Sommario.

1. Premessa normativa: l’attività edilizia libera; la comunicazione di avvio lavori, la comunicazione di inizio lavori asseverata; la segnalazione certificata di inizio attività; § 2. Attività edilizia libera; § 3. C.I.L.A.: natura, procedimento, poteri dell’amministrazione; § 4. S.C.I.A.: natura, procedimento, poteri dell’amministrazione, nuova agibilità; § 5. Le misure di salvaguardia; § 6. Onerosità dei titoli; § 7. Profili sanzionatori e penali (cenni); § 8. S.C.I.A. e il falso; § 9. C.I.L.A., S.C.I.A. e tutela del terzo anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019.

 

1. Premessa normativa: l’attività edilizia libera; la comunicazione di avvio lavori, la comunicazione di inizio lavori asseverata; la segnalazione certificata di inizio attività.

1.1. Oggetto di trattazione saranno i titoli edilizi c.d. minori, nell’assetto normativo che deriva, da ultimo, dalla decretazione Madia, avendo il D.Lgs. n. 222/2016 inciso in modo strutturale sui titoli edilizi, che ora sono articolati in: (i) attività edilizia libera; (ii) CILA (comunicazione di inizio lavori asseverata), fattispecie residuale; (iii) SCIA; (iv) SCIA alternativa a Permesso di Costruire; (v) Permesso di Costruire.

Per ragioni riassuntive il filone di novellazione si dipana a partire dall’art. 5 della L. Madia, per giungere al D.Lgs. n. 126/2016 (in vigore dal 28 luglio 2016), sino al D.Lgs. n. 222/2016 (in vigore dall’11 dicembre 2016).

Nel mentre giova ricordare che si è inserita la sentenza della Corte Costituzionale 25 novembre 2016, n. 251, pronunciata su ricorso della Regione Veneto contro gli articoli 11, 17, 18 e 19 della L. Madia. Non contro l’art. 5 (dal quale derivano i decreti legislativi SCIA I e SCIA II).

La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso della Regione Veneto, accertando la violazione del principio di leale collaborazione Stato-Regioni, per il fatto che le norme della legge di delega censurate non prevedevano che i decreti legislativi fossero assunti tramite intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, ma previa semplice acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata. L’accoglimento, per il vero, è limitato alle citate disposizioni della legge di delega, ma non investe – travolgendoli – i decreti legislativi medio tempore adottati; ove questi ultimi dovessero essere impugnati avanti la Corte Costituzionale, il Giudice delle leggi dovrà accertare l’effettiva lesione delle prerogative regionali, anche alla luce delle disposizioni correttive che il Governo riterrà di adottare, onde assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione (punto 9 del Considerato in Diritto della sentenza n. 251/2016).

Il vizio individuato dalla Corte, invero, non sembra affliggere la norma di delega di cui all’art. 5 della L. Madia, che presuppone l’intesa e non il semplice parere. In fatto, poi, l’intesa è stata richiesta ed ottenuta sia con riguardo al D.Lgs. n. 126/2016, sia con riferimento al D.Lgs. n. 222/2016, di talché si può ragionevolmente ritenere che sotto tale profilo i decreti in tema di SCIA non siano viziati da illegittimità costituzionale. Vanno pertanto applicati.

La recente novella n. 222/2016 non ha inciso su alcuni principi, statuiti dalla previgente normativa, che è bene ricordare, premettendo però la loro importanza alla luce del fatto che il perimetro applicativo della SCIA è stato ampliato rispetto al precedente assetto.

La premessa è doverosa, perché il regime della SCIA continua ad essere disegnato, fondamentalmente, negli artt. 19 e seguenti della L. n. 241/1990 anche dopo l’innesto oramai definitivo e sostitutivo rispetto alla DIA nel Testo Unico dell’Edilizia (Cons. St., Comm. Speciale, 4 agosto 2016, n. 1784).

1.2. Il nuovo assetto dei titoli edilizi: la parziale riscrittura del Testo Unico del 2001.

1.2.1. Disposizioni generali (artt. 1 e 2).

La composita struttura del D.Lgs. n. 222/2016 appare essere la seguente: da un lato vi è una parte generale (articoli 1 e 2), dall’altro vi è la parte di novellazione vera e propria – l’art. 3, con particolare riferimento all’edilizia – dall’altro ancora, vi è una corposa tabella di oltre 130 pagine (Allegato A), che vuole individuare il regime amministrativo delle elencate attività.

