il primato del diritto UE, l’obbligo di rinvio pregiudiziale dei dubbi interpretativi alla CGUE e il principio di effettività della tutela[27]], ostino all’interpretazione e applicazione degli articoli 111, ottavo comma, della Costituzione, 360, primo comma, n. 1, e 362, primo comma, del codice di procedura civile e 110 del codice processo amministrativo, quale si evince dalla prassi giurisprudenziale nazionale [sembrerebbe, dai precedenti passaggi dell’ordinanza, anche della Corte costituzionale], secondo la quale il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per «motivi inerenti alla giurisdizione», sotto il profilo del cosiddetto «difetto di potere giurisdizionale», non sia proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit, C-238/81) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell’Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento dell’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell’Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione”.
  • Da ultimo, confidando nell’esito dei primi due quesiti nel senso favorevole al proprio potere/dovere di procedere direttamente al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE a fronte di un rilevato “arretramento” di tutela del giudice amministrativo, sottopongono alla Corte di Giustizia il “dubbio” sulla questione principale, ovvero “Se i principi dichiarati dalla Corte di giustizia con le sentenze 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18; 5 aprile 2016, Puligienica, C-689/13; 4 luglio 2013, Fastweb, C100/12, in relazione agli articoli 1, par. 1 e 3, e 2, par. 1, della direttiva 89/665/CEE, modificata dalla direttiva 2007/66/CE, siano applicabili nella fattispecie che è oggetto del procedimento principale, in cui, contestate dall’impresa concorrente l’esclusione da una procedura di gara di appalto e l’aggiudicazione ad altra impresa, il Consiglio di Stato esamini nel merito il solo motivo di ricorso con cui l’impresa esclusa contesti il punteggio inferiore alla «soglia di sbarramento» attribuito alla propria offerta tecnica e, esaminando prioritariamente i ricorsi incidentali dell’amministrazione aggiudicatrice e dell’impresa aggiudicataria, li accolga dichiarando inammissibili (e ometta di esaminare nel merito) gli altri motivi del ricorso principale che contestino l’esito della gara per altre ragioni (per indeterminatezza dei criteri di valutazione delle offerte nel disciplinare di gara, mancata motivazione dei voti assegnati, illegittima nomina e composizione della commissione di gara), in applicazione di una prassi giurisprudenziale nazionale secondo la quale l’impresa che sia stata esclusa da una gara di appalto non sarebbe legittimata a proporre censure miranti a contestare l’aggiudicazione all’impresa concorrente, anche mediante la caducazione della procedura di gara, dovendosi valutare se sia compatibile con il diritto dell’Unione l’effetto di precludere all’impresa il diritto di sottoporre all’esame del giudice ogni ragione di contestazione dell’esito della gara, in una situazione in cui la sua esclusione non sia stata definitivamente accertata e [ma questo secondo inciso non è pertinente, non avendo nella specie il ricorrente chiesto l’esclusione di altri concorrenti] in cui ciascun concorrente può far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri, che può portare alla constatazione dell’impossibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere alla scelta di un’offerta regolare e all’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione, alla quale ciascuno degli offerenti potrebbe partecipare”.

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I quesiti fanno riflettere sotto diversi profili.

  • Il primo. Era davvero necessario chiamare in causa la Corte di Giustizia? O, essendo stata di fatto investita di un “rifiuto di giurisdizione”, la Corte di cassazione poteva, alla luce di quanto sopra esposto, semplicemente abbandonare l’atteggiamento “riduttivo” e cassare la sentenza, rimettendo il giudizio al Consiglio di Stato, censurandone la decisione come “arretramento” rispetto alle forme di tutela garantite dall’ordinamento (nella specie dell’Unione europea, come – già – interpretate dalla “sua” Corte di Giustizia), per non aver valutato la questione nel merito, o, facendo un “ulteriore” passo avanti, per non avere interrogato il Giudice sovranazionale sulla effettiva portata delle norme del suo ordinamento?
  • Il secondo. Può davvero la Corte di Giustizia interferire con l’organizzazione del nostro sistema giurisdizionale, al punto da imporre un giudice unico di nomofilachia per le materie di rilevanza eurounitaria? Non posso nascondere che, pur essendo fermamente convinta della necessità di frenare alcune tendenze di giurisprudenza “creativa” in malam partem nei confronti degli amministrati[28], e, soprattutto, pur ritenendo che la Corte di cassazione abbia il potere/dovere di intervenire su qualunque “arretramento” di tutela che si sostanzi in un “aprioristico e astratto” diniego di giustizia, perché esso le è riconosciuto – e, imposto – dal nostro quadro costituzionale, ho dei dubbi sul fatto che la lettura di questo quadro spetti alla Corte di Giustizia, e che il principio di effettività della tutela possa ritenersi ex se violato se uno Stato membro non preveda un giudice unico interno di nomofilachia o, comunque, un unico organo giurisdizionale di controllo interno sul rispetto delle norme UE. L’ordinanza di rimessione, del resto, è costretta ad affermare che “La nozione di giurisdizione è tuttavia sufficientemente ampia da fare ritenere a queste Sezioni Unite — le quali vigilano sul «rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni» (articolo 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, sull’Ordinamento giudiziario) — che il ricorso per cassazione costituisca l’estremo rimedio apprestato dall’ordinamento nazionale per evitare la formazione di qualunque giudicato contrario al diritto dell’Unione”: ma chi ha il potere di interpretare e definire la “nozione di giurisdizione” che fonda il sindacato della Corte di cassazione nell’art. 111, comma 8, della nostra Costituzione, se non i “nostri” giudici interni? Ciò posto, è indubbio che l’interpretazione delle norme costituzionali spetta alla Corte costituzionale, ma è altrettanto indubbio che nel caso di specie questa deve muoversi nel rispetto della prerogativa che la vigente Costituzione riconosce alla Corte di cassazione quale giudice naturale della giurisdizione. In altri termini, laddove la nostra Costituzione non prevedesse alcuna forma di sindacato della Corte di cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, potremmo solo per questo dire che il nostro sistema viola il principio eurounitario di effettività della tutela? Non mi sembra, restando peraltro sempre aperta, in caso di effettiva violazione di tale principio, la possibilità di ricorso alla CEDU. Sembra allora anche difficile affermare che la lettura dell’art. 111, comma 8, Cost. e la definizione dei confini entro i quali esso delinea l’intervento della Corte di Cassazione possano essere rimessi alla Giudice sovranazionale.
  • Il terzo. Anche se il problema si è posto finora per le questioni di rito e l’ordinanza, come visto, fa riferimento in alcuni passaggi al diritto di difesa e invoca la garanzia di effettività della tutela delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza eurounitaria (pt. 47), vi è davvero un fondato timore che le Sezioni Unite stiano cercando un più generale “lasciapassare” per un sindacato ex art. 111, comma 8, Cost. su ogni ipotesi in cui il giudice amministrativo intenda applicare una regola diversa da quella risultante dal diritto UE come “letto” dalla Corte di Giustizia, a prescindere dal fatto che il contrasto attenga a una questione sostanziale o processuale? E, in caso affermativo, questa ricerca sarebbe criticabile? Anche se la lettura “teorica” finora data dell’art. 111, co 8, Cost. dovrebbe, per le ragioni già dette, consentire un tale sindacato (dal momento che il limite alla potestas iudicandi non dovrebbe conoscere distinzioni tra norme processuali e sostanziali), il fatto che, in concreto, la Dottrina ne abbia riconosciuto l’oggettiva difficoltà e la Corte di cassazione non abbia mai riconosciuto l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore interno, escludendo in buona sostanza la possibilità di distinguere tra creazione e interpretazione, riducendo così essa stessa la nozione di “sconfinamento rispetto al legislatore” al solo diniego di giustizia (tanto da sentire il bisogno di legittimare il relativo sindacato non tanto con la sua irriducibilità a un errore interpretativo, ma con l’abnormità di tale errore) fa sorgere il dubbio che occorra cercare ancora un giusto equilibrio, come del resto era stato fatto fino alla sentenza n. 6 del 2018; e come, forse, vuole ancora fare la Corte di cassazione quando, nell’ordinanza, fa più volte riferimento alle questioni di diritto processuale. È questo, evidentemente, il tema sul quale la Dottrina è chiamata a dare il suo contributo. Ed è questa la ragione per la quale mi è sembrato opportuno iniziare ad offrire un quadro quanto più possibile completo dell’evoluzione giurisprudenziale che ha preceduto la rimessione alla Corte di Giustizia, confidando di offrire, quanto meno, uno strumento utile al dibattito, che, probabilmente, continuerà per molti anni a non trovare una soluzione.

