PARTE PRIMA
– ALAMO! –

Una volta le Amministrazioni pubbliche trattavano i privati con l’artiglieria pesante.

Ritenevano che tu avessi sopraelevato abusivamente? Ti arrivava secca l’ordinanza di ripristino. Non ti volevano dare il piano di lottizzazione o la licenza commerciale? Ti dicevano di no. Volevano fare una rotatoria sul tuo cortile? Ti occupavano.

Al che, tu scrivevi il tuo bravo ricorso, chiedevi la tua bella sospensiva ed era finita lì. Se ti sospendevano l’atto, bene. Altrimenti, meno bene. Ma à la guerre comme à la guerre: tu eri stato preso, appunto, a cannonate e il nemico era riuscito a sbaragliarti senza che “i Nostri” fossero arrivati in tempo a salvarti.

Oggi, queste cose sono sempre meno frequenti.

Il nuovo diritto amministrativo si è riempito di memorie procedimentali, di accordi pubblico-privato, di conferenze di servizi, di semplificazioni che invece complicano (e ti scaricano l’onere dell’autocontrollo), di aggrovigliatissimi procedimenti che vedono l’intreccio di un numero sempre più vasto di autorità (quanto crescente è il numero delle funzioni interessate), di procedimenti che avanzano a piccoli passi, di suggerimenti informali a ripresentare o a rivedere le proprie domande provvedimentali, di mezze acquiescenze (più o meno spontanee, più o meno indotte).

Ciò fa sì che l’Amministrazione non tiri più fuori la vecchia artiglieria autoritativa: gli ordini, i dinieghi, gli espropri.

Piuttosto, a te che sei lì come Davy Crockett nel fortino, l’Amministrazione si avvicina poco alla volta.

Prima manda avanti gli esploratori, poi magari getta un po’ di proiettili incendiari oltre le mura. Quindi, ti spedisce ambasciatori per trattare, ma intanto ti accerchia, restringe lo spazio nella spianata davanti al forte, ti prende per fame e, infine, quando ormai è entrata nei tuoi quartieri, ti ammazza che sei già più morto che vivo, vinto dagli stenti e dalle ferite.

L’ultimo provvedimento è solo il colpo di grazia. Volendo, si potrebbe farne anche a meno e, qualche volta, è proprio così: tu vieni lasciato lì, sulla polvere della piazza d’armi, ancora vivo, ma agonizzante. Morirai per conto tuo, senza nessun amico a confortarti. I corvi, nella veste del curatore fallimentare, dilanieranno le tue carni e si pasceranno delle tue viscere.

Paradossalmente, questo nuovo modo di condurre la guerra è più sfavorevole per il privato.

Non ne faccio una questione eroica, quasi a voler dire: “È meglio morire di un colpo solo che soffrire a lungo”.

Ne faccio una questione di tutele, perché tutto dipende da quella cosa lì: la sospensiva.

Essa è il vero perno del sistema di giustizia amministrativa, ma per ottenerla non ti basta avere ragione in punto di diritto.

Come sappiamo, la tua ragione deve essere anche immediatamente palpabile ed è sorprendente, anzi, come, nell’applicazione, il concetto di fumus boni iuris si sia trasformato. A rigore, esso dovrebbe indicare una mera apparenza della fondatezza del ricorso in diritto: dovrebbe bastarne un mero indizio. In realtà, esso viene fatto coincidere con la fondatezza evidente del ricorso: quella che può cogliere un relatore frettoloso che sfogli la memoria il giorno prima dell’udienza. Esattamente il contrario, dunque.

A ciò, devi aggiungere un danno grave e irreparabile, oltre che prossimo e immediato (periculum in mora).

In un certo senso, ottenere un provvedimento cautelare favorevole è, perciò, cosa più complicata che vincere la causa.

Ebbene, quando, una volta, ti prendevano a cannonate, tutto era più facile: la fattispecie era semplice (“mi si è presentato davanti il nemico e mi ha sparato contro”) e il periculum era lì, bello ed evidente, perché si trattava, appunto, di un colpo di cannone.

Oggi tutto è più sfumato.

Mentre, appunto, il nemico si avvicina al tuo fortino, il periculum obiettivamente c’è già, ma non è ancora così grave ed irreparabile da giustificare la misura cautelare. Dopo tutto, c’è sempre la possibilità che l’assedio non si concretizzi; che i messicani si fermino o che addirittura se ne vadano. Intanto, però, le truppe, poco alla volta, si fanno sempre più prossime e quando infine si sono fatte sotto, è diventato troppo tardi per poterle fermare.

