Il tema delle specializzazioni sta provocando un animato confronto, specialmente interno al foro amministrativo. Si discute molto del futuro della professione e delle conseguenze prossime. Non c’è dubbio che la messa a regime delle differenziazioni specialistiche inneschi un processo a catena.

Cosa chiama cosa e – ad esempio – la nostra responsabilità civile non sarà più valutata come prima, essendo noto che la giurisprudenza gradua la diligenza del debitore -e, quindi, la sua colpa – in base alla natura qualificata della prestazione a cui è tenuto. Di conseguenza cambierà la stessa offerta del mercato assicurativo riguardo alle polizze professionali, a ben vedere come già sperimenta chi ci ha preceduto da tempo in questa evoluzione (alla luce dei dati attuariali, la polizza dell’andrologo costa meno della polizza dell’anestesista, la polizza del cardio-chirurgo non copre interventi ortopedici e così via).

Ma, venendo a questioni più interne all’avvocatura, la disciplina deontologica dovrà finalmente farsi carico dell’impossibilità di trattare in modo eguale situazioni diseguali. Se – come mi è capitato di recente in Consiglio di Stato – è possibile a fine del 2020 approdare in udienza con un ricorso in cui si difende un ente per una causa iniziata nel 1995, occorre interrogarsi sul “come” la disciplina delle incompatibilità e del conflitto di interessi meriti o meno una rivisitazione “specialistica”. Capita altrimenti che l’avvocato – complice la lentezza del sistema – rimanga ostaggio per quasi trent’anni di un (magari) unico incarico (speriamo non affidato proprio per sterilizzarne l’attività difensiva contraria), quando nel frattempo sono cambiate maggioranze politiche, segretari, dirigenti. Un profilo amaramente irrisolto e che l’Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti porta da decenni nelle sue corde, tramandando – a livello di tradizione orale – il c.d. “lodo Benvenuti”, che sdoganava l’incompatibilità per gli enti di medio-grandi dimensioni quando la vertenza riguardasse tutt’altra materia e la questione fosse riconducibile ad una struttura burocratica autonoma e distinta da quella interessata dal contenzioso pregresso. Certo è che in assenza di una regolamentazione espressa tutto si complica e si entra nelle nebbie di un orizzonte confuso.

Suscita, poi, persino ilarità scorrere le decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense (cfr., ad esempio, CNF 8/4/2016 n. 55) di sanzione dell’avvocato che, in violazione del “riserbo” professionale (artt. 17 e 28 Codice deontologico), propali alla stampa, sui social o comunque in pubblico i propri incarichi, quando per gli amministrativisti è normale (ed obbligatorio, dati i doveri di legge che gravano sulle Pubbliche Amministrazioni) trovare in rete i provvedimenti di incarico, i particolari del loro conferimento, l’entità del compenso economico correlato, ecc. Non a caso, per ritornare alla professione medica, nel relativo Codice deontologico accanto ad una normativa generale che riguarda tutti i medici convivono disposizioni specifiche (rectius, veri e propri “titoli” con varie disposizioni) per l’attività medico-legale, per la medicina dello sport, per la medicina estetica, per la medicina militare.

Proprio queste esemplificazioni ci dimostrano, tuttavia, che sarebbe un errore inquadrare il tema delle specializzazioni come un tema del presente o del futuro prossimo e non anche come un tema del passato. In assenza di decreti ministeriali, tutti noi ci siamo formati e siamo cresciuti professionalmente dentro un percorso specialistico e questo significa che una “differenza” ci era richiesta, vale a dire che c’era una domanda diffusa e radicata di preparazione distinta e qualificata. Se non siamo consapevoli di questo rischiamo di farci vincere da uno strabismo che ci distrae dalla realtà delle cose nella quale, al di là delle forme giuridiche, si è consolidata la consapevolezza che il generalismo forense ha fatto il suo tempo.

L’imprenditore che ha necessità di risolvere una questione importante per la sua azienda, l’ente che deve affrontare un contezioso decisivo per il suo territorio, il cliente avveduto che conosce e sa informarsi hanno da sempre bussato alla porta dell’avvocato specialista anche se non era in grado di spendere un titolo. Invece, il poter conoscere che quel certo difensore è esperto in quel particolare settore tutela in fondo l’utente “debole”: non penso solo all’uomo della strada che ordinariamente non si circonda di consulenti e professionisti e non è avvezzo alle cause ma anche ai cittadini comuni che nutrono l’aspettativa di vedere ben spesi i loro quattrini per gli incarichi pubblici.

