Il presente scritto è basato sulla relazione tenuta al Convegno “Economia e Giustizia: alla ricerca dell’equilibrio possibile”, organizzato dall’Unione nazionale delle Camere Civili presso la sede della Banca d’Italia in Milano il 16 giugno 2017

Poniamoci, senza ipocrisie od infingimenti, una domanda.

È opportuno, doveroso o addirittura necessario, in nome di un generale interesse della collettività, che la Giustizia, intesa nelle sue più svariate e complesse accezioni, sia subordinata o condizionata al rispetto di parametri economici, cosicché in tanto il suo funzionamento venga tollerato in quanto i suoi costi, a carico della collettività non sforino determinati, preventivati rapporti col PIL e/o in genere della spesa pubblica?

La Giustizia in altri termini, è un bene che lo Stato eroga a favore, indifferentemente di tutti i cittadini, garantendone a priori la facile e pronta accessibilità, oppure è un bene ristretto ad alcune fasce di utenti, superata una determinata soglia di spesa? E’ un bene  da consumarsi senza limiti, oppure fruibile con parsimonia dagli operatori, consapevoli che l’apparato è dotato di ridotte capacità in mezzi ed organici?

La risposta oltre che nel dettato costituzionale è sollecitata dallo stesso titolo che pone l’accento non sulla contrapposizione delle due realtà, intrinsecamente antinomiche – Economia e Giustizia – ma sulla possibilità di perfezionare, via via, alcuni rimedi, che consentano di avvicinare o raggiungere un equilibrio, senza compromettere le funzioni e le finalità dell’una e dell’altra realtà.

In quest’ottica, il dato fondamentale ed imprescindibile è che la Giustizia deve assolvere al proprio compito di erogare il bene della vita senza che il giudizio sulla controversia sia condizionato dagli effetti anche economici che la sentenza produce e, quindi, dai costi diretti o indiretti che ricadono sulla collettività. Senza che il giudizio e la sua qualità siano condizionati dalla rilevanza della posta in gioco.

Il Giudice è soggetto terzo ed autonomo tra le parti, e tale deve rimanere ed apparire, tenuto unicamente a rispettare il dettato normativo, della cui interpretazione è il principale depositario.

Le parti del processo sono necessariamente partigiane tra loro e sui rispettivi interessi contrapposti si erge il Giudice il quale è tanto più imparziale, saggio e coraggioso, quanto più paritario è il sistema che lo assorbe, in grado di neutralizzare le spinte forti, siano esse dei privati o delle Pubbliche Amministrazioni.

In altri termini è lo Stato, con il proprio funzionamento, che deve prioritariamente garantire il libero ed equilibrato funzionamento della Giustizia.

Il che non significa che non possano e non debbano essere introdotti correttivi più o meno sofisticati indotti dalle moderne tecnologie, che riducano i costi, rendendo efficace l’intera organizzazione, razionalizzando la struttura amministrativa, abbandonando le sedi non più operative. Potrà, del pari, essere richiesto ai ricorrenti, soggetto privato o Pubblica Amministrazione, un contributo per attenuare i costi finali. Tale contributo non potrà mai divenire, in ragione della entità pretesa, strumento elusivo e discriminatorio della libertà di accesso alla giustizia, relegata a tempio di pochi addetti, censuariamente privilegiati.

Al contrario lo Stato deve essere in grado di soddisfare la sete di giustizia che tanto più risulta estesa ed inappagata, quanto maggiore si configura la inadeguatezza della burocrazia nell’offrire risposte pronte, chiare ed oggettive al mondo imprenditoriale e più genericamente al singolo cittadino – utente.

Ma allora affrontiamo in questa sede il nodo della Giustizia amministrativa e le problematiche più o meno distorte, alimentate da una diffusa campagna giornalistica che trova epigoni ostili in politici un tempo di rango, ora parcheggiati indifferentemente in tutti i settori dell’arco costituzionale.