Quanto alle disposizioni generali, l’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 222/2016 reca le seguenti disposizioni degne di nota:

  • la previsione dell’adozione, con decreto ministeriale, del glossario unico che contiene l’elenco delle principali opere edilizie, con l’individuazione delle categorie di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico. Non sembra un semplice glossario, ma una certosina indicazione di opere, cui corrisponde la categoria di intervento ed il titolo richiesto: glossario unico la cui redazione è cominciata con il D.M. 2 marzo 2018, pubblicato in G.U. 7 aprile 2018, n. 81, che, per il vero, rappresenta solo una parte del glossario unico (che, quindi, unico non sarà, nel senso che ve ne sarà più d’uno), ossia il glossario non esaustivo (ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.M. 2 marzo 2018) delle principali opere edilizie in regime di attività edilizia libera. Il Decreto Ministeriale citato consta di due articoli e di un allegato, contenente per l’appunto il glossario dell’attività edilizia libera. Restano ancora da emanare i decreti ministeriali in tema di CILA, SCIA e Permesso di Costruire, che completeranno il glossario.
  • i Comuni forniranno consulenza circa le attività edilizie ed i titoli ad essi riconducibili con il pagamento dei soli diritti di segreteria previsti dalla legge;
  • il Comune, d’intesa con la Regione, sentito il Soprintendente, può adottare deliberazioni volte a delimitare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione (nel rispetto dell’art. 15 del D.Lgs. n. 59/2010) l’esercizio di una o più attività di cui al presente decreto, individuate con riferimento al tipo o alla categoria merceologica, in quanto non compatibile con la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. I Comuni trasmettono tali deliberazioni alla Regione e, per il tramite di essa, alla Soprintendenza ed al Ministero dello Sviluppo Economico.

Quest’ultima disposizione, di cui all’art. 1, comma IV, del D.Lgs. n. 222/2016 ha forti assonanze con l’art. 52 del D.Lgs. n. 42/2004, ma forse non è identico. A prescindere dall’iniziativa (nel Codice Urbani del Soprintendente, d’intesa con Regione e Comuni, nel Decreto Madia il Comune, d’intesa con la Regione, solamente sentito il Soprintendente), forse è diverso anche l’oggetto del precetto.

Nel Codice Urbani il fine è quello di vietare gli usi commerciali in riferimento a determinate aree a forte valenza culturale o paesaggistica, per il decoro del patrimonio culturale.

Nel Decreto Madia, pur essendo medesima la finalità, è introdotto il possibile divieto (o la subordinazione ad autorizzazione espressa, con le garanzie di cui all’art. 15 del D.Lgs. n. 59/2010) di esercizio di una o più attività di cui al D.Lgs. n. 222/2016. Si tratta delle sole attività commerciali (in continuità con l’art. 52 del Codice Urbani, di talché il Decreto Madia sarebbe una ripetizione, salvo le diverse competenze) o anche di tutte le altre attività, ivi compresa l’attività edilizia?

Se fosse la seconda, si potrebbe dare l’eventualità di divieto, tramite deliberazione comunale, d’intesa con la Regione e solo sentita la Soprintendenza, di svolgere attività edilizia (tutta o solo gli interventi ritenuti vietati) ovvero di sottoposizione ad autorizzazione espressa degli interventi di regola liberi o soggetti a SCIA.

È preferibile forse la prima, in continuità (anche se in parziale ripetizione) dell’art. 52 del Codice Urbani, anche in ragione del fatto che il divieto di esercizio si riferisce all’attività individuata con riferimento alla categoria merceologica, il che farebbe pensare trattarsi comunque di attività commerciale.

1.2.2.

L’art. 2 del D.Lgs. n. 222/2016, rubricato “Regimi amministrativi delle attività private”, reca una serie di norme, che, nella sostanza, chiariscono alcuni dubbi emersi all’indomani dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 126/2016 sulla c.d. SCIA I.

Il comma I spiega la tabella A allegata al Decreto Madia, la quale forma parte integrante del testo normativo, essendo essa stessa norma quindi. A ciascuna delle attività ivi indicate si applica il regime giuridico indicato.

Nel caso della comunicazione, essa produce effetto dal momento della presentazione all’amministrazione competente o allo Sportello Unico (tendenzialmente coincidono, ma potrebbe darsi il caso dello Sportello Unico intercomunale, dell’unione dei comuni o della comunità montana).

Ove per l’avvio dell’attività siano richieste altre comunicazioni o attestazioni, l’interessato può presentare una comunicazione unica, rinviando l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 222/2016 all’art. 19-bis della L. n. 241/1990. In sostanza, la disposizione da ultimo citata è stata estesa anche alla comunicazione, quindi, nell’ambito dell’edilizia, alla CILA. È da intendersi, anche se la norma espressamente non lo dice, che l’art. 19-bis della L. n. 241/1990, citato tout-court, sia applicabile in toto, nelle due declinazioni sostanziali, ossia: (i) CILA unica; (ii) CILA condizionata, similmente a quanto espressamente disciplinato dalla norma sulla concentrazione dei regimi amministrativi in ragione della SCIA.