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Torno allora sui quesiti.

Una volta preso atto dell’assoluta novità del percorso intrapreso dalle Sezioni Unite – e lasciata da parte la questione della insindacabilità da parte della Corte di Giustizia del nostro sistema di organizzazione dei rapporti tra le giurisdizioni e della scelta, a mio avviso puramente interna (e dunque salvaguardata dall’autonomia procedura degli Stati membri), di affidare o meno a un unico giudice (nella specie, l’organo di vertice della magistratura ordinaria, cui, tra l’altro, si affida la soluzione del conflitto tra le giurisdizioni) ogni ipotesi di sconfinamento/arretramento dalla potestas iudicandi – il primo quesito è davvero così dirompente? Forse anche no.

Mi sembra infatti di poter dire che – se, come si è sempre sostenuto, si identifica come “motivo di giurisdizione” ogni sconfinamento del giudice dalla sua potestas iudicandi e se, come è oggettivamente difficile negare, il giudice, amministrativo o ordinario, non ha il potere di coniare una regola “opposta” a quella stabilita dal diritto UE (che prevale anche sul potere legislativo interno), già chiaramente definita, in riferimento a fattispecie perfettamente sovrapponibili, dal suo interprete istituzionale – nel caso in cui una decisione di un giudice amministrativo di ultima istanza  si ponga effettivamente in un siffatto frontale contrasto con una esplicita giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sembra possibile negare che si ponga una “questione di giurisdizione”, sindacabile dalla Corte di cassazione. Ma non per il fatto che essa è la vestale del controllo del rispetto del diritto UE, quanto piuttosto perché, come si è fino ad oggi pacificamente ritenuto (e la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 non ha negato), essa è il giudice ultimo del rispetto dei confini del potere giurisdizionale. E, se una questione di interpretazione del diritto UE è già stata risolta in una determinata direzione dalla sua Corte di Giustizia, non vi è più spazio per “interpretazioni” del nostro giudice: non soltanto per “creazioni”, ma neppure per “interpretazioni”. Non si potrebbe, quindi, invocare il “labile confine” tra le due operazioni che ha finora consentito alle Sezioni Unite di sottrarsi al potere/dovere di sindacare lo sconfinamento nel potere legislativo interno, giustificandone l’atteggiamento di self-restraint per le questioni che non si traducono (addirittura) in un diniego di giustizia. Il ragionamento svolto dalla Corte costituzionale può anzi, in quest’ottica, essere ribaltato: se non è ammissibile una “graduazione” del vizio, non lo è neppure per lo sconfinamento, che è sindacabile, non solo rispetto al diritto UE, ma anche rispetto al diritto interno, anche quando non si traduca in un diniego di giustizia.

Affinché si versi in questa situazione, occorre però che non vi siano margini di dubbio interpretativo: ovvero che la disposizione violata sia netta e inequivocabile o che la Corte di Giustizia si sia già pronunciata su quella specifica questione.

Delimitato in questi termini, lo spazio per il ricorso per “cassazione” di cui si chiede al Giudice sovranazionale di affermare (recte, ribadire) la necessità, sul presupposto (a oggi indiscusso e, per quanto detto, non verificabile dalla CGUE) che la nostra Costituzione affida alle Sezioni Unite il controllo sul rispetto dei limiti della giurisdizione, non sembra a ben vedere maggiore (se il giudice amministrativo resta nell’ambito del suo potere) di quello che il sistema riconosce (e che le Sezioni Unite dovrebbero più ampiamente utilizzare) per lo sconfinamento rispetto al diritto interno. Se poi le parti faranno abuso dello strumento, utilizzandolo in via strumentale al mero scopo di impedire il passaggio in giudicato delle sentenze dei giudici amministrativi, l’ordinamento interno dovrà trovarvi adeguati rimedi, con l’eventuale previsione di filtri e/o con un accorto uso della condanna alle spese.

Resta, tuttavia, un dubbio sulla rilevanza: nel caso rimesso alla Corte di Giustizia, infatti (i) si trattava proprio di un diniego di giustizia, ma (ii) la questione era (almeno parzialmente) diversa da quella (recte, quelle) già risolte dalla sua giurisprudenza. Il ricorrente escluso, infatti, non contestava (come riferito dall’ordinanza nell’ultima parte del terzo quesito[29]) l’ammissibilità delle offerte concorrenti (questione affrontata dalle precedenti pronunce della Corte di Lussemburgo), ma, più in generale, la validità della gara (illegittima composizione della Commissione e indeterminatezza dei criteri).

