Cosa significa digitalizzare il processo?

Nel concetto possono essere ricondotte molte cose, perché digitale e tutto ciò che è fatto oggetto di calcolo.

Ai fini della digitalizzazione, perciò, la tecnologia informatica non è che un mezzo (anzi: uno solo dei mezzi) per svolgere calcoli più velocemente e in quantità più elevata. Ma digitalizzare, in sé, è tutto ciò che trasforma in cifre un valore altrimenti indeterminato e affidato a una logica intuizionistica.

Il mezzo, tuttavia, supera talvolta il concetto, cosicché, oggi, per digitalizzazione intendiamo l’affidare ad una macchina l’esecuzione automatica di compiti che prima erano propri della creazione umana.

O, quanto meno, significa assistere l’attività umana con strumentazioni automatiche che permettono di limitarne l’intervento diretto.

Da questo punto di vista, la digitalizzazione del processo è ben più antica di quanto pensiamo.

In una scena di un bel film ambientato nel primo ventennio del diciannovesimo secolo – “Il colonnello Chabert” di Y. Angelo – era rappresentato uno studio legale in cui, sotto la dettatura di un impiegato, una piccola schiera di scrivani componevano le molte copie di una memoria, quante ne erano necessarie per il deposito.

Quelli scrivani, in seguito, furono sostituiti dalla macchina da scrivere e dalla carta copiativa.

Già quella era digitalizzazione.

Vennero poi le fotocopiatrici, i word processor e le stampanti.

Sono state forme di digitalizzazione più evolute, ma concettualmente non dissimili.

Anzi: meno dissimili di quanto si pensi, dal momento che uno scanner altro non è, se non una fotocopiatrice, salvo il fatto che esso trattiene i dati raccolti e li raccoglie in un file.

La firma digitale, in un certo senso, non è diversa dall’ anello usato a mo’ di timbro sulla ceralacca, per confermare la paternità di un documento.

Tutto questo è per dire che i nostri timori verso le moderne e avanzate forme di digitalizzazione vanno contestualizzati.

In realtà, il processo digitale esiste già da molto tempo e se non vi furono problemi di sorta nel sostituire gli scrivani con un fotocopiatore, di per sé non dovremmo avere pregiudizi nell’ammettere forme più evolute di digitalizzazione.

Sociologicamente si potrebbero, forse, avanzare alcune perplessità di stampo luddistico, ma, in definitiva si potrebbe ritenere che ancora una volta si sia in presenza di una sorta di evoluzione di una realtà già esistente e che non si tratti invece di una realtà nuova.

Vero gli è, però, che le più recenti forme di sostituzione della macchina (con le sue capacità di calcolo e con le sue capacità di trasmettere a distanza le informazioni) all’attività umana sembrano estendersi anche a quella sfera che potremmo definire emotiva o più propriamente intellettuale del nostro modo di essere.

Si tratta di quelle attività che ci illudiamo – io mi voglio convincere che sia così – che non possano essere tradotte in cifre e che pensiamo siano ancora affidate all’imponderabile apprezzamento umano.

Ius est ars boni et aequi, ci ripetiamo.

Perciò, il rendere giustizia non può essere affidato a una macchina, perché il giurista, a modo suo, sarebbe un artista.

Sono quindi comprensibili le diffidenze verso un’applicazione diffusa delle udienze in forma telematica, così favorite dall’ introduzione del pat.

E neppure questa sarà l’ultima frontiera, dal momento che già si sente insistentemente parlare – in ogni settore del diritto – di giustizia predittiva.

Di casi, cioè, in cui la macchina aiuta l’interprete – o lo sostituisce – nel prevedere l’esito della lite e quindi, se del caso, nell’elaborare la stessa sentenza.

Del tema, applicato al processo amministrativo, mi sono già occupato in altra occasione, percependo quelle che mi sembrano le prime difficoltà ad esempio in merito alla predizione del giudizio ab externo sulla discrezionalità o sulla valutazione delle prove.

Qui dirò solo che siamo più avanti di quanto crediamo.

Le capacità di calcolo dei moderni elaboratori sono tali da avvicinarsi di molto alla predizione del risultato di alcune questioni giuridiche o di fatto. Quanto alla costruzione dei necessari algoritmi, gli studi condotti soprattutto in Francia e negli Stati Uniti hanno già dato alcuni risultati concreti.

Anzi, dirò di più: il nostro stesso ordinamento già conosce il caso di una pronuncia – non oso chiamarla sentenza – con cui viene definita in forma digitale e automatizzata, senza alcun intervento del giudice, una controversia amministrativa.

In effetti, che cosa altro è, a ben vedere, quella mail di “mancato deposito” del ricorso per difetto di conformità alle specifiche tecniche del pat, se non una sorta di pronuncia di rigetto in rito del ricorso stesso?