Il Giudice amministrativo negli ultimi tempi, è inteso e fatto intendere come un ostacolo al libero dipanarsi dell’economia, rappresenterebbe un freno all’attività imprenditoriale, invischiata nei laccioli delle istanze cautelari e delle sentenze di primo e secondo grado.

Il Giudice amministrativo ed è questo l’interrogativo e la conseguenza di tale posizione va, quindi, tout court eliminato, consentendo da un lato all’Amministrazione di compiere i propri atti senza alcun controllo di legittimità, dall’altro al mondo imprenditoriale di diventare ristretto beneficiario, a scapito di concorrenti forse meno spregiudicati?

Va, semmai, nella meno accesa delle istanze, sostituito con il Giudice ordinario divenendone un’appendice specializzata.

La risposta è una sola ed univoca: no!

Il Giudice amministrativo svolge una funzione preziosa e non sostituibile con surrogati propri di una diversa giurisdizione che poco o mal conosce i complessi funzionamenti della P.A.

Il Giudice amministrativo è in grado di addentrarsi nei i rapporti tra la Pubblica Amministrazione ed il cittadino. Al contrario il Giudice ordinario, e lo si è percepito allorquando il pubblico impiego è stato sottratto alla giurisdizione amministrativa, avverte con difficoltà meccanismi propri della la struttura della P.A. estranei al mondo del lavoro privato in cui la dinamica della prestazione prevale sul formalismo dell’incarico e sulla corrispondenza con le funzioni attribuite.

Quello amministrativo è un mondo che il Giudice ordinario non conosce e sul quale non ha sedimentato la propria esperienza.

Difficoltà di approccio che risulta del resto evidente in tutti i casi in cui la complessità delle materie implica una connessione tra diritti ed interessi legittimi, tra atti autoritativi e quelli discrezionali, tra atti che incidono nella sfera dei diritti e quelli che regolamentano i rapporti.

Al Giudice amministrativo si rivolgono, quale ultimo rimedio, coloro (cittadino o Pubblica Amministrazione) che si ritengono lesi, nelle proprie aspettative, dagli atti che l’ente pubblico ha posto in essere.

Atti sovente ritenuti illegittimi o per vizi procedurali o per violazione di legge o per incompetenza.

Il Giudice deve rispondere alla richiesta avanzata e rispondere quale soggetto imparziale senza piegarsi ad altri interessi che non siano quelli della interpretazione, del tutto autonoma, del dettato legislativo, calata nel caso di specie.

Deve essere organo indifferente alle conseguenze, sociali ed economiche, inducibili dalla propria scelta interpretativa.

Diversamente ragionando le sentenze risulterebbero compromissorie, funzionali ad una posizione ancillare nei confronti della Pubblica Amministrazione, sempre più invigorita nella propria discrezionalità, ostaggio della pressione, dei politici e dei media.

Indipendenza, parità delle armi ed autonomia che appaiono prerogative tanto più difficili da conseguire, quanto più tortuosa e problematica risulta l’analisi delle leggi, oggetto di valutazione.

Le leggi sono mal scritte, farraginose, scollegate tra loro, con commi e richiami inseriti nelle sedi più disparate, comprensibili solo attraverso un faticoso lavoro di cucitura, estraneo alla logica e comprensione del comune cittadino.

Danno luogo, quindi, ad una interpretazione affidata al Giudice amministrativo la cui autonomia, gioco forza, non solo risulta ampliata, ma spesso discutibile, non già per il percorso giuridico seguito, ma per la molteplicità delle variabili deducibili dal dettato normativo.

D’altro canto, solo la sedimentazione giurisprudenziale costituisce debito viatico per la uniformità dei comportamenti.

In ogni caso, l’errore giurisprudenziale rappresenta il male minore e, più facilmente tollerabile anche in termini economici. Diversamente, quale contraltare si prospetterebbe la deregulation degli atti amministrativi e la sopraffazione di una economia monopolistica, in danno dei soggetti più deboli.