Il quesito più dirompente è infatti, a ben vedere, proprio il secondo: è parimenti riconducibile a un “motivo di giurisdizione” il mancato rinvio di un “dubbio interpretativo” alla Corte di Giustizia? È questa la questione centrale che viene, a mio avviso, sollevata dall’ordinanza: l’obbligo di rinvio pregiudiziale previsto dall’art. 267 TFUE è sufficiente ad affermare che il giudice nazionale, omettendo di disporlo, potrebbe avere, solo per questo, superato i confini del suo potere, giustificando così il “controllo” del Giudice garante dei confini della giurisdizione?

La risposta richiede alcuni passaggi logici.

Sembra invero difficile disconoscere che, nell’esercizio del potere di interpretazione, che è proprio di ogni giurisdizione, ci sia, evidentemente, anche quello di ritenere che il quadro normativo e giurisprudenziale non dà adito a dubbi. Se così è, l’eventuale errore commesso in tale valutazione (pur nella specie a mio avviso difficilmente disconoscibile) non sembra riconducibile ai “motivi di giurisdizione”, neppure invocando lo sconfinamento nella potestas della Corte di Giustizia, che, non solo non è propriamente “giurisdizione”, ma, soprattutto, è chiamata solo a risolvere i “dubbi”, laddove il giudice del caso concreto ne abbia rilevati. Il fatto che il giudice interno di ultima istanza abbia l’obbligo di rimettere i “dubbi interpretativi” sulla portata delle norme UE al Giudice sovranazionale non sembra invero sufficiente ad affermare che esso non abbia il potere di valutare in autonomia se ricorra o meno un’ipotesi di dubbio, non diversamente da quanto si ritiene per la rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale. Sicché peraltro, ancora una volta, l’effetto dell’allargamento del compasso prospettato dalle Sezioni Unite sarebbe più ampio, aprendo il varco al sindacato della Corte di cassazione anche con riferimento alle mancate rimessioni alla Corte costituzionale.

Non sembra infatti che l’esigenza di evitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, pur indubbiamente importante e potenzialmente utile, sia argomento sufficiente per trasferire l’ultima parola interpretativa sulla configurabilità di dubbi di compatibilità eurounitaria al Giudice delle questioni di giurisdizione, né, qualora gli si riconoscesse tale potere, per fondare il discrimine tra questa “interpretazione” e quella che sta alla base del mancato rinvio alla Corte costituzionale.

 Confidando di avere offerto un quadro abbastanza ampio ed esauriente di riflessione per il dibattito, ritengo che la complessità delle problematiche sollevate dall’ordinanza e i rischi degli effetti che potrebbe avere un conflitto tra le Corti – nazionali e sovranazionali – coinvolte imponga di affrontare il problema aperto abbandonando tesi preconcette e ricercando un nuovo punto di equilibrio, che riconosca alla Corte di cassazione il sindacato sui casi di eccesso di potere giurisdizionale anche in forma di diniego di giustizia senza trasmodare nell’ammissione di un terzo grado di giudizio nel merito delle decisioni del giudice amministrativo.

Maria Alessandra Sandulli

*L’articolo qui riportato viene contemporaneamente pubblicato dall’Autrice anche sul sito https://www.giustiziainsieme.it

 

[1] Il presente lavoro riserva deliberatamente ad altra sede il confronto con i suddetti contributi, dei quali comunque, senza pretesa di esaustività, si dà doverosa indicazione per un più completo quadro di riflessione. Ai primissimi commenti di G. TROPEA, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 7 ottobre 2020; A. TRAVI, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020; A. CARRATTA-G. COSTANTINO-G. RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, 19 ottobre 2020, si sono aggiunti quelli di B. CARAVITA, Postilla a S. Barbareschi, L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione  «fuori  contesto»:  considerazioni  a prima  lettura  di  ord.  Cass.  SS.UU. 18 settembre  2020, n. 195982, in federalismi, 4 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustiziainsieme, 11 novembre 2020; Ginevra GRECO, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; B. NASCIMBENE-P. PIVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 24 novembre 2020.

[2] Limiti esterni di giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE (a proposito di Cass. S. U. n. 19598 del 2018), Università Roma Tre, 6 novembre 2020, reperibile on line su giustiziainsieme.it al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1390-motivi-di-giurisdizione-e-pregiudiziale comunitaria-atti-del-convegno-di-romatre-del-6-11-2020(con Interventi di G. SERGES, G, COSTANTINO, A. CARRATTA, E. CANNIZZARO, F. FRANCARIO, M. LUCIANI, G. RUFFINI, M. A. SANDULLI e A. TRAVI).

[3] Nella Relazione per l’apertura dell’anno giudiziario 1947 del Procuratore generale M. Pilotti presso la Corte di cassazione (L’amministrazione della giustizia e la riforma costituzionale, in Riv. Pen. 1947) si legge al par. 10 che

In sede di applicazione del R. D. 29 giugno 1939 n. 1127, riguardante i brevetti per invenzioni industriali, ed emanato dal potere esecutivo in forza della delega contenuta nel R. D. L. 24 febhraio 1939 n. 317 (convertito. nella Legge 2 giugno 1939 n. 739), le Sezioni Unite hanno dichiarato incostituzionale la disposizione dell’art. 4 che, contrariamente alla legislazione anteriore, esclude dalla brevettabilità, oltre i medicamenti, anche “i processi per la loro produzione”.

È stata affermata l’incostituzionalità di questa innovazione, perché non consentita dalla legge di delega, che, nell’art. 3, si limitava a conferire al governo il potere di “integrare, di modificare e di sopprimere” le disposizioni da attuare, e non quello di innovarle, mutando l’indirizzo della legislazione preesistente.

L’incostituzionalità della norma, da considerarsi per tal modo arbitraria manifestazione del potere esecutivo, veniva a riflettersi nel campo giurisdizionale. Era infatti impugnata davanti alle Sezioni Unite una decisione della Commissione dei ricorsi (giudice speciale, investito di competenza esclusiva per tutto ciò che riguarda il diritto al conseguimento di una privativa industriale) che aveva ritenuto fondato il rifiuto dell’Ufficio centrale brevetti di brevettare un processo di produzione di acidi, proprio in forza della disposizione proibitiva dell’art. 14 del R. D. 29 giugno 1939 n. 1127.

Si è così profilato un caso originale di eccesso di potere, in cui era incorso il giudice speciale (Commissione dei ricorsi) per aver posto a fondamento della sua pronuncia una invalida disposizione di legge. La Cassazione ha affermato che tale decisione è viziata ai sensi dell’art. 3 L. 31 marzo 1877 n. 3761, perché eccede i limiti delle sue attribuzioni il giudice che le esercita in forza di una legge affetta da illegittimità”.