Anche dimostrare il fumus è meno facile di un tempo. Le fattispecie, come ho detto, sono sempre più complesse, sia in fatto sia in diritto, e più complessa, perciò, è anche la loro descrizione. Quelle di oggi, spesso, sono questioni che, a raccontarle nel ricorso, ti ci vogliono almeno trenta facciate (mentre mi era stato insegnato che il ricorso non doveva superare le dodici, notifica compresa). Ma è chiaro che, se ci metti trenta facciate a spiegarti, la tua ragione in diritto, anche se ci fosse, non è lì, evidente e immediatamente percepibile.

Per questi motivi, la sospensiva viene facilmente negata.

Anzi, la sospensiva, ormai, quasi nemmeno viene chiesta e non per indolenza della parte. Quanto perché la tutela cautelare, come i vecchi fucili a polvere nera, è one shot: quando hai sprecato quell’unica cartuccia, non potrai spararne una seconda. Perciò, rifletti bene prima di sparare. Senza tenere conto, poi, del rischio che il fucile ti esploda tra le mani, sotto la forma di una sentenza semplificata di rigetto, qualche volta troppo frettolosamente pronunciata.

D’altra parte, una volta privato della domanda cautelare, il ricorso è destinato a giacere inerte per lunghi anni.

Ad un certo punto, non ti interesserà neppure più della causa e lascerai che essa perisca proprio come, nel frattempo, sei perito tu.

Questo è il progresso dell’amministrazione partecipata; del diritto amministrativo improntato su basi privatistiche; del trasferimento delle tutele dalla sede giurisdizionale a quella procedimentale.

Quanto a quest’ultimo profilo, mi si consenta di osservare che è utopistica l’idea secondo cui dovrebbe essere il procedimento a rappresentare la sede per la definizione preliminare delle controversie e secondo la quale la tutela persa nel processo verrebbe recuperata nello svolgimento della fattispecie sostanziale.

A una tale conclusione si oppone una pluralità di ragioni, che cominciano dal fatto che il procedimento è governato dall’Amministrazione, cioè da una delle parti del conflitto, la quale, dunque, non agisce come soggetto imparziale e terzo.

Tanto sarebbe sufficiente per dimostrare che la sede di elezione delle tutele non può essere il procedimento. Dopo tutto, una sorta di protezione alternativa o procedimentale è sempre esistita e consiste nei ricorsi amministrativi. Ma chi di noi seriamente avrebbe il coraggio di sostenere che un ricorso gerarchico riesce a rendere vera tutela?

Si aggiungono poi ulteriori profili, forse meno espliciti, ma altrettanto incidenti nell’escludere che la tutela delle proprie ragioni possa davvero trovare protezione nel procedimento. Tra essi, potrei ricordare il timore dei funzionari di assumersi responsabilità (la Corte dei conti è un fantasma che genera ricorrenti preoccupazioni), per proseguire con la diversa percezione del tempo (il cui “costo” può essere grave per un privato, mentre può valere ben poco per un pubblico funzionario) o con la scarsa competenza giuridica che qualche volta è riscontrabile negli apparati pubblici. Dopo tutto, non puoi pretendere che un laureato in ingegneria, in biologia o in architettura, benché formato ai corsi di aggiornamento professionale, sappia cosa sia un parere vincolante o cosa sia il vizio di eccesso di potere o che egli corra il rischio di servirsi di tali concetti, superficialmente appresi.

Quanto, poi, alla privatizzazione del diritto amministrativo, temo che essa sia, nella migliore delle ipotesi, una vacua illusione; secondo una più realistica rappresentazione, essa, invece, è una sorta di imbroglio. A parte la difficoltà di importare nel diritto amministrativo categorie (come quelle di buona fede, volontà, causa, diligenza) incompatibili con quella di funzione pubblica, resta il fatto che il diritto privato presuppone la parità delle parti. In sua virtù – normalmente – un dato soggetto non è tenuto a concedere nulla ad un altro, salvo che non lo voglia e salvo che egli esprima una libera e autonoma adesione all’accordo. Generalmente a fronte di una contropartita.

Ma quale autonomia negoziale può sussistere, quando una delle due parti può avvertire l’altra che, se non si farà come dice lei, resta pur sempre praticabile l’esercizio del potere imperativo, di cui l’Amministrazione è e rimane titolare (né potrebbe privarsene)?