Il Giudice amministrativo, con tutte le sue pecche e gli errori compiuti, attribuiti ed attribuibili costituisce, quindi, un baluardo (l’unico residuato) al quale le parti private e pubbliche ancora si rivolgono con fiducia.

E ciò sebbene i ricorsi, sia avanti il Giudice di primo grado (T.A.R.) sia avanti quello di secondo grado (Consiglio di Stato), siano in netto calo (circa il 40% rispetto al decennio pre-crisi).

Un calo giustificato da molteplici ragioni, non ultima quella del costo della Giustizia amministrativa.

Invero, per alcuni settori, vedasi espropriazioni, appalti, cause di fronte alle autorità di vigilanza, i ricorsi, scontano un contributo iniziale che arriva a € 6000. Contributo iniziale che si raddoppia qualora debbano proporsi motivi aggiunti ingenerati dal deposito di documenti successivi a quello impugnato con l’atto principale.

L’azione, quindi, neppure iniziata soggiace ad un fardello di ben € 12.000, cui devono aggiungersi le spese (non poche) di eventuale soccombenza. Somme incrementate della metà in caso di appello. Occorre limitare tali spese.

Deve al riguardo soccorrere la giurisprudenza, troppo incline a dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi principali per mancata impugnativa di atti risalenti nel tempo e neppure funzionali all’economia del giudizio. Si gioca troppo spesso sulla responsabilità del professionista il quale è costretto ad impugnare con più ricorsi gli atti sfociati dal provvedimento per non subire declaratorie di inammissibilità.

La Giustizia amministrativa impone, attualmente, un accesso molto costoso a discapito dei soggetti più deboli che spesso, ancorché consapevoli dell’ingiustizia subita, rinunciano a qualsiasi tutela giudiziaria. Si ha la sensazione che si tratti di uno sbarramento inteso a ridurre il numero dei ricorsi. Questo è un aspetto cui va posto rimedio.

Non corrisponde neppure al vero che il Giudice amministrativo, giungendo all’annullamento degli atti, rappresenti, per la asserita lentezza delle decisioni assunte, un ostacolo o comunque pregiudichi la rapida esecuzione delle opere programmate e, quindi, degli investimenti altrimenti attuabili.

Ipotesi   infondate, prive di analisi reali, supportate da mere dicerie.

I ricorsi accolti in primo grado non superano mediamente il 30% di quelli proposti.

Le istanze cautelari non sfiorano neppure tale aliquota.

Nel contempo solo il 20% dei ricorsi d’appello si traduce nell’annullamento degli atti impugnati.

Numeri molto ridotti nel loro complesso. Con una sottolineatura non secondaria.

I tempi delle decisioni, soprattutto nelle materie più sensibili, sottoposti a cadenze ristrette, non altrimenti comprimibili senza ledere le possibilità di difesa, sono molto contenuti. Si aggirano, per entrambi i gradi di giudizio, in meno di due anni.

Termini al cui interno va ricompresa la fase cautelare la quale, peraltro, proprio per la rapida fissazione dell’udienza di merito, vede attenuata la propria incidenza ed importanza. Essa, comunque, non è sopprimibile, contrastando palesemente tale soppressione con i principi contenuti nella Carta Costituzionale, oltre che con i principi comunitari di effettività della tutela giurisdizionale.

L’intervento cautelare del Giudice amministrativo, spesso concretantesi in pronunce che orientano l’Amministrazione al riesame dell’atto impugnato, appare strumento non già di intralcio dell’attività amministrativa, ma efficace e tempestivo rimedio in situazioni di palese illegittimità.

Ma allora, se il ricorso si pone come elemento centrale ed equidistante tra la risposta (o l’inerzia) dell’Amministrazione e la pretesa del cittadino, non si riesce a comprendere l’assoggettamento dell’azione giurisdizionale ad oneri – contributo unificato – del tutto spropositati, di un ammontare così eccezionale ed elevato da costituire di per sé limitazione all’accesso alla Giustizia, costituzionalmente garantito. Disincentivazione accresciuta dall’inasprimento delle sanzioni, nelle controversie amministrative, a carico dei ricorrenti e degli Avvocati per le liti temerarie.