[4] La bibliografia sul tema, naturalmente, è amplissima: tralasciando gli scritti sulla legge sui conflitti e i commenti alla Costituzione, si ricordano, ex plurimis, senza alcuna pretesa di esaustività, in termini generali – accanto alle pagine di E. CANNADA BARTOLI, Sui «motivi inerenti alla giurisdizione», in Foro Amm., II, 1963, p. 315 e ss. e di M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 1973, cap. VIII – V. CAIANELLO, Il limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Scritti in onore di G. Miele, Il processo amministrativo, Milano, 1979; F. MODUGNO, Eccesso di potere, III, in Encicl. Giuridica, Treccani, Roma, 1989; I.M. MARINO, Corte di Cassazione e Giudici “Speciali” (sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.) in Studi onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1993; B. TONOLETTI, Il sindacato della Cassazione sui limiti esterni della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, in Foro It., 1998, I, p. 1567 ss.. Il tema, analizzato a livello monografico da M.V. FERRONI, Il Ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato, Padova, Cedam, 2005 e I. ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, è stato oggetto di rinnovata attenzione dopo le ordinanze del 2006 sulla pregiudiziale di annullamento (su cui, inter alia, M.A. SANDULLI, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., Sez. Un., 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Riv. giur. ed., 2006 e R. VILLATA, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009) e, soprattutto, nell’ultimo decennio. Cfr., tra altri, gli scritti di M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 2012, IV, p. 1677 ss.; A. CORPACI, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. Pubbl., I, 2013, p. 341 e ss.; R. VILLATA, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., 2015, 632 ss.; P. PATRITO, I “Motivi inerenti alla giurisdizione” nell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Napoli, 2016; R. DE NICTOLIS, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; F. FRANCARIO, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2017; C.E. GALLO, Il controllo della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; M.A. SANDULLI, A proposito del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, Intervento alla Tavola rotonda su “Attualità e prospettive del riparto di giurisdizione”, nell’ambito dell’Incontro di Studi organizzato dalla SSM in collaborazione con l’Ufficio Studi massimario e formazione della giustizia amministrativa su “Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo: i settori controversi e l’esigenza di speditezza del giudizio civile”, svoltosi al TAR del Lazio nei giorni 16 e 17 marzo 2017, ivi, 2017; gli Interventi al Seminario di Studi sul tema “Eccesso di potere giurisdizionale e diniego della giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione”, Roma, Corte di Cassazione, 21 settembre 2017; e, dopo la sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, A. PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudiceamministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., I, 2018; A. CASSATELLA, L’Eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2 del 2018; P. TOMAIUOLI, L’altolà della Corte Costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in Consulta online, I, 2018; A. POLICE-F. CHIRICO, I «soli motivi inerenti alla giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Il Processo, I, 2019, 113 ss..

[5] La Corte di Giustizia affermò l’obbligo dei giudici nazionali di disapplicazione delle leggi in contrasto col diritto comunitario in una sentenza del 9 marzo 1978, ma tale decisione, come sottolineava A.M. SANDULLI nel suo Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, par. 13-ter, non collimava con il contenuto della sentenza n. 163 del 1977 della Corte costituzionale.

[6] Cfr. Sez. Un., 8 marzo 2012 n. 3622, che offre interessanti spunti per l’individuazione del confine tra l’operazione logica inerente al sindacato sulla motivazione e quella, di ben diversa natura, consistente nell’operare valutazioni di merito con il risultato di “doppiare” la decisione amministrativa impugnata. La fattispecie riguardava una pronuncia del Consiglio Superiore della Magistratura per il conferimento dell’incarico di Presidente di una Corte d’appello. Le Sezioni Unite, chiarendo preliminarmente che le decisioni del giudice amministrativo sono sindacabili per motivi di giurisdizione solo quando il giudice, sconfinando nella sfera di merito riservata all’amministrazione, compie una diretta e concreta valutazione di opportunità e convenienza dell’atto (sia pur realizzata attraverso la forma dell’annullamento) afferma al contempo che, al fine di valutare eventuali sintomi di eccesso di potere che possono affliggere il provvedimento impugnato, il giudice non potrà esimersi da prendere in considerazione la congruità e la logicità del modo in cui l’amministrazione abbia motivato l’adozione di quell’atto, senza che tale valutazione possa considerarsi eccedente nei limiti della propria giurisdizione. Più recentemente, con la sentenza n.18592 del 7 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno addirittura negato l’invasione del potere amministrativo in un’ipotesi in cui, andando peraltro ultra petita (perché il ricorrente non aveva ardito formulare una tale domanda!), il Consiglio di Stato, a fronte di reiterate pronunce di illegittimità del diniego di ASN per le funzioni di professore universitario, invocando i nuovi poteri riconosciuti al giudice di cognizione dall’art. 34, comma 1, lett. e, cpa, per assicurare l’attuazione del giudicato (tra cui la nomina del commissario ad acta destinato a subentrare all’amministrazione in caso di inottemperanza), in luogo di nominare un organo tecnico ad acta in sostituzione di quelli ritenuti inadeguati, ha direttamente condannato il Ministero al rilascio dell’abilitazione. In quel caso, la Suprema Corte, pur riconoscendo la natura tecnico discrezionale della valutazione de qua, ha invero a ben vedere affiancato il Consiglio di Stato in un’operazione che, a parte l’invasione della sfera amministrativa, si è sostanziata nella “creazione” di una norma ampliativa del potere giurisdizionale totalmente eccentrica al sistema. Si legge infatti nella sentenza, in termini che lasciano sinceramente delusi sull’effettivo esercizio della funzione di controllo che la Cassazione sarebbe chiamata a svolgere, che “Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all’Amministrazione di attribuire alla La Macchia l’abilitazione scientifica nazionale (di seguito: “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l’interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l’attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell’attività riservata alla Pubblica Amministrazione”, in quanto “la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed “evolutiva” delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall’art. 34, comma 1, lettera e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza. E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche – e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza – possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all’esigenza di una tutela piena ed effettiva dell’interessato “secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto”. (Questi principi vanno presumibilmente letti in parallelo a quanto affermato nella sentenza n. 19787 del 2015, citata alla nota successiva).

Il confronto tra questa sentenza e la – pressocché coeva (tra le due date di pubblicazione corrono appena 11 giorni) – ordinanza del 18 settembre rivela quindi, per un verso, una sostanziale convergenza delle due magistrature supreme nella ricerca di “interpretazioni evolutive”, e, per l’altro, una estrema – ed eccessiva – ritrosia della Corte di cassazione nel censurare gli “eccessi” del Consiglio di Stato, che stigmatizza solo in caso di “arretramento”.