Eppure, tale pronuncia è adottata automaticamente dagli elaboratori del SIGA; sono essi che decidono se il modulo pdf sia stato adeguatamente firmato e la mail viene inviata senza il controllo di alcun operatore umano.

Se, perciò, le forme più spinte di digitalizzazione ci circondano più di quanto immaginiamo, il campo di battaglia su cui gli eserciti sono oggi disposti è proprio quello dell’udienza telematica.

Su una fronte stanno quelli che mettono in evidenza le economie che potrebbero derivare da una telematizzazione delle udienze.

Economie in senso proprio: minori spostamenti per giudici e magistrati, innanzi tutto.

Quanto, particolarmente, per gli avvocati, verrebbe meno la necessità di domiciliarsi, già indebolita dall’ affermarsi del pat e del domicilio digitale.

Da ultimo, a favorire la soluzione telematica si pone anche la sopraggiunta questione epidemica.

Sull’altro fronte si collocano invece i tradizionalisti, che contano adepti sia nella curia sia nel foro. Per costoro, l’udienza è confronto diretto; essa è il luogo in cui le parti possono fare emergere intuizioni che, nello sviluppo del processo, sono rimaste celate o latenti.

Entrambe le impostazioni non sono esenti da tratti di emotività e, forse anche per questo, la mia simpatia va istintivamente ai fautori della seconda tesi.

Ma gli è che sono avvocato d’ancien régime: per me l’udienza è il luogo dove il processo si consacra nel suo massimo grado.

Il processo a sua volta è lite e poiché l’uomo sarebbe di per sé un animale violento e polemico, se le leggi e la morale non concorressero a frenarlo, la lite è l’occasione per soddisfare in modo civile e giustificato un primordiale istinto bellico e belluino.

Ciò non ostante, volendo verificare, in modo più tecnico, se l’udienza in presenza possa davvero essere superata in favore di quella telematica, non terrò conto di elementi soggettivi capaci di influenzare la valutazione.

Anche per questo motivo, non prenderò in considerazione le attuali contingenze sanitarie: rimango dell’idea che una corretta amministrazione della giustizia sia un bene costituzionalmente di gran lunga superiore a quello della salute o, ancor più, del timore di contrarre un’infezione.

Insomma, l’udienza telematica o va bene o non va bene in sé e mi pare distorto sostenere che in certi momenti possa andare bene e in altri no.

Se fosse vero il contrario, si dovrebbe ammettere che una lite possa subire condizionamenti, nel modo in cui essa viene risolta, per il semplice fatto che sia stata chiamata in udienza in un momento-Covid o in un momento-non Covid.

E poiché la circostanza non sarebbe priva di tratti di accidentalità, il modo in cui verrebbe decisa una lite covidica sarebbe diverso da quello in cui sarebbe decisa una lite non covidica, senza una giustificata ragione.

Verrebbe in rilievo, così, un problema di disparità di trattamento tra le cause che non mi sembra facile superare.

Abbandonate le incidentalità epidemiche, da un punto di vista attento ai problemi costituzionali quali sono i problemi che una udienza telematica può sollecitare? In primo luogo, vi è un problema di sua pubblicità. Le sentenze sono pronunciate in nome del popolo italiano e per questo motivo l’art. 87 del codice del processo amministrativo vuole che esse siano pubbliche a pena di nullità della successiva sentenza.

In questi mesi sono state celebrate centinaia di udienze in camere virtuali a cui il pubblico non ha avuto accesso.

È vero che la pratica è stata facoltizzata da fonti normative di rango primario (decreti-legge, fatti poi oggetto di conversione).

Ma, forse, si dovrebbe approfondire la questione e considerare se questa disciplina di emergenza, quando ha imposto l’udienza telematica, abbia anche consentito di derogare all’art. 87 cpa per il mezzo di aule virtuali non aperte alla generalità.

Né sarebbe facile ricondurre questa esclusione ai poteri presidenziali di segregazione dell’udienza ammessi dallo stesso art. 87. Questi poteri, infatti, sono circoscritti a soli motivi di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico e di buon costume, che difficilmente potrebbero essere pertinentemente invocati.

E seppure di deroga si trattasse – cioè di parziale abrogazione implicita dell’art. 87 – ci si dovrebbe interrogare sulla sua costituzionalità a raffronto con l’art. 101 cost.

Dire che la giustizia è amministrata in nome del popolo significa ammettere anche che il popolo possa verificarne l’esercizio: uno dei modi con cui ciò avviene è dato, appunto, dalla pubblicità dell’udienza.

Se dunque dovessi indicare un primo presupposto a cui ancorare la telematizzazione delle udienze, indicherei proprio questo. Gli strumenti tecnici in uso debbono essere tali da consentire a chiunque di assistere all’udienza.

Vi è, poi, il problema della collegialità.

Nell’udienza telematica, non si pone una distanza solo tra i difensori e i giudici, ma anche tra gli stessi componenti del collegio giudicante.