Va ricordato che l’art. 26 del Codice, intitolato “spese di giudizio”, consente al giudice di condannare la parte soccombente, oltre al pagamento delle spese di giudizio a favore della controparte, di una somma ulteriore, non inferiore al doppio e fino al quintuplo del contributo unificato in presenza di motivi manifestamente infondati.

Ma vi è di più.

Soggiunge il secondo comma del citato art. 26: “Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Nelle controversie in materia di appalti l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto”. Non può non rilevarsi che la fattispecie del giudizio amministrativo, ancorato ad oggettive carenze del complesso normativo vigente, frammentato in un contenuto tecnico di dettaglio, rende molto sottile la linea di demarcazione fra la lite legittimamente avviata, corretta espressione del diritto costituzionale alla difesa, e la lite cd. temeraria.

Un eccessivo inasprimento del regime sanzionatorio, senza una preventiva semplificazione della disciplina, non può che tradursi in una limitazione del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost.

Non vi è alcun paragone con le altre branche della Giustizia.

Ed occorre precisare che pur in presenza di errori, sbavature, lamentazioni, il sistema della Giustizia amministrativa costituisce un idoneo baluardo agli arbitri, ad una sfrenata discrezionalità, alla corruzione, quale via privilegiata per i soggetti dell’ampio sottobosco economico.

La scelta a questo punto si divarica in due soluzioni antinomiche: quella della sottoposizione al dettato normativo, veicolata dalla attenta presenza del Giudice amministrativo, autonomo ed imparziale; quella dell’agire domestico contrattando, senza alcun controllo potenziale, gli atti amministrativi e le scelte finali delle P.A.

In quest’ottica ben venga lo starnazzare dei media a fronte di  alcune recenti sentenze del Tar Lazio solo marginalmente conosciute, sempre che tale starnazzare non si traduca in una indebita pressione nei confronti dei giudicanti ovvero, il che è più grave, nell’intento di togliere di mezzo l’istituto, costituzionalmente garantito, divenuto capo espiatorio delle manchevolezze della politica, dell’incapacità e mal funzionamento della Pubblica Amministrazione in generale e del suo apparato dirigenziale in particolare.

L’emblematica tutela delle oche capitoline è rovesciata.

Ma questo ci permette di trovare i rimedi per raggiungere l’equilibrio auspicato nel titolo del presente convegno.

Essi vanno spostati dal focus della Giustizia amministrativa all’apparato della Pubblica Amministrazione.

Si deve operare sul procedimento e sull’atto amministrativo che da esso scaturisce.

Il procedimento, anche il più complesso, deve essere snellito e ridotto ad essenzialità, aprendo fin da subito per ogni sua fase, qualora l’istruttore ravvisi difficoltà o incongruenze, al contraddittorio con l’istante. Un contraddittorio dinamico che non va limitato alla fase finale, quando la decisione è già stata assunta e, risulta quindi ben problematico modificare il percorso prescelto.

La Pubblica Amministrazione non deve sfuggire alla interlocuzione con il privato assistito dai propri legali in grado di evidenziare le anomalie e prospettare nell’immediato opportuni correttivi.

Operazioni di supporto che ben possano limitare il ricorso al Giudice amministrativo per così dire preselezionato.

L’autonomia discrezionale e responsabile dell’Amministrazione risulta in tal modo esaltata, anziché svilita a fronte di intollerabili controlli vincolanti e sanzioni, attribuiti, da un mondo politico elusivo, all’ANAC; il grande Gendarmone.