[7] Ricordo, per tutti, la sentenza 9 novembre 2011 n. 23302, dichiarativa del difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato per aver disposto, in sede di ottemperanza, la ripetizione “ora per allora” di una procedura selettiva precedentemente annullata (per il conferimento dell’incarico di Procuratore Generale aggiunto presso la Corte di cassazione), nonostante i ricorrenti non potessero più fruirne perché collocati in pensione; nonché le sentenze nn. 2312 e 2313 del 2012, che hanno cassato (con rinvio) due pronunce in cui il Consiglio di Stato aveva annullato provvedimenti di esclusione/annullamento dell’aggiudicazione da gare pubbliche per precedenti risoluzioni adducendo il “dubbio” che il reiterato inadempimento documentato dalla stazione appaltante non fosse la “vera” ragione dell’esclusione/autotutela; e, più recentemente, 15 ottobre 2015 n. 19787, che, nel confermare i principi affermati dalla sentenza n. 23302 del 2011 in tema di limiti al potere del giudice di ottemperanza, ha cassato (sempre con rinvio) una pronuncia con cui il Consiglio di Stato, in sede di cognizione, rilevata l’illegittimità di una delibera del CSM per il conferimento di un incarico giudiziario, aveva sostituito la propria valutazione di merito a quella dell’organo di autogoverno.

[8] Vi si legge infatti testualmente e significativamente che “II sistema – al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. I, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzionalità, poi disattese (Corte Cost., 8 maggio 1998 n. 165) – è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni). A metterlo in crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o forniture”. Le stesse ordinanze rilevavano peraltro che la previsione della tutela risarcitoria degli interessi legittimi introdotta per gli appalti di lavori pubblici dall’art. 13 della legge comunitaria n. 142 del 1992 (espressamente abrogata dal d.lgs. n. 80 del 1998, che, come noto, all’art. 35, generalizzò la tutela risarcitoria degli interessi legittimi devolvendola alla giurisdizione esclusiva del g.a.) “ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perché la Corte costituzionale fosse indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell’ art. 24 della Costituzione” (il riferimento era, evidentemente, alle sentenze nn. 204 del 2004 e 191 del 2006, che, per usare sempre le parole delle ordinanze del 13 giugno lasciano però “impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria”).

[9] Alla luce di un attento excursus del quadro legislativo, le ordinanze avevano ritenuto che “il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento” e (dopo aver comunque negato la possibilità di introdurre “una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo” rendendo detto “termine sostanzialmente eguale a quello cui è soggetta la domanda di annullamento perché ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall’esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione”), avevano espressamente affermato che “il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. II giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene”.

[10] Lo stesso A. LAMORGESE, estensore dell’ordinanza di rinvio alla CGUE, alla vigilia della pubblicazione della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, in uno scritto su Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, sulla rivistaFederalismi, si doleva che la Cassazione avesse negli ultimi anni avuto un atteggiamento di self-restraint, svolgendo un sindacato sui “motivi inerenti alla giurisdizione” troppo “cauto” e non abbastanza penetrante. Analogamente, R. DE NICTOLIS, op. cit., p. 32, attribuendo tale cautela ad una (evidente) “consapevolezza che si tratta di un terreno scivoloso in cui, se non si vuole accedere alla tesi del giudice come “bocca della legge”, è innegabile che l’interpretazione della legge ha insito un margine di “creazione” della regola del caso concreto. E se tale “creazione” venisse stigmatizzata come “invasione di campo”, si perderebbe del tutto il confine tra “violazione di legge” e “invasione della competenza legislativa””.

[11] Cfr. le considerazioni critiche svolte in M.A. SANDULLI, “Principi e regole dell’azione amministrativa” riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi, 6 dicembre 2017, e, da ultimo, in Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 3, 2018. Nella Relazione di insediamento e inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, l’allora Presidente del Consiglio di Stato A. PAJNO, osservava del resto significativamente (pag. 7) che “La crisi dell’amministrazione e quella della legislazione chiamano direttamente in causa la giurisdizione, e in particolare la giurisdizione amministrativa. Anche questa si colloca nel contesto della crisi istituzionale, ed è da essa attraversata, contribuendo talora a risolvere i problemi e qualche volta a complicarli”; e l’attuale Presidente, F. PATRONI GRIFFI, nella Relazione introduttiva al Primo congresso nazionale dei Magistrati amministrativi, Palazzo Spada, 7-8 giugno 2019 (Il giudice amministrativo oggi: ruolo, etica, responsabilità, in www.giustizia-amministrativa.it.) sottolineava che “La crisi della legge impone la revisione del principio di legalità come ereditato dal costituzionalismo moderno. Va in crisi il circuito tradizionale del rapporto tra legge amministrazione e giudice. Il percorso lineare “interesse pubblico – norma di attribuzione del potere – provvedimento”, alla base del principio di legalità del secolo scorso, si è da tempo irreversibilmente modificato, evidenziando il farsi diacronico dell’interesse pubblico in concreto”. Sul tema, tra gli altri, L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione giustizia, IV, 2016; nonché i contributi ai Convegni nazionali AIPDA degli anni 2014 e 2015 (su L’incertezza delle regole e Le fonti del diritto amministrativo), in Atti AIPDA, Napoli, 2015 e 2016 e alle Giornate di studio sulla Giustizia amministrativa, svoltesi a Modanella nel 2018 (su “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”), raccolti a cura di F. FRANCARIO – M.A. SANDULLI, Napoli, 2018 e ivi, in particolare i rilievi critici di R. BIN, Il diritto alla sicurezza giuridica come diritto fondamentale, p. 41 (“L’inerzia del legislatore giustifica che lui si avventuri a rispondere alla domanda del privato, per non denegare giustizia: ma il bilanciamento dei diritti non è di sua competenza, spetta al legislatore fissarlo e alla Corte costituzionale controllarne la accettabilità”) e di G. SEVERINI, La sicurezza giuridica e le nuove implicazioni della nomofilachia, e nel 2019 (su “Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo”), raccolti a cura di F. FRANCARIO – M.A. SANDULLI, Napoli, 2019 e ivi in particolare M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, p. 63; e ancora, lo stesso F. PATRONI GRIFFI, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, in Lo Stato, XII, 2019, p. 376 e, da ultimo, G. CORSO, Il principio di legalità, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2020, 43 ss..