In un tale quadro, l’amministrazione negoziata finisce per restituire al privato sia il peggio del sistema pubblicistico classico (il provvedimento, con la sua forza e con i suoi effetti) sia il peggio del sistema privatistico (gli obblighi di diligenza, le clausole generali, gli oneri di protezione). Spesso, dunque, l’amministrazione negoziata è utile al privato solo quando essa serve a legittimare vantaggi altrimenti indebiti, che talora si risolvono in una sostanziale commercializzazione della funzione. Sul presupposto, però, che l’Amministrazione stessa si presti ad una tale commercializzazione (e spesso sarebbe meglio che non lo facesse).

Tutto ciò mi porta a concludere in questo modo:

  • Riappropriamoci del processo. Senza la forza della sentenza giurisdizionale e senza le garanzie previste per la sua pronuncia, letteralmente non può esistere il diritto e men che meno il diritto amministrativo.
  • Riflettiamo seriamente sull’utilità delle moderne inclinazioni pattizie e di compartecipazione alla funzione amministrativa.
  • Nello stesso tempo, rivendichiamo una più nitida identità dei ruoli, in modo che non si abbiano dubbi su quale posizione assume l’amministrazione e quale, invece, sia quella del cittadino.

 

 

PARTE SECONDA
– UNA NUOVA TUTELA? –

A me pare che il sistema di tutela cautelare vigente sia poco adatto ai tempi attuali.

Esso è stato costruito sul modello della sospensiva e quest’ultima, a sua volta, sul modello del provvedimento amministrativo esecutorio.

Dai tempi dell’art. 12 della legge istitutiva della Quarta Sezione, le cose, però, sono cambiate. L’Amministrazione non si limita più a emanare ordini o provvedimenti ablativi.

All’epoca dell’espansione del c.d. Stato sociale, si sono fatti sempre più frequenti i dinieghi e i silenzi.

Poi, come abbiamo visto, è venuta l’era dell’Amministrazione partecipata e della tutela nel procedimento (a scapito della tutela nel processo).

Per quanto ho sopra esposto, di fronte a queste nuove fattispecie lo strumento della sospensiva e dei suoi presupposti (il fumus e il periculum) si adatta male.

D’altro canto, la revisione dell’istituto (operata prima con la legge processuale del 2000 e, quindi, con il Codice) altro non è se non un suo aggiustamento che non ne ha modificato sostanzialmente la natura. Detta revisione, pertanto, non ha prodotto uno strumento nuovo, mirato e costruito sul più moderno atteggiarsi dei rapporti con l’autorità amministrativa.

Se è consentita una metafora, usare la sospensiva, ai nostri tempi, è come pretendere di svitare un bullone da dodici con una chiave da quindici. Nella maggior parte dei casi, il bullone resterà avvitato. Ma non è escluso che se ne danneggi la testa.

D’altra parte, questo strumento presenta dei notevoli costi per lo stesso apparato giudiziario: i magistrati amministrativi, anziché preparare le sole udienze di merito, che richiedono un’attenzione alla causa estesa fino ai minimi dettagli, debbono attendere, contemporaneamente, anche alle istanze cautelari.

Il che spesso finisce per essere uno spreco di risorse.

Al di là delle ipotesi sempre più frequenti di istanze di rinvio o di rinunce (per le ragioni collegate all’one shot di cui ho fatto cenno) che costringono i magistrati a prendere più volte in mano lo stesso fascicolo o a prenderlo in mano inutilmente, l’esame delle cautelari talvolta riguarda un contenzioso che non giungerà mai a definizione. Perché la cautelare viene spesso usata come udienza filtro dal ricorrente, che si disinteresserà del contenzioso in caso di mal parata o di mancato rinvio al merito. O perché, nel frattempo, la parti raggiungono un accomodamento.

Intanto, però, il giudice si è dovuto studiare il fascicolo, sprecando tempo ed energie che si sarebbe potuto altrimenti indirizzare.

È dunque possibile ipotizzare un sistema di tutela cautelare diverso e più adatto alle fattispecie moderne? Un sistema che permetta, inoltre, di economizzare le risorse tempo/persona applicate?

A mio parere, forse sì. Ma, per attuarlo, occorre, a mio giudizio, rivedere interamente l’impianto del processo amministrativo, in modo del resto simile a quanto avviene in altri Stati del continente.

La proposta che formulo è la seguente.