Entro questo spettro possiamo cogliere – in fondo – come il tema delle specializzazioni attualizzi la finalità della speciale privativa statale che fonda la normativa ordinistica e che si è mantenuta pur in un quadro di libertà dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.). L’ingresso in talune professioni e il loro esercizio è soggetto a controllo non – come viene inteso comunemente – per una funzione corporativa, a protezione e difesa degli iscritti, ma sociale, date le gravi conseguenze che potrebbero derivare alla collettività da un loro esercizio assolutamente libero. Anche il tema delle specializzazioni va messo a fuoco puntando a questo obbiettivo: non al servizio del professionista (che può avere anche ovvie ragioni per dolersene), bensì al servizio (o, meglio, tutela) del cliente.

Allo stato, nessuno in astratto può vietarmi di rendere una consulenza sulla comparizione personale dell’imputato all’udienza di riesame o di intraprendere una causa sulla decorrenza del trattamento straordinario di integrazione salariale: se lo facessi, data la mia ignoranza in questi settori, sarei un irresponsabile e commetterei un atto “scorretto”, anche volendo coinvolgere un collega posto che l’art. 26, secondo comma, del Codice deontologico statuisce che “l’avvocato, in caso di incarichi che comportino anche competenze diverse dalle proprie, deve prospettare al cliente e alla parte assistita la necessità di integrare l’assistenza con altro collega in possesso di dette competenze”.

Ma resta il fatto che non mi sarebbe impedito a priori, perché sarei “abilitato” a farlo dall’essere iscritto all’albo. Con molta onestà dobbiamo ammettere che non possiamo più essere esperti e competenti in tutto e che – detto in modo semplicistico – ne va della nostra credibilità. Oggi sentiamo di doverci preparare a diventare avvocati del futuro. Non possiamo tirare su una grande muraglia. Dobbiamo avere il coraggio di giocarci il noto con l’ignoto, se non vogliamo essere giocati.

In verità, l’individuazione delle specialità positivizza un panorama professionale che da tanti anni ha attecchito irreversibilmente nel sentire della clientela e che è funzionale ad un servizio professionale adeguato, stante la complessità sempre più magmatica dell’ordinamento.

Non solo, però, prestare una attività professionale violando il dovere di competenza (ferma la perseguibilità della condotta ai sensi dell’art. 14 del Codice deontologico) non mi sarebbe impedito ma nemmeno mi sarà impedito de futuro. Il comma 7 dell’art. 9 della L. n. 247 del 2012 è chiarissimo nel disporre che “il conseguimento del titolo di specialista non comporta riserva di attività professionale”.

Su questo specifico aspetto, però, si coglie l’errore regolativo in cui si è incorsi sposando un approccio alle specializzazioni alla stregua di un accesso all’albo, come se fosse una sorta di iscrizione costitutiva da cui discende una privativa aggiuntiva. Da qui l’ingerenza governativa nel dettare una regolamentazione di dettaglio che disegna una procedura elefantiaca di adempimenti e di incombenti, la quale rasenta l’abnormità. Con lucidità dobbiamo essere consapevoli che questo dirigismo ministeriale che ha conculcato spazi rilevanti di autonomia, bloccando soluzioni meno formali e più adeguate dal punto di vista sostanziale (1), è il caro prezzo con cui abbiamo “pagato” a suo tempo la nuova legge professionale. Nel clima malsano di quegli anni (2011-2012), in cui si si paventava una totale eliminazione degli ordini professionali (art. 29, comma 1-bis, del D.L. n. 98 del 2011), la legge n. 247 è nata su un pregiudizio di grande sfavore per la capacità di regolazione delle professioni e la riconquista di margini effettivi di autogoverno forense può rappresentare un obbiettivo realistico da rendere oggetto di nuove iniziative.

Enrico Gaz

 

*L’articolo riprende l’intervento svolto nel seminario deontologico “L’avvocato specialista nell’amministrativo e nel tributario: come potrà funzionare (e cosa potrebbe non funzionare)” tenutosi venerdì 26 febbraio 2021.

 

1 – Cfr. S. BIGOLARO, Specializzazioni forensi: due paradossi e una via di fuga, in Lexitalia, 12 febbraio 2021

 

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