[12] Nel 1990 la Corte costituzionale riconobbe invece un caso di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore (costituzionale) commesso proprio dalla Corte di cassazione, in una nota pronuncia in cui la III sezione penale (n. 2734 del 1989) disapplicò una legge regionale (dell’Emilia Romagna) ritenendola non conforme alla Costituzione. In quel caso la Consulta (sent. 14 giugno 1990, n. 285), investita dalla Regione per conflitto di attribuzione, premessa l’ammissibilità del conflitto, perché la Regione aveva denunciato un “errore sui confini stessi della giurisdizione e non sull’esercizio di essa”, affermò che il giudice ordinario, avendo disapplicato la legge regionale, aveva esercitato un potere di giurisdizione che la Costituzione affida solo al giudice costituzionale (in violazione degli artt. 101, 117 e 134 Cost.), testualmente riaffermando che “uno dei principi basilari del nostro sistema costituzionale è quello per cui i giudici sono tenuti ad applicare le leggi, e, ove dubitino della loro legittimità costituzionale, devono adire questa Corte che sola può esercitare tale sindacato, pronunciandosi, ove la questione sia riconosciuta fondata, con sentenze aventi efficacia erga omnes. Questo principio non può soffrire eccezione alcuna”. È noto poi, e non è questa la sede per ricordarlo, il dibattito che, all’inizio di questo millennio, si è acceso sulla cd potere di interpretazione conforme.

É interessante peraltro ai nostri fini segnalare che, in quella occasione, la Corte costituzionale colse l’occasione per “aggiungere che ben altra ipotesi è quella di leggi statali o regionali confliggenti con regolamenti comunitari. In tal caso il potere-dovere del giudice di applicare la norma comunitaria anziché quella nazionale (riconosciuto ai giudici dalla sentenza n. 170 del 1984 di questa Corte e dalle successive che hanno confermato e sviluppato tale giurisprudenza) non si fonda sull’accertamento di una presunta illegittimità di quest’ultima, bensì sul presupposto che l’ordinamento comunitario è autonomo e distinto da quello interno, con la conseguenza che nelle materie previste dal Trattato CEE la normativa regolatrice è quella emanata dalle istituzioni comunitarie secondo le previsioni del Trattato stesso, fermo beninteso il rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili della persona umana: di fronte a tale normativa l’ordinamento interno si ritrae e non è più operante”.

[13] Si legge, infatti, in quest’ultima sentenza, che “Giova ancora ribadire che alla non configurabilità dell’eccesso di potere nelle ipotesi in cui il Giudice speciale od ordinario individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione, anche in via analogica, del quadro delle norme, questa Corte è pervenuta movendo dalla considerazione secondo cui l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto – dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all’uopo creata – detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa; attività quest’ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto”.

[14] Cfr. le considerazioni critiche di T. COCCHI, L’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera legislativa. Ancora un’ipotesi meramente teorica? (Note a margine della sentenza Cass., sez. un., 30 ottobre 2019, n. 27842)”, in Osservatorio di giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI e M. LIPARI, in Foro amm., n. 2 del 2020.

[15] Nella richiamata sentenza 18592 del 2020, le medesime SS UU hanno, più recentemente, ribadito che “l’eccesso di potere giurisdizionale – qui denunciato — che costituisce un aspetto dei motivi inerenti alla giurisdizione per i quali le sentenze dei Giudici speciali possono essere impugnate dinanzi a queste Sezioni Unite, in base all’art. 111, ottavo comma Cost., deve essere inteso come esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un diverso organo, sia esso legislativo o amministrativo, e cioè come una usurpazione o indebita assunzione di potestà giurisdizionale. Esso presuppone il superamento dei limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali del giudice speciale e l’esistenza di quei soli vizi attinenti all’essenza della funzione giurisdizionale, con esclusione di ogni sindacato sui modi di esercizio della funzione medesima (fra le tante: Cass. SU 11 novembre 1983, n. 6690; Id. 19 aprile 1984, n. 2566; Id. 9 novembre 1994, n. 9290 e, in continuità: Cass. SU 5 dicembre 2016, n. 24740; Id. 5 giugno 2018, 14438; Id. 6 marzo 2020, n. 6462)Pertanto, il suddetto vizio non è configurabile con riferimento all’attività di interpretazione delle norme effettuata dal Giudice speciale perché tale attività – anche quando la “voluntas legis” sia stata individuata, non in base al tenore letterale delle singole disposizioni, ma alla “ratio” che esprime il loro coordinamento sistematico – rappresenta il “proprium” della funzione giurisdizionale e non può dunque integrare, di per sé sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale ma, eventualmente, dare luogo ad un “error in judicando“, estraneo al sindacato di queste Sezioni Unite (indirizzo consolidato, di recente ribadito da Cass. SU 28 febbraio 2020, n. 5589)”.

[16] Cfr. le sentenze con cui il TAR Lazio (sentt. n. 2169 e 7460 del 2019 e 12464 del 2020) e il Consiglio di Stato (sent. n. 2859 del 2018) hanno assimilato all’interesse ambientale (che rientra nell’elenco tassativo delle materie cui, in via assolutamente eccezionale, l’istituto non si applica) quello, meramente economico, al recupero degli incentivi in tesi illegittimamente concessi per le fonti rinnovabili di produzione energetica. Sull’ammissibilità di una lettura estensiva delle deroghe all’applicabilità del silenzio assenso stabilite dall’art. 20 l. n. 241 del 1990, la III Sezione civile della Corte di cassazione ha significativamente chiesto la rimessione alle Sezioni Unite (ord. 6 luglio 2020 n. 1 865)

[17] Il riferimento è all’interesse pubblico “autoevidente” invocato dall’Adunanza plenaria n. 8 del 2017, che pure, correttamente, esclude l’ammissibilità della cd “motivazione in re ipsa” (facendola però, non senza contraddizione, rientrare dalla finestra sub specie di autoevidenza).

[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2019, n. 7411 che, riformando la sent. TAR Lazio, Sez. I, n. 11494 del 2018, ha ritenuto che, nonostante il silenzio della legge, l’ANAC avesse un potere di accertamento di sulle ipotesi di inconferibilità ed incompatibilità disciplinate dal d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39 e, in generale, sulla corretta applicazione della suddetta disciplina ai sensi dell’art. 16, comma primo, del medesimo decreto.

[19] Cfr. le note sentenze Mottola e Staibano del 4 febbraio 2014.

[20] E’ significativa – e interessante – a tali fini la lettura degli Interventi al Seminario di Studi organizzato presso la Corte di cassazione il 21 settembre 2017, cit. alla nota 4.

[21]Il ricorrente non ha tuttavia più riassunto il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato. Il rilevato “diniego di giustizia” ha così fatto salvo l’affidamento di una concessione di costruzione e gestione per ben 33 anni di un’opera strategica finanziata con fondi comunitari a un soggetto che non ha mai prodotto (né nel procedimento, né in giudizio) i prescritti certificati penali.