In particolare per quanto concerne il precontenzioso nei contratti pubblici all’Anac, sono stati attribuiti amplissimi poteri che rendono farraginoso l’intero sistema, accrescendo anziché limitare la prospettiva di dispute giudiziarie Invero a mente dell’art. 211, co. 1, del D. Lgs. 50/2016, su iniziativa della stazione appaltante o di una o più delle altre parti, I’ANAC esprime parere relativamente a questioni insorte durante Io svolgimento delle procedure di gara, entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta.
Il parere può anche essere vincolante ed in tal caso “obbliga le parti che vi abbiano preventivamente acconsentito ad attenersi a quanto in esso stabilito”.
La parte che non intenda sottostare obbligatoriamente alle valutazioni che I’ANAC è stata richiesta (eventualmente dall’altra parte) di esprimere, è dunque sufficiente che non presti il suo consenso e sarà libera di disattendere il parere dell’Autorità.
Contro il parere vincolante dell’ANAC è ad ogni modo ammesso ricorso giurisdizionale amministrativo ai sensi dell’art. 120 del D.Lgs. 104/2010, ancorchè sia espressamente previsto che in caso di rigetto del ricorso il giudice valuti il comportamento della parte ricorrente “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 26 del codice del processo amministrativo”, se del caso sanzionando dunque la parte ricorrente per “lite temeraria”.
Accanto all’iniziativa di parte, l’art. 211, co. 2, del D. Lgs. 50/2016 – con una previsione soppressa ma ora in qualche misura reintrodotta – aveva originariamente attribuito all’ANAC, “nell’esercizio delle proprie funzioni’ e qualora “ritenga sussistente un vizio di legittimità in uno degli atti della procedura di gara”, il potere autonomo di invitare “mediante atto di raccomandazione la stazione appaltante ad agire ín autotutela e a rimuovere altresì gli eventuali effetti degli atti illegittimi, entro un termine non superiore a sessanta giorni’.
Se non si adeguava alla raccomandazione vincolante dell’ANAC entro il termine di 60 giorni, la stazione appaltante veniva punita con una sanzione amministrativa pecuniaria (che va da un minimo di euro 250,00 ad un massimo di euro 25.000,00) “posta a carico del dirigente responsabile”. La sanzione incideva altresì sulla “reputazione” delle stazioni appaltanti di cui all’art. 38 D. Lgs. 50/2016 ed era anch’essa impugnabile innanzi ai competenti organi della giustizia amministrativa, ai sensi dell’articolo 120 del D. Lgs. 104/2010.
Compete infine all’ANAC lo svolgimento dell’ulteriore attività consultiva prevista dall’art. 213 D. Lgs. 50/2016, così come tratteggiata nel Regolamento ANAC del 20 luglio 2016, denominato “Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 6 novembre 2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso”.
!n tale diverso contesto, la funzione consultiva attribuita all’Autorità Nazionale Anticorruzione è espressione dei compiti di vigilanza alla stessa spettanti ed è volta a fornire indicazioni ex ante all’attività delle amministrazioni, nel rispetto delle funzioni di amministrazione attiva che competono solo a queste ultime. Il tutto, prima che insorgano eventuali questioni relative allo svolgimento delle procedure di gara, per la risoluzione delle quali troverà specifica applicazione l’art. 211 e potrà essere acquisito il parere da esso previsto.

Si è scelta la strada non già di un approccio consapevole della P.A., spinta a liberarsi delle proprie lentezze elefantiache, anche concettuali, ma il binario di una rassegnata incapacità, trasferendo ad altro soggetto la funzionalità, l’operatività ed il controllo sugli atti finali della P.A.

E se a ciò si aggiunge il timore ingenerato dall’assidua ed omnicomprensiva presenza delle procure penali e contabili, che sovente configurano illeciti penali o contabili, a fronte di condotte spesso inconsapevolmente non conformi a legge, ben si comprende come si alimenti il principio del non fare, al più rimettendo ogni decisione al salvifico intervento del Giudice amministrativo.

Esempi di tale sfiducia nella P.A. sono ravvisabili nei silenzi – assensi che contornano nel campo del Commercio e dell’edilizia gli istituti della SCIA, della DIA e della Super DIA sostitutivi delle tradizionali autorizzazioni e del permesso di costruire.

