SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Le argomentazioni della Corte Costituzionale. 3. Conclusioni.

1.– Con la sentenza in rassegna[1] la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale – promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri – dell’art. 2 della legge della Regione Veneto 12 aprile 2016 n. 12 (modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive modificazioni), nella parte in cui è stato introdotto l’art. 31 bis della L.R. 11/2004, ovvero la norma con cui il legislatore veneto ha attribuito alla Regione e ai Comuni Veneti, ciascuno nell’esercizio delle rispettive competenze, il compito di individuare “i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica, delle confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione, e delle altre confessioni religiose”.

Al contempo, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della medesima legge regionale n. 12/2016 nella parte in cui, nell’introdurre l’art. 31 ter nella L.R. 11/2004, al comma 3, secondo periodo, dispone che “nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto”.

Il ricorso era stato proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri che ravvisava nelle due citate disposizioni di legge una serie di violazioni della Carta fondamentale. In particolare, quanto alla prima norma (art. 31 bis L.R. 11/2004), era denunciato il contrasto con gli artt. 3, 8 e 19 della Costituzione. Quanto alla seconda (art. 31 ter L.R. 11/2004), il contrasto con gli artt. 2, 3, 8, 19 e 117.

La decisione interviene dunque sullo spinoso tema della regolamentazione dell’edilizia di culto, ovvero dell’offerta di “servizi religiosi”, per utilizzare un’espressione cara alla Consulta, che già aveva visto protagonista la Regione Lombardia.

Com’è noto, infatti, la Regione Lombardia era stata parte del giudizio costituzionale conclusosi con la più nota sentenza n. 63/2016 che ha “affossato” la L.R. n. 2/2015, altresì nota come legge “antimoschee”[2].

La sentenza della Corte Costituzionale che qui viene in rilievo si inserisce dunque nel solco di tale ultima decisione e, pur se chiaramente motivata, non convince appieno nella parte in cui ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 31 ter della L.R. 11/2004. La lettura della sentenza suscita infatti interrogativi sul “metro” utilizzato dal Giudice delle Leggi per “cassare” la citata disposizione.

2.– Quest’ultima, invero, si limitava a prevedere che nella convenzione da sottoscrivere tra il Comune e il richiedente la realizzazione delle attrezzature religiose fosse anche possibile – e dunque, ad avviso di chi scrive, non indispensabile e/o obbligatorio, come invece ritenuto dalla Corte, n.d.r. – inserire, in accordo tra le parti, l’utilizzo della lingua italiana “per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche di culto”.

Muovendo dalla premessa che la legislazione regionale in materia di edilizia di culto “«trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende dunque anche i servizi religiosi”, la Corte afferma che “una disposizione, come quella prevista dal secondo periodo del citato comma 3, che consente all’amministrazione di esigere, tra i requisiti per la stipulazione della convenzione urbanistica, «l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto» risulta palesemente irragionevole in quanto incongrua sia rispetto alla finalità perseguita dalla normativa regionale in generale – volta ad introdurre “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” –, sia rispetto alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati”.

Ed infatti, se è pur vero che “la Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure”, è altrettanto vero, secondo la Consulta, che la Regione “eccede(rebbe) da un ragionevole esercizio di tali competenze se, nell’intervenire per la tutela di interessi urbanistici, introduce(sse) un obbligo, quale quello dell’impiego della lingua italiana, del tutto eccentrico rispetto a tali interessi”.

Secondo le parole della Corte, infatti, “a fronte dell’importanza della lingua quale «elemento di identità individuale e collettiva» (da ultimo, sentenza n. 42 del 2017), veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana, appare evidente il vizio di una disposizione regionale, come quella impugnata, che si presta a determinare ampie limitazioni di diritti fondamentali della persona di rilievo costituzionale, in difetto di un rapporto chiaro di stretta strumentalità e proporzionalità rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti, ricompresi nel perimetro delle attribuzioni regionali”.

3.– Come sopra anticipato, se pure l’argomentazione dei Giudici costituzionali risulta chiara nell’evidenziare che non spetta al legislatore regionale, nell’ambito della regolazione di interessi urbanistici, imporre l’utilizzo della lingua italiana per lo svolgimento delle attività nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, in quanto ciò si presta a determinare “ampie limitazioni di diritti fondamentali di rilievo costituzionale”, cionondimeno la pronuncia lascia qualche interrogativo laddove sembra prescindere dal dato letterale della disposizione dichiarata incostituzionale.