[22] Analogamente, nella sentenza nn. 6605 del 2015 si affermava che “La giurisprudenza di queste sezioni unite 2011 e n. 15428 del 2012) ha infatti ripetutamente chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 362 c.p.c., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dalla affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, la quale non possa per questo essere da lui conosciuta (v. s.u. n. 3037 del 2013 e tra le altre v. anche s.u. n. 26583 del 2013, secondo la quale appartiene all’area del sindacabile rifiuto della propria giurisdizione solo quel diniego di tutela da parte del giudice amministrativo che si radichi nella affermazione della esistenza di un ostacolo generale alla conoscibilità della domanda, mentre si sottrae a detto sindacato quel diniego che discenda direttamente ed immediatamente: dalla lettura o dalla applicazione delle norme invocate a sostegno della pretesa e che pertanto di tale lettura costituisca applicazione nel processo), onde l’evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8, quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. su n. 10294 del 2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori in iudicando o in procedendo che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso (cfr. anche su n. 771 del 2014). Deve peraltro aggiungersi che secondo la giurisprudenza di queste sezioni unite è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un elidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge (v. su n. 24468 del 2013 nonché tra le altre su n. 17933 del 2013 n. 15428 del 2012) ed inoltre che, ove il problema si ponesse eventualmente in relazione alla interpretazione della giurisprudenza comunitaria, anche l’eventuale erroneità della decisione sul punto non la renderebbe perciò solo sindacabile in questa sede (v. tra le altre su n. 2242 del 2015, secondo la quale il controllo del limite esterno della giurisdizione – che l’art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di cassazione – non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo” per contrasto con il diritto dell’Unione europea, salva l’ipotesi, “estrema”, in cui l’errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo)”. Analogamente, tra le successive, la sentenza n. 26899 del 2016 e, in riferimento alla giurisprudenza CEDU, la sentenza n. 26992 del 2016.

[23] Appare utile riportare alcuni passaggi principali della sentenza 4 febbraio 2014 n. 2403, chiarissima, in tal senso, in cui le Sezioni Unite hanno dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto ex art. 111, comma 8, Cost. per contestare una decisione del Consiglio di Stato ritenuta ingiustamente applicativa di una norma sostanziale contraria al diritto UE, affermando testualmente che “In questa prospettiva, il ricorso con il quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi inerenti alla giurisdizione soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, oppure nei casi, estremi, nei quali l’errore si sia tradotto in una decisione anomala o abnorme, frutto di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, non quando si prospettino come omissioni dell’esercizio del potere giurisdizionale meri errori in iudicando o in procedendo (Sez. Un., 26 gennaio 2009, n. 1853; Sez. Un., 12 marzo 2012, n. 3854; Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 3037; Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17933; Sez. Un., 9 settembre 2013, n. 20590; Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 774; Sez. Un., 27 gennaio 2014, n. 1518). L’evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, Cost., quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia, ma la tutela negata si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori, di giudizio o processuali, che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame (Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 771).

Con particolare riguardo, poi, alla questione se l’esigenza di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea e la necessità che le disposizioni di legge vigenti siano conformi ai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione, ai sensi dell’art. 117 Cost., impongano di ritenere impugnabili per cassazione le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano adottato una interpretazione della norma interna non conforme al diritto eurounitario o abbiano violato l’obbligo di disapplicazione per illegittimità comunitaria, queste Sezioni Unite hanno escluso che la violazione del diritto dell’Unione da parte del giudice amministrativo valga, di per sé, ad integrare un superamento delle attribuzioni del giudice amministrativo. La primazia del diritto dell’Unione europea – si è osservato (Sez. Un. 10 marzo 2012, n. 3236) – “non sovverte gli assetti procedimentali degli ordinamenti nazionali (e la relativa funzione di garantire certezza e stabilità ai rapporti giuridici)”: sicché, per un verso, “il mancato accoglimento, da parte del Consiglio di Stato (organo di vertice dell’ordinamento giurisdizionale di appartenenza), di una richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia del Lussemburgo… è determinazione che, essendo espressione della potestas iudicandi devoluta a quel giudice, non esorbita i ‘limiti interni’ della sua giurisdizione”, e, per l’altro verso, “il ricorso per cassazione, teso ad accertare la ricorrenza, esclusa dal Consiglio di Stato, delle condizioni per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, è inammissibile, giacché si risolve in una impugnativa diretta, non già a prospettare una questione attinente alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma a denunciarne un (supposto) errore di giudizio”. In questa prospettiva, si è ribadito (Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013, cit.) che il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato alla Corte di giustizia non configura una questione attinente allo sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, e che – impugnata per cassazione una decisione del giudice amministrativo – non sussistono neppure le condizioni perché la Corte, la cui cognizione è limitata ai motivi attinenti alla giurisdizione, prospetti alla Corte di giustizia “quesiti interpretativi che attengono al merito della vertenza e non al tema della giurisdizione”; non senza ricordare che “l’ordinamento giuridico interno assicura comunque una effettività di tutela rispetto al pregiudizio ipoteticamente subito a fronte della lesione di un diritto riconosciuto dal Trattato europeo, ben potendo il preteso danneggiato ottenere il relativo ristoro in sede risarcitoria” (Sez. Un., 5 luglio 2013, n. 16886).

4. Nella specie il ricorrente non denuncia un rifiuto di giurisdizione: non si duole, cioè, che il giudice amministrativo, al quale si è rivolto, si sia rifiutato di erogare la richiesta tutela per l’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda proposta. Egli lamenta, piuttosto, che il giudice amministrativo, nell’esaminare la domanda, l’abbia rigettata per un errore interpretativo, non avendo dato all’art. 11 della legge della Regione Siciliana n. 11 del 1988 una lettura conforme a quella risultante da pronunce della Corte di giustizia con riguardo alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio.

Il ricorrente contesta la legittimità del concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali attribuite al giudice amministrativo, e quindi finisce in realtà per sollecitare, al di là della prospettazione formale, un sindacato per violazione di legge. La doglianza non attiene alla corretta individuazione dei limiti esterni della giurisdizione – che, come detto, non sono soltanto quelli che separano i diversi plessi giurisdizionali ma anche quelli che stabiliscono fin dove ciascun giudice è tenuto ad esercitare il potere-dovere di ius dicere – ma investe un vizio del giudizio concernente il singolo e specifico caso.

Sennonché, l’error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale solo perché viene in gioco, nell’interpretazione della norma sostanziale attributiva di diritti, il diritto dell’Unione. Non ogni pretesa deviazione dal corretto esercizio della giurisdizione, sotto il profilo interpretativo ed applicativo del diritto sostanziale, si risolve in un difetto di giurisdizione sindacabile ad opera della Corte di cassazione, a meno che non ci si trovi di fronte ad un indebito rifiuto di erogare la dovuta tutela giurisdizionale a cagione di una male intesa autolimitazione, in via generale, dei poteri del giudice speciale. “Qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta – hanno ricordato queste Sezioni Unite (sentenza 17 maggio 2013, n. 12106) – in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente soltanto se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame. Non per questo, però, ogni errore di giudizio… imputabile al giudice è qualificabile come un eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione”.