Solo che tali istituti sono accompagnati da così gravi sanzioni penali, a carico dei privati che erroneamente li pongono in essere, dal dissuadere anche i più pervicaci ad utilizzarli. Sempre ammesso e non concesso che il più attento professionista sia in grado di districarsi tra l’uno e l’altro istituto. Cosicché rimangono inerti sia il privato sia la P.A., entrambi privi di fiducia nei confronti del legislatore.

E veniamo a questo ulteriore punto dolente.

Come già si è osservato siamo in presenza di un effluvio normativo. Il legislatore non si ferma in nessun settore. Affastella nuove leggi, dimentica che le stesse non solo debbono essere approfonditamente conosciute, ma anche consapevolmente fatte proprie uniformando ad esse un agire quasi consuetudinario. Il legislatore oblitera tutto ciò, preso talvolta da una frenesia innovatrice.

Inserisce le norme in contesti del tutto estranei a quelli che si intendono disciplinare, sanzionando l’inimmaginabile, omettendo il doveroso e l’essenziale.

Il tutto con una notevole approssimazione lessicale e con sovrapposizioni che rendono ben problematica la pur doverosa interpretazione e la successiva esecuzione.

Vengono, pertanto, alimentati dubbi, perplessità, incertezze.

La realizzazione delle opere e gli investimenti non possono seguire un tracciato univoco e sicuro, il che rende azzardata ogni preventiva valutazione economica.

Gli operatori stranieri si tengono lontani dal nostro mercato, vi approdano al più quando il procedimento amministrativo si è concluso ed è stato rilasciato, non più discutibile, il titolo edilizio o altra equipollente autorizzazione.

La legge spesso non appare uno strumento di regolamentazione, ma fonte di enunciazioni rivolte all’elettorato o a singoli gruppi di interesse.

Anche quando le norme sono state emesse, ci sono continui ripensamenti e cambiamenti di rotta, a volta addirittura con effetti retroattivi. Un esempio: il vecchio Codice dei contratti pubblici – ha subito 44 modifiche in 7 anni.  Il nuovo, che vive da appena un anno, è stato oggetto di correttivi, a propria volta la legge 241/90, strumento base per la disciplina del procedimento amministrativo, sconta ripetute innovazioni dettate dall’euforia del momento, piuttosto che da una visione organica.

Nei settori dell’edilizia e del commercio gli atti, per lo più sostitutivi di quelli formali, si rincorrono senza tregua, senza considerare, in questo quadro caotico la circostanza che le Regioni producono la propria normativa, ciascuna diversa, anche nei principi, dalle altre.

L’operatore si trova, quindi, ad affrontare discipline legislative e/o regolamentari le più svariate; il che implica un impegno ed uno sforzo conoscitivo costoso e sovrumano.

Le leggi vengono elaborate nel chiuso dei ministeri e dei relativi uffici legislativi, si disdegna a priori l’apporto delle associazioni professionali di categoria ben desiderose di far conoscere le proprie realtà, pronte a suggerimenti e critiche costruttive.

Tutto inutile, quasi venissero a compromettere equilibri e strategie che appaiono lontane dal soddisfacimento dell’interesse pubblico.

E veniamo, da ultimo, alla posizione del cittadino e del suo avvocato.

In questo scenario drammatico per le sue conseguenze economiche, che rendono talvolta meno dignitosa e meno autorevole la voce di ogni singolo professionista, l’avvocato amministrativista, con l’associazione di cui mi pregio essere il segretario, si è assunto l’onere di concorrere all’elaborazione del Processo Amministrativo telematico, smussando gli errori procedimentali ed interpretativi di uno strumento che si configura assai più complesso di quello applicato nel processo civile.

Ciascun professionista si è fatto carico, con il proprio apparato di adempimenti, oneri e spese spettanti alle segreterie dei TAR e del Consiglio di Stato. Il che si aggiunge al normale costo, non comprimibile, di ogni studio professionale.

