Pare un refrain ricorrente lo stillicidio di sentenze rispettose bensì ed in apparente armonia col disposto dei codici, sia civile (del 1942) che di procedura civile (del 1940), ma totalmente in contrasto con numerose innovazioni -in talune materie radicalmente rivoluzionarie del precedente assetto di sistema- introdotte dalla Costituzione del 1948.

Tre esempi paradigmatici (ahimè non gli unici):

a) In procedura civile: art 100 c.p.c. Interesse ad agire: “Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”.

Sulla natura giuridica dell’interesse legittimante all’azione fu a lungo ritenuto determinante l’art. 2059 c. c. del 1942: “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

Nell’interpretazione della norma del 1940 s’é avuta un’evoluzione solo “endo-codicistica”, sempre limitata alla tutela del singolo soggetto, pur collocato nel contesto famigliare e sociale in cui vive ed opera (famiglia o società, sia commerciale che “associazionistica”), sempre considerato solo nella sua individualità sia esistenziale che produttiva.

L’acme dell’apertura interpretativa dell’art 100 può essere individuato nelle due sentenze della Corte Suprema: la prima a Sezioni Unite n. 26972/2008: “il catalogo dei casi non costituisce numero chiuso. La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’articolo 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale, attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”, ripresa dalla successiva della stessa Corte, sez. III, n. 7844/201: “è invero compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni  negative sul valore persona si siano verificate, e provvedendo alla loro integrale riparazione (in tali termini v. Cass., Sez. Un. 11/11/2008 n. 26972) .

L’art. 2 Cost. così dispone: La R. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nella formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Pur nella sua chiarezza la disposizione restò assolutamente negletta nell’applicazione giurisprudenziale, sempre ancorata al precedente del 1940, “confortato” dall’inconsulta disposizione della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente (L. 349/1988), il cui art. 13 espressamente legittima le Associazioni Ambientalistiche -purché riconosciute come operanti a livello nazionale ai sensi della successiva L. 265/1999- a proporre azioni risarcitorie del danno ambientale. Inconsulta quella disposizione ed ancor più l’interpretazione sistematica che ne venne data applicando l’antico broccardo che, se il Legislatore ubi voluit dixit, s’ha da ritenere che ubi non dixit non voluit, per cui solo le Associazioni Ambientalistiche riconosciute sarebbero legittimate alle azioni sovra-individuali.

Eppure quell’art. 2 della Costituzione vive ed opera come norma-base dell’intero ordinamento! E al di là di ogni interpretazione variamente sistematica dovrebbe vincolare la letterale disposizione di quell’art. 2, dove pone come dovere inviolabile del cittadino -sia singolo sia nelle “formazioni sociali” in cui opera- di solidarietà nelle tre componenti indicate, che ne coprono tutta l’area di vita. In sede dogmatica tutto gioca sul valore vincolante del termine solidarietà, per la cui soluzione in questa sede non si può che rinviare alle fonti istituzionali che richiamano le teorie romanistiche fondate sul teorema dell’unum debitum con plures obligati in forza dell’unicità dell’obligatio. In questo caso imposta indistintamente a tutti dalla norma costituzionale (1).

C’è una spiegazione storicistica del tenace protrarsi dell’applicazione meccanica solo dell’art. 100, con conseguente pretermissione di adeguata collocazione sistematica dell’art. 2 Cost., ed è la mancata assimilazione culturale del contenuto assolutamente rivoluzionario del precedente generalizzato sentire portato dalla Costituzione del 1948: nel regime sabaudo, retto dal principio-base dello Statuto del 1848 posto dall’art. 5, “solo al Re appartiene il potere esecutivo”, il soggetto era solo un “suddito” (“regnicolo” veniva ufficialmente qualificato), che con grato animo doveva accettare tutto quello che la sacra Maestà del Re si fosse degnata di ottriargli.

Il passaggio dallo stato di suddito a quello di sovrano (la Sovranità appartiene al popolo, art. 1 Cost.) né è stato assimilato dagl’interessati, né conseguentemente è stato praticato dai detentori del potere, che ovviamente ed in tutta naturalezza amano comportarsi come delegati del Re, piuttosto che come servitori del popolo, come velleitariamente li qualifica l’art. 98.1 Cost..