Il punto critico della sentenza può essere infatti ravvisato nel fatto che nel secondo periodo del terzo comma dell’art. 31 ter della L.R. 11/2004 non vi è alcuna traccia dell’ “imposizione” di un “obbligo”, legislativamente sancito, dell’utilizzo della lingua italiana ad opera dell’Amministrazione comunale. La sentenza della Corte avrebbe dunque dovuto precisare le ragioni per le quali ha ravvisato un’imposizione dove, letteralmente, essa non è prevista; a pena, altrimenti, che la ricostruzione della normativa regionale da essa fornita possa apparire una “forzatura”, sebbene funzionale all’argomentare dei Giudici delle leggi.

Va infatti rimarcato che la riprovata disposizione si limitava a stabilire che, “nella convenzione, può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”.

Per quanto l’analisi di una disposizione oramai espunta dall’ordinamento giuridico – ad opera di un “giudice” del tutto “speciale”, qual è quello costituzionale – possa apparire esercizio sterile, l’occasione è anche utile per “sondare” lo “stato dell’arte” della tormentata nozione giuridica racchiusa nel concetto di “convenzioni” urbanistiche.

Non vi può essere alcun dubbio, infatti, che la “convenzione” a cui fa riferimento la disposizione in esame debba essere annoverata nell’ambito delle c.d. “convenzioni” urbanistiche[3], le “centauresse”, per utilizzare la famosa espressione del Prof. Giannini, che tanto hanno affaticato – e tanto continuano ancor oggi ad affaticare – sia la dottrina che la giurisprudenza, nella ricerca di una collocazione sistematica del fenomeno.

Ma allora, se si parte da tale presupposto, ci si può chiedere se la disposizione regionale cassata potesse essere letta non tanto come impositiva di un obbligo tout court di utilizzo della lingua italiana, come tale illegittimo, bensì come facoltizzante, nell’ambito dell’autonomia negoziale che va riconosciuta alle parti che addivengono ad una “convenzione” urbanistica,  l’assunzione dell’impegno all’utilizzo della lingua italiana “per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto”.

Va a tale proposito osservato che la dottrina, nel tentativo di sistematizzare il fenomeno delle “convenzioni” urbanistiche, già da tempo ha evidenziato che accanto ad una parte di contenuti necessari[4] la convenzione può anche contenere anche dei contenuti “eventuali, espressione dell’autonomia negoziale delle parti[5].

Certo, ci si può chiedere se nell’ambito di tale autonomia negoziale relativa ad interessi chiaramente urbanistico/edilizi, possa esservi spazio anche per un “impegno” – frutto dell’accordo tra le parti – all’utilizzo della lingua italiana, certamente “eccentrico” rispetto agli interessi primari in gioco.

Ma se si riconosce alle parti della “convenzione” urbanistica una “sovranità” contrattuale, la pronuncia della Corte costituzionale potrebbe aver “conculcato” ai soggetti interessati alla realizzazione di edifici religiosi, magari osservanti culti estranei alla tradizione cristiano-romana, la possibilità di farsi promotori dell’utilizzo esclusivo della lingua nazionale, fattore principe della coesione politica e sociale all’interno del territorio della Repubblica, se è ancor vero che “una nazione dove siano in vigore vari idiomi e la quale aspiri ad avere una lingua in comune, trova naturalmente in questa varietà un primo e potente ostacolo al suo intento[6].

Valentino Peterle

 

[1] La sentenza è stata pubblicata in G.U., 1a Serie Speciale: Corte Costituzionale n. 15 del 12/4/2017. Pres. Grossi, Est. Cartabia – Presidenza del Consiglio dei Ministri (Avvocatura dello Stato) c. Regione Veneto (Avv. Luigi Manzi).

[2] Per un commento alla sentenza della Corte Cost. n. 67/2016, sia consentito rinviare allo scritto – e alla dottrina e giurisprudenza ivi richiamata – di A. LORENZETTI, «La Corte Costituzionale e l’edilizia di culto: alla ricerca di un difficile equilibrio, fra riparto di competenze, libertà religiosa e il “convitato di pietra” dell’”emergenza terrorismo”», in http://www.forumcostituzionale.it

[3] Per una ricostruzione della letteratura sulle convenzioni urbanistiche si rinvia alla relativa voce, curata da V. MAZZARELLI, in Enciclopedia del Diritto, Milano, 2001, pag. 294 e ss. Si rinvia inoltre al volume, curato da A. CANDIAN e A. GAMBARO, “Le convenzioni urbanistiche”, Milano, 1992.

[4] Ovvero: a) cessione gratuita in favore del Comune delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria nonché per la realizzazione della quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria; b) assunzione a carico del lottizzante degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria e di allacciamento ai pubblici servizi; c) indicazione dei termini di esecuzione della convenzione, non superiore a dieci anni; d) previsione di congrue garanzie finanziarie per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione.

[5] Così in “Diritto Urbanistico”, a cura di P. URBANI e S. CIVITARESE MATTEUCCI, Torino, 2013, pagg. 199-200.

[6] ALESSANDRO MANZONI, Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla, Milano, 1868, in www.wikisource.it

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