Il suo status è ulteriormente aggravato oltre che dalla circostanza che i clienti privati eludono, senza alcun pudore, prendendo lo spunto dalla crisi economica, il pagamento delle parcelle professionali pur ridotte nei minimi dal fatto che le Amministrazioni, erroneamente interpretando il nuovo codice degli appalti, conferiscono gli incarichi giudiziari, mediante gara pubblica al massimo ribasso. Viene conculcato non solo il rapporto fiduciario che da sempre ha connotato le prestazioni intellettuali, ma il dettato del secondo comma dell’art. 2233 secondo cui: “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.

Va, peraltro, aggiunto che il criterio del massimo ribasso è stato stoppato dal TAR Puglia, Sez. V di Lecce n. 875/2017.

Abbandonate le lacrime su questa professione, quali rimedi nel concreto suggeriscono gli avvocati amministrativisti per rendere la macchina della giustizia amministrativa più solerte e snella?

Incominciamo dal Consiglio di Stato.

A mio modo di vedere, va abolita la nomina politica dei Consiglieri di Stato. Un quarto, invero, dell’organico dei Consiglieri di Stato è scelto dall’Esecutivo. Si tratta di alti dirigenti dei Ministeri, talvolta di generali della finanza, premiati spesso per la loro fedeltà politica che rendono meno imparziale il giudizio sugli atti delle Pubbliche Amministrazioni da cui direttamente o indirettamente provengono.

Per la stessa ragione va eliminato l’utilizzo di Consiglieri di Stato, quali capi di gabinetto legislativi dei singoli ministri. Vengono elaborate e predisposte le leggi dagli stessi soggetti o dai loro colleghi chiamati ad interpretarle e così a decidere sulla controversia.

Va ridotta la possibilità di assolvere ad incarichi esterni che distolgano il consigliere dall’impegno primario consistente nel giudicare. Va ipotizzato il trasferimento della funzione consultiva ad altra struttura, ad esempio l’Avvocatura Generale dello Stato.

Con riguardo ai TAR: va ridotta la concentrazione delle competenze in capo al TAR Lazio, ridistribuendola a favore degli altri TAR. Il TAR Lazio è soffocato da un numero eccessivo di cause che convergono da tutte le Regioni.

Va introdotto per alcune materie il giudizio monocratico e non più collegiale: ad esempio in tema di riconoscimento del permesso di soggiorno, in materia di accesso ai documenti, di ricorsi avverso il silenzio, nell’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 118 del c.p.a. In tal modo un solo Giudice, nelle materie più semplici, decide in luogo del Collegio liberandolo per gli adempimenti più gravosi.

Il rito delle sentenze abbreviate sollecitato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti, accompagnato dall’impegno (anche se non è stata condivisa la quantificazione statuita con decreto unilaterale del Presidente del Consiglio di Stato) a contenere entro limiti prefissati il numero delle pagine dei ricorsi e delle memorie, rappresentano la consapevolezza che il bene – Giustizia va approcciato con parsimonia ed equilibrio, senza appesantire al di fuori della propria capacità, l’apparato giudiziario.

Tuttavia gli atti e le sentenze non devono essere sommarie, giustificandosene la inadeguatezza con la rapidità della risposta e con il loro numero. Forse è più utile una risposta chiara e meditata ad una che, solerte, eludendo i motivi di censura costringa la parte soccombente ad appellare.

Questo nell’immediato. Nel prossimo futuro si potrà pensare, a mio modo di vedere, alla eliminazione della Corte dei Conti, per quanto concerne il giudizio sul danno erariale, attribuendone le funzioni ai TAR e per gli appelli al Consiglio di Stato.

Del pari potrà porsi mano all’eliminazione dei Tribunali Superiori delle Acque affidandone la competenza e giurisdizione al Consiglio di Stato.

Suggerimenti e rimedi che rendono maggiormente uniforme ed omogeneo l’ambito posto a tutela degli interessi legittimi frenando il tentativo di spostare l’asse di riferimento nella giustizia ordinaria.

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