Al riguardo, non sono io un sostenitore della tesi secondo la quale, pur essendo l’udienza celebrata in forma telematica, i componenti del collegio dovrebbero radunarsi in presenza, nella sede della loro magistratura. Se telematica deve essere, lo sia fino in fondo e non ha molto senso riunire in un’unica stanza tre o cinque magistrati perché questi osservino insieme un medesimo schermo.

È però vero che in linea di fatto le udienze telematiche possono appiattire il ruolo delle informali camere di preconsiglio e le più formali camere di consiglio successive alla discussione.

Vi è il rischio, peraltro già avvertito anche nelle udienze ordinarie, che la decisione si esaurisca nella relazione del magistrato a cui è stato affidato il fascicolo, senza che gli altri componenti del collegio possano essersi formati una sufficiente cognizione della controversia.

A scongiurare questi rischi non servono interventi normativi; basta l’esercizio di una prudente attività di presidenza. Ma proprio perché la soluzione è nei fatti, prima che nelle norme, è difficile verificare se essa sia sempre raggiunta.

Infine, emerge un terzo aspetto che va considerato ai fini della ammissibilità dell’udienza telematica. Come l’udienza ordinaria, essa deve garantire la contestualità delle difese.

L’udienza è il momento in cui le parti parlano insieme e si confrontano immediatamente.

Per questo motivo, personalmente non vedo con favore la previsione, più o meno formalizzata, delle cosiddette note di udienza.

Al di là dei problemi che esse pongono (qual è il loro contenuto: il più ampio possibile o deve trattarsi solo di repliche?), le note di udienza tolgono spazio alla contestualità della difesa e, infine, o rendono pressoché inutile l’udienza stessa, o alterano la successione degli interventi (se ad esempio, la resistente o la controinteressata dovessero contestare in udienza una nota del ricorrente particolarmente gravida di contenuti).

Tutte queste perplessità escludono in assoluto che si debba dare ingresso alle udienze telematiche?

A mio giudizio, no, proprio perché la digitalizzazione è un processo in atto da moltissimo tempo, sia pure con diverse forme, dimostrandosi, infine, inarrestabile, per le economie, processuali e finanziarie, che essa reca.

Ritengo tuttavia che le udienze telematiche debbano essere ammesse per quello di buono che possa derivarne; che debbano essere respinte per il resto.

Volendo, così, prospettare una mia soluzione, fermo restando che le tre perplessità di cui ho fatto cenno dovrebbero essere convenientemente affrontate, proporrei di servirsi dell’udienza telematica in cui l’udienza ordinaria non è minimamente utile ai suoi scopi.

Ad esempio, non vi è nessun motivo per cui un’udienza-stralcio o un’udienza di verifica dell’interesse debba celebrarsi in presenza.

In queste circostanze, le parti si limitano a rendere la loro dichiarazione che, se positiva, farà sì che la causa venga differita ad altra udienza.

Davvero, per questa ipotesi, non è necessaria la presenza contestuale delle parti.

Ma si potrebbe pensare a qualcosa di simile anche per le consuete udienze pubbliche.

Tutti noi ben sappiamo che, in una giornata d’udienza, vengono effettivamente discusse solo poche delle cause iscritte a ruolo.

Tutte le restanti controversie vengono discusse in occasione della cosiddetta chiamata preliminare, ove molto spesso le parti si limitano a chiedere che la causa venga trattenuta in decisione.

Perché dunque non rendere formale la prassi delle preliminari e spezzare l’udienza in due fasi?

Alla prima, con funzione di preliminare, il collegio si dovrebbe limitare a chiedere se le parti abbiano intenzione di discutere.

Essa potrebbe celebrarsi con forme telematiche perché non vi è nulla che vi osti.

Se dunque tutte le parti costituite rinunciassero alla discussione, la causa sarebbe immediatamente trattenuta in decisione.

Se, viceversa, anche una sola delle parti dichiarasse la propria intenzione di discutere, il presidente del collegio aprirebbe la seconda ed eventuale fase, riconvocando le parti ad una già predeterminata udienza ordinaria in presenza da celebrarsi a distanza di qualche giorno o di qualche settimana.

Una tale pratica complessiva sarebbe, a mio parere, di utilità per i magistrati e per gli avvocati e, in definitiva, per lo stesso processo.

Ai primi consentirebbe di programmare meglio il proprio lavoro, perché essi saprebbero preventivamente quante udienze effettivamente verrebbero discusse, senza dover aspettare la giornata di udienza per conoscerlo.

Ai secondi, eviterebbe di presenziare, magari caricandosi di pesanti trasferte, ad udienze sostanzialmente inutili.

Ma, va da sé, queste mie sono solo proposte. Lascio a chi legge valutarne la bontà.

Francesco Volpe

 

* Intervento tenutosi alla Tavola rotonda del 29 ottobre 2020 organizzato dall’Associazione degli avvocati amministrativisti del Friuli- Venezia Giulia.

image_pdfStampa in PDF