  • L’attuale sistema di giustizia amministrativa si basa sul principio della vocatio iudicis, perché la lite si instaura con il deposito del ricorso. È però una vocatio iudicis impura, perché, diversamente da quel dovrebbe accadere se essa fosse attuata pienamente, l’instaurazione del contraddittorio è onere del ricorrente, il quale vi adempie, con la notificazione, prima del deposito. Ciò comporta che, depositato il ricorso, secondo il sistema oggi vigente il giudice, che non è tenuto a informare le altre parti dell’esistenza della lite, non fissa immediatamente neppure l’udienza di trattazione della lite nel merito. Si ipotizzi, invece, di istituire, una vocatio iudicis pura e si stabilisca che il ricorrente debba limitarsi a depositare il libello introduttivo (senza far precedere tale adempimento dalla notificazione alle altre parti), lasciando al giudice l’onere di fissare immediatamente la prima udienza e quindi di disporre, insieme, l’integrazione del contraddittorio, con la notifica dell’atto introduttivo e del decreto di fissazione dell’udienza (similmente a quanto avviene, dunque, con il processo del lavoro).
  • Con il radicamento della causa (operato in virtù del deposito), si stabilisca, altresì, che gli effetti del provvedimento impugnato siano automaticamente sospesi, salve le opportune ed eventuali eccezioni per alcune materie del contenzioso e salva la possibilità per le parti resistente e controinteressata di ottenere in via cautelare l’esecuzione interinale dell’atto impugnato. In tal modo, pertanto, la tutela cautelare verrebbe ad essere rovesciata, spettando il chiederla a chi subisce il ricorso e non a chi lo propone. Il che non avrebbe nulla di scandaloso. Sarebbe una sorta di forza contraria a quella esercitata dall’autorità amministrativa con il suo provvedimento imperativo. È, tuttavia, prevedibile che, anche a fronte della prospettiva di eventuali domande risarcitorie sui diritti consequenziali (per il caso in cui la vittoria nel merito favorisca il ricorrente), essa verrebbe chiesta solo nei casi in cui l’iniziativa effettivamente meriti.
  • La sollecitudine nella fissazione dell’udienza garantirebbe altresì un’indiretta tutela cautelare anche alle fattispecie in cui non viene impugnato un atto amministrativo estintivo di diritti: un silenzio o un atto negativo per intenderci. Niente più cautelari presentate al solo scopo, distorto, di ottenere il rinvio al merito, perciò. Semplicemente, non ve ne sarebbe la necessità.
  • All’udienza, così immediatamente fissata, verrebbe assegnato il compito di svolgere da filtro per l’impostazione della causa.
  • In quanto udienza-filtro, in occasione della sua celebrazione il giudice (che potrebbe essere, in quel momento, anche monocratico, alla stregua del vecchio giudice istruttore del processo civile) indicherebbe alle parti, senza troppe formalità, gli argomenti, di rito e di merito, che egli ritiene che debbano essere sviluppati con ulteriori memorie nonché le prove che debbano essere raccolte.
  • Contestualmente, si procederebbe quindi alla fissazione della seconda udienza, collegiale, in occasione della quale le parti sarebbero tenute ad integrare le proprie memorie e il necessario materiale istruttorio, secondo quanto indicato nell’udienza-filtro.
  • Verrebbe, infine, decisa la causa.

Ovviamente, lo schema è qui illustrato nelle sue forme più sintetiche: si dovrebbero prevedere, ad esempio, ipotesi di remissione della controversia all’udienza-filtro; si dovrebbe considerare l’opportunità di presentare eventuali riserve che le parti potrebbero allegare (anche in vista di un eventuale appello o, forse, di una revocazione) alle indicazioni argomentali e istruttorie date dal giudice istruttore. Per il momento, tuttavia, credo che basti indicare lo schema in generale.

In tal modo, a parer mio, si otterrebbero questi vantaggi:

  • Non vi sarebbe bisogno di una tutela cautelare oggi scarsamente ottenibile perché scarsamente adattabile alle nuove fattispecie e non si aggraverebbe il Collegio del compito di studiare (qualche volta, per quanto detto, inutilmente) i ricorsi chiamati in sospensiva.
  • La causa, tendenzialmente, dovrebbe marciare verso una più sollecita definizione nel merito, evitandosi fastidiose e ingiustificate perenzioni.
  • Si istituirebbe una vera udienza-filtro, sgravando da tale funzione l’attuale udienza cautelare, che la svolge di fatto, ma in modo improprio.
  • Le parti sarebbero indirizzate verso la trattazione degli argomenti rilevanti e non si dovrebbero impegnare in memorie “onnicomprensive”, difficili da scrivere e, soprattutto, lunghe e dispersive da studiare per il giudice.

Ho la presunzione di ritenere che questa soluzione possa essere quanto meno valutata, se non addirittura praticata.

Francesco Volpe

 

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