Solo che per continuare nell’interpretazione sabauda dell’art. 100, dovrebbe essere data adeguata collocazione sistematica al dovere inviolabile della solidarietà anche politica, che istituzionalmente impone al cittadino la partecipazione alla vicissitudini “degli altri”.

Ovvio che la legittimazione all’azione solidaristica impone di declinare in limine litis e come specifica causa petendi il solidarismo dell’art. 2.

 

b) Nel civile sostanziale: La denuncia di nuova opera e/o di danno temuto (artt. 1171-1172c.) nella programmazione di opere pubbliche.

Sul piano civilistico le due azioni sono strumento di difesa avanzata di un diritto reale, insidiato da un’iniziativa del confinante, dalla cui esecuzione l’attore abbia ragione di vedere leso il suo diritto di proprietà. Dove essenziale è la nocività temuta da un’attività iniziata ed in itinere; per cui l’elemento diacronico diventa essenziale per la difesa d’un diritto effettivamente attentato con opere realizzative, non solo enunciate con programmi magari propagandati con intenso battage pubblicitario. Siano sul terreno giuridico della tutela dei diritti reali, per i quali contra factum non valet illatio: la tutela scatta a fronte di fatti di lesione, non di mera minaccia del confinante irrequieto. L’istituto civilistico può essere espresso nell’assioma: niente opere in corso, niente tutela preventiva (2).

In questo senso ovviamente massiccia la giurisprudenza, un tempo pretorile, sul piano giuridico assolutamente da condividere.

Non v’ha dubbio che la tutela preventiva d’un diritto reale “attentato” (nel senso che potrebbe risultare turbato o leso dalla realizzazione) d’un’opera pubblica, ancorché prevista solo nelle vicinanze della proprietà senza sua invasione e quindi al di fuori di procedimenti d’espropriazione, possa essere invocata anche avanti al giudice civile, date le specifiche peculiarità -sia processuali che sostanziali- in tema di appalto di oo. pp.  oggetto di un complesso procedimento amministrativo prodromico alla relativa realizzazione (3). Ed è proprio la disciplina del procedimento amministrativo che consente la tutela civilistica preventiva in difesa della proprietà, collocando l’apporto del privato nel procedimento di elaborazione/approntamento del progetto, ai sensi ed in applicazione della L. 241/1990; quest’attività di collaborazione alla progettazione dell’o. p. rientra appieno nella la giurisdizione dell’AGO.

Importante e qualificante la precisazione procedimentale, perché introduce la differenziazione essenziale delle due azioni; mentre per la denuncia civile presuppone come elemento condizionate l’effettivo inizio dei lavori di realizzazione dell’opera da cui l’attore intende difendersi, la denuncia amministrativa è condizionata dalla tecnica propria di realizzazione delle oo. pp., che passa attraverso un procedimento minuziosamente regolato dalla legge, così  solo indicativamente descritto: decisione di realizzare l’opera; bando di gara per la scelta del progettista; approvazione del progetto; bando di gara per la scelta dell’appaltatore; consegna ed avvio dei lavori di realizzazione.

A disciplinare l’atteggiamento del terzo, che abbia titolo/motivo proprio e solo per ritenere di subire un danno dall’opera in via di progettazione è l’art. 1227 cod. civ., che nega il risarcimento del danno, che il danneggiato aveva la possibilità/onere di prevenire con le opportune difese di legge, imputet sibi se non è intervenuto nella progettazione con la partecipazione regolata dagli artt.  7 e ss. della L. 241/1990.! Quel ch’è certo è che i lavori iniziati dall’appaltatore non potranno essere sospesi, né il progetto a suo tempo posto in bando essere modificato per sovvenire alle -magari pienamente fondate- preoccupazioni del confinante ansioso!

Ecco la radicale differenza diacronica delle due azioni: per la denuncia civile occorre che i lavori siano iniziati; per la denuncia amministrativa l’unico momento di possibile interlocuzione è la fase della progettazione dell’opera. Presupposto essenziale dalla prima è un facere; quello della seconda è un dicere; rectius un avviare la progettazione

 

In punto giurisdizione

Pur essendo la materia appalto di oo. pp. tipica egemonia della giurisdizione amministrativa, è da ritenere che l’azione, tipicamente civilistica, della denuncia di nuova opera ben possa essere proposta avanti al giudice civile nella forma di pretesa di partecipazione al procedimento di elaborazione del relativo progetto, senza che possa in nessun modo essere opposta l’eccezione -in sede civile paralizzante- d’inammissibilità della domanda per non essere l’opera ancora iniziata, trasferendo meccanicamente la citata giurisprudenza civile nel campo amministrativistico.