5. Il Collegio ritiene che, nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione che la Costituzione affida alla Corte di cassazione non includa la funzione di finale verifica della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea.

La tesi, prospettata dal ricorrente, di una funzione di nomofilachia della Corte di cassazione estesa fino a comprendere l’esercizio di un sindacato sull’osservanza, da parte del giudice amministrativo, della giurisprudenza della Corte di giustizia o dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, non tiene conto della circostanza che – fermo il compito affidato dalla Costituzione alle Sezioni Unite della Cassazione di verificare il mantenimento delle varie giurisdizioni speciali, compreso il Consiglio di Stato, nei limiti dei loro poteri e delle loro competenze – nel plesso della giurisdizione amministrativa spetta al Consiglio di Stato, alle sue sezioni e all’adunanza plenaria, quale giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (ex art. 234 TCE), garantire, nello specifico ordinamento di settore, la compatibilità del diritto interno a quello dell’Unione, anche e soprattutto attraverso l’operazione interpretativa del diritto eurounitario, originario e derivato, svolta dalla Corte di giustizia, all’uopo sollecitata, se del caso, mediante il meccanismo della questione pregiudiziale, e così contribuire alla formazione dello jus commune europaeum.

Del resto, la soluzione prospettata dal ricorrente, ad essere conseguenti, dovrebbe valere non solo quando l’azione amministrativa rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ma anche quando essa abbia un’origine esclusivamente nazionale: anche in tal caso, infatti, il principio di effettività della tutela richiederebbe, per coerenza, la garanzia dell’uniformità dell’interpretazione delle norme attributive di diritti soggettivi, tanto più quando sono in gioco i diritti fondamentali della persona (di cui sempre più spesso conosce il giudice amministrativo, con un catalogo di materie rientranti nella sua giurisdizione esclusiva che si va facendo via via più fitto ed esteso), e quindi una nuova configurazione dell’eccesso di potere giurisdizionale derivante dall’errore interpretativo. A questo risultato, tuttavia, le Sezioni Unite, sinora, non hanno ritenuto di poter pervenire, pur nella consapevolezza dell’esistenza di profili problematici, perché il principio di eguaglianza postula “l’esigenza della uniforme interpretazione della legge”, la quale invece, “stante la non ricorribilità delle sentenze dei giudici amministrativi per violazione di legge”, non ha “strumento alcuno per attuarsi a fronte di differenti orientamenti (e di un diverso diritto vivente, quindi) che dovesse (e lo potrebbe) formarsi in ordine a medesime disposizioni… nelle non comunicanti giurisprudenze dei giudici ordinari e amministrativi” (Sez. Un., 30 marzo 2000, n. 72).

Certo, può accadere che la decisione del giudice amministrativo di ultima istanza contenga una violazione del diritto comunitario in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell’Unione.

Ma il principio di effettività della tutela in presenza di danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili al giudice amministrativo di ultima istanza non impone né di riaprire quella controversia ormai definitivamente giudicata negli aspetti di merito né di attribuire alla parte soccombente un nuovo grado di impugnazione dinanzi al giudice regolatore della giurisdizione al fine di rimediare ad un errore che, pur “sufficientemente caratterizzato”, non si traduca in uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione devoluta al giudice amministrativo. L’ordinamento conosce infatti, là dove la violazione del diritto comunitario sia grave e manifesta, altri strumenti di tutela, secondo una logica di compensazione solidaristica (cfr. Corte di giustizia, sentenza 30 settembre 2003, nel procedimento C-224/01, Köbler e Repubblica d’Austria; Corte di giustizia, sentenza 13 giugno 2006, nel procedimento C-173/03, Traghetti del Mediterraneo s.p.a., in liquidazione, contro Repubblica italiana; Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)”.

[24] Cfr. M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere, cit..

[25] Vi si legge infatti testualmente (e in coerenza con il menzionato scritto del suo estensore, antecedente alla sentenza della Consulta) che “L’orientamento consolidato delle Sezioni Unite (sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 di cui si dirà) era nel senso che, in sede di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo dei limiti esterni della giurisdizione — che l’articolo 111, ottavo comma, Cost., affida alla vigilanza della Corte di cassazione — non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare meri errori «in iudicando» o «in procedendo», «salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell’Unione) tali da ridondare in denegata giustizia, ed in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore “in procedendo” costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia» (in tal senso Sez. Un., n. 31226 del 2017 citata; in senso conforme, Sez. Un. 18 dicembre 2017, n. 30301; 17 gennaio 2017, n. 953; 8 luglio 2016, n. 14042; 29 febbraio 2016, n. 3915; n. 2242 del 2015 citata)”.

[26] L’ordinanza ha per vero buon gioco nel ricordare, che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 6 del 2018, “riconosce che «specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste», ma osserva che «deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione [quindi, di quella amministrativa per le sentenze dei giudici amministrativi], eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’articolo 395 cod. proc. civ.»”; e nel rappresentare (criticamente) al Giudice sovranazionale che  “Tale rimedio, tuttavia, non è previsto dal legislatore nazionale come strumento ordinario per porre rimedio alle violazioni del diritto dell’Unione che siano addebitate agli organi giurisdizionali. La stessa Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93); in altra decisione, ha dichiarato inammissibile una analoga questione sollevata dai giudici amministrativi (Corte cost. 2 febbraio 2018, n. 19)Aggiunge peraltro, e correttamente, che “Tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell’istituto della revocazione (sub paragrafo 15, in relazione all’art. 395 cod. proc. civ.) e, specialmente, quando le sentenze delle Corte sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. E’ comunque dubbio che esso sia idoneo a paralizzare l’ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione”.

[27] Si ricorda al pt. 42 dell’ordinanza che “Una rilevante declinazione del principio di effettività trova specifico riconoscimento negli articoli 19, par. 1, comma 2, TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, i quali impongono agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione (ad esempio, Corte di giustizia, 4 giugno 2013, C-300/11, ZZ, p. 55, 57, 65). Nell’ordinamento nazionale la «tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» costituisce obiettivo proclamato anche nel codice del processo amministrativo (articolo 1)”.

[28] Rinvio, da ultimo, alle considerazioni svolte in Processo amministrativo, cit. alla nota 4.

[29] Laddove si fa indebito riferimento all’esigenza di ciascun concorrente di “far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri”.

 

 

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