Il punto in diritto è tratto dall’ordinanza dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione 5.10.2018, n. 24411, “a mente della quale, per un verso, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo concerne la vicenda fino all’aggiudicazione, con la conseguenza della sua estensione agli atti, accordi e comportamenti intervenuti fino a quel momenti”; per modo che si configura la giurisdizione (generale di legittimità) del giudice amministrativo solo in presenza di una controversia inerente all’esercizio da parte dell’amministrazione di un potere astratto previsto dalla legge, mentre, al di fuori dì tal caso (e, dunque, in assenza di riconducibilità dell’agire dell’Amministrazione ad un potere di quel genere), la situazione è di diritto comune e, dunque, si configura la giurisdizione del giudice ordinario. Dove il riparto di giurisdizione opera sulla base del petitum sostanziale dedotto, non dell’etichettatura formale attribuita all’azione proposta. Un tanto oltretutto ai sensi (se non diretta applicazione) del principio posto dal comma 1 bis dell’art. 1 delle citata L 241/1990, secondo cui “la P.A. nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato”.

Del (nuovo) principio ha fatto puntale applicazione la sentenza del TAR Veneto, III, 497/2019 (da cui la citazione che precede è tratta) che ha declinato la giurisdizione sulla denuncia d’un’irregolarità nell’aggiudicazione d’un appalto sulla considerazione che il petitum di causa era connesso/condizionato da un intervento afferente alla volontà contrattuale della stazione appaltant

 

c) Diritto di privacy e dovere di funzione

Un terzo “caso”, a sua volta emblematico, ancora tratto dalla stampa quotidiana e significativo d’una Costituzione tradita è la sentenza del Giudice del Lavoro, resa in un episodio occorso in un Hotel di Venezia.

Una cameriera, riconosciuto un cliente che vi aveva preso alloggio in compagnia d’una signora che non ne era la moglie, essendo ambedue -cliente e cameriera- Testimoni di Geova, quest’ultima si sentì in dovere “religioso” -imposto dalle regole dell’Associazione- di segnalare il fatto ai “Superiori”, sollecitandone l’intervento per indurre la “pecorella smarrita” al pentimento e alla resipiscenza. Alla violenta lettera di protesta del cliente “smascherato” seguì, da parte dell’Albergo, il licenziamento della “zelante” cameriera per la gravissima violazione del dovere di riserbo nella funzione; ed ovviamente seguì il ricorso al Giudice del Lavoro, che annullò il licenziamento con quest’incredibile motivazione (la si riprende virgolettata dall’articolo di riferimento): ”aderendo ai Testimoni di Geova, (la cameriera) ha accettato e fatta propria la regola dell’obbligo di riferire gravi fatti altrui e dunque non vi è stata alcuna violazione della privacy, bensì corretta esecuzione di una regola vigente nell’associazione di comune appartenenza”. Affermazione che lascia semplicemente basiti: non ci siamo proprio per nulla!

Fin dalle prime lezioni di giurisprudenza un tempo c’insegnavano la gerarchia delle fonti normative: un sistema molto rigido e perentorio, fondato sulla netta distinzione tra fonti eteronome e fonti autonome, le prime imposte dal Legislatore, al cui vertice sta la Costituzione, intangibile e in assoluto vincolante; ben distinte quelle autonomamente datesi dalle Associazioni (l’articolo 2 della Costituzione le definisce “formazioni sociali”), fondate -le regole- sulla libera determinazione degli associati con disposizioni di varia portata; alcune molto severe ed a pena di espulsione (un aderente ad un’associazione “anticaccia” che sia scoperto a partecipare ad una partita di caccia); altre meno tassative. Tutte vincolanti finché resta l’adesione del soggetto all’associazione autrice della norma, libero ovviamente di uscirne, liberandosene. E’ l’abc del diritto, fuorché a Venezia! Ovvio che allo scoprire la scappatella del “confratello” ritenuto Testimone di Geova, la cameriera ci sia rimasta male, ma oltre che essere Testimone di Geova ella era in servizio lavorativo e la scappatoia del supposto “confratello” aveva rilievo solo in campo privato, attenendo tipicamente alla sua privacy. Come tale il rispetto di essa rientra indubitabilmente tra i diritti che l’articolo 2 della Costituzione dichiara inviolabili. Qui entra in campo la gerarchia delle fonti normative: la Costituzione, che impone il rispetto della privacy, e la regola degli Associati, che impone di segnalare il fatto “ai Superiori”. E qui deflagra l’enormità riferita dalla stampa: il giudice ritenne che l’adesione all’Associazione affievolisca il dovere di rispetto per la privacy, di tal che, per gli aderenti, le regole interne prevarrebbero addirittura sul dovere di rispetto del diritto altrui, dichiarato dalla Costituzione inviolabile; il tutto a prescindere dal fatto che il soggetto appartenesse o meno (ancora) all’Associazione! Altro che licenziamento in tronco si meritava! La “delazione interna” è il peggio del peggio che, sul piano dei rapporti sociali, una cameriera d’albergo può fare.

Certo che, se l’articolo 2 della Costituzione “riconosce e garantisce i diritti inviolabili” del soggetto, simili sentenze non sono della Repubblica Italiana, per cui c’è veramente da chiedersi da quale scuola giuridica i loro autori pervengano!

 

La massimite anestetizzante e il Foro

A fronte di questi fatti, che costituiscono vere aberrazioni costituzionali, torna il vecchio refrain della massimite anestetizzante: quel vezzo ormai imperante a tutti i livelli, dell’argomentare –e, quel ch’è infinitamente peggio, del decidere- per massime e non per ragionamenti. Massime talora risalenti ad epoca pre-costituzionale, senz’alcun coordinamento e/o raccordo con i pur fondamentali -ed ormai abbondantemente datati- principi costituzionali. E non se ne esce proprio, eternando così l’antico adagio che abyssus abyssum invocat!

Secondo una ben ascendente teoria, il progresso giuridico si articola nei tre passaggi essenziali: l’Avvocato, che, sotto la spinta dell’interesse del cliente, prospetta tesi nuove ed anche ardite; il Giudice, che fa “da filtro”, accettando quelle, che, pur ardite, gli sembrano accettabili; l’Accademia, che, nella sublimità della sua funzione, riduce a sistema la novità emerse dal Foro. Di questi tempi, per effetto d’una complessa serie di fattori, la funzione dell’Accademia s’è alquanto obnubilata.

Ecco il novum: vi deve sopperire il Foro! Non il difensore della singola causa -anche se arroccarsi su certe tesi non gli fa certo onore!- ma il Foro nel suo complesso, di sistema critico e propositivo. Cosa che da secoli fa attraverso la critica dei precedenti.

Cosa che, a fortiori, di questi tempi può fare solo un Foro attivo e presente!

Ivone Cacciavillani

 

 

1). Tra le fonti istituzionali si segnala A. Masi, Solidarietà, in Novissimo Digesto Italiano, Utet, 1970, Vol. XVII, pp. 830-835, nonché dalla stessa fonte, G. Nicoletti, Solidarismo e personalismo; un tanto a complemento del mio trattatello Articolo due – partecipazione e solidarismo nella Costituzione, Padova, Il Poligrafo, 2918.

2) Con lo stesso criterio di riferimento e dalla stessa fonte bibliografica si citano: A. Mazzillo, Denuncia di nuova opera e di danno temuto diritto ramano, ivi, vol. V, 1969, pp. 457-466; nonché E. Borselli, idem – diritto civile, pp. 467-480.

3) La produzione legislativa in tema di appalto pubblico, oggetto di un codice ad hoc, è semplicemente (e scandalosamente) alluvionale, ovviamente seguita da altrettanto fitta alluvione di commenti; mi limito a citarne uno solo: F.F. Ferrari & G. Morbidelli (a cura), Commentario al codice dei contratti pubblici, Milano, EGEA, 2013, 3 volumi di complessive pagine 3118 (vol. I, pp. 1453, vol. II, pp. 878; vol. III, pp. 787).

 

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