Un breve approfondimento merita al riguardo il rapporto tra CILA (o SCIA) condizionata, conferenza di servizi (artt. 14 e seguenti della L. n. 241/1990) e silenzio assenso tra amministrazioni ai sensi dell’art. 17-bis. Seppure ci sia una certa assonanza tra art. 17-bis e conferenza di servizi asincrona, ex art. 14-quinquies (salvo per quanto attiene ai superamenti dei dissensi), la prima interpretazione giurisprudenziale conclude nel senso dell’applicazione dell’art. 17-bis quando l’amministrazione procedente debba acquisire un solo parere, diversamente dell’applicazione della conferenza di servizi negli altri casi ossia nei casi di due o più pareri (Cons. St., Comm. Spec., 13 luglio 2016, n. 1640)

L’art. 2, comma IV, del D.Lgs. n. 222/2016, inoltre, chiarisce (il dubbio sollevato anche da Cons. St., Comm. Spec., 30 marzo 2016, n. 839) che il termine di diciotto mesi di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, ossia il termine massimo entro il quale la P.A. può esercitare il potere inibitorio, decorre da quando sono spirati i termini ordinari per l’esercizio del potere inibitorio, che in edilizia sono di trenta giorni. Pertanto, il dies a quo per il computo dei diciotto mesi coincide con il trentesimo giorno successivo alla presentazione della SCIA.

Il Comma V, inoltre, chiarisce che ove la tabella A rechi il termine “autorizzazione”, con esso si intende un provvedimento amministrativo espresso, salvo ricorrano ipotesi di silenzio-assenso, come, nel caso dell’edilizia, nelle ipotesi di silenzio-assenso per il rilascio del Permesso di Costruire.

Il comma VI, dipoi, prevede la facoltà in capo alle amministrazioni, in particolare ai Comuni in materia edilizia, di ricondurre le attività non espressamente catalogate nella tabella A all’interno di quelle corrispondenti, con necessaria pubblicazione sul proprio sito istituzionale. Singolare questa forma di integrazione di una norma di legge (qual è la tabella A) con atto amministrativo comunale (a forma incerta, trattasi di deliberazione di Consiglio comunale?).

Il fatto che la tabella A non sia esaustiva è confermato anche dal comma VII, che dispone la possibilità di integrazione, completamento (ed anche correzione, è da intendersi) nei termini (entro il giorno 11 novembre 2017) e con le modalità (Decreto Legislativo) stabiliti dall’art. 5, comma 3, della L. n. 124/2015. Successivamente al termine testé indicato, sarà possibile procedere comunque all’aggiornamento della tabella A, addirittura con semplice decreto ministeriale. Il timore è che tale disposizione sia affetta da eccesso di delega.

1.3. I nuovi titoli edilizi.

Prima di procedere all’esame delle singole modificazioni introdotte dal D.Lgs. n. 222/2016, merita ricordare come il riordino dei titoli edilizi abbia in concreto condotto alla seguente situazione attuale: (i) attività edilizia libera; (ii) CILA (titolo residuale); (iii) SCIA; (iv) SCIA alternativa al Permesso di Costruire; (v) Permesso di Costruire. Scompare la DIA.

Ciò ricordato in termini generali, dando atto di una tendenza alla semplificazione dei titoli (il cui catalogo scende a sette a cinque), dapprima saranno analizzate le modificazioni sostanziali introdotte con il D.Lgs. n. 222/2016, per indi affrontare alcune difficoltà interpretative che si possono porre.

La prima modifica, per il vero si tratta di un semplice adeguamento, investe l’art. 5 del TUEd, laddove la norma viene adeguata alla scomparsa del certificato di agibilità, posto che, come vedremo infra, l’agibilità non viene più attestata con provvedimento espresso, ma si è generalizzato il ricorso all’attestazione del professionista (peraltro già prevista nel previgente art. 25, comma 5-bis, del DPR n. 380/2001) e si è attratta anche l’agibilità nell’ambito di operatività della SCIA.

 

2. Attività edilizia libera (art. 6).

Novità di rilievo attengono anche all’art. 6 del DPR n. 380/2001, relativo all’attività edilizia libera, che, invero, non sempre così libera è.

In linea generale, è libera la manutenzione ordinaria, di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), del DPR n. 380/2001, per libera intendendosi che tale attività può essere svolta senza partecipare in alcun modo il Comune dell’attività edilizia.

Va da subito chiarito che attività edilizia libera non significa libertà assoluta di azione, posto che la liberalizzazione attiene al solo titolo (che non vi è) per eseguire l’intervento, fermi restando: (i) il rispetto degli strumenti urbanistici comunali (e, va aggiunto, anche di quelli sovra comunali); (ii) il rispetto delle norme di settore incidenti sull’attività edilizia (es. norme antisismiche, di sicurezza, igienico-sanitarie, di efficienza energetica, idrogeologiche, antincendio); (iii) il rispetto delle norme contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al D.Lgs. n. 42/2004.

Seppure, quindi, si tratti di un intervento edilizio libero, ciò non toglie che esso vada previamente autorizzato, ad esempio, se l’immobile è vincolato. Così come la liberalizzazione degli interventi edilizi previsti nell’art. 6 afferisce solo al dato formale (non è necessario alcun titolo), fermo però il rispetto sostanziale di tutte le altre norme incidenti sul processo edilizio e fermo il rispetto della disciplina urbanistica.

In particolare, seppure l’intervento edilizio sia astrattamente compreso nel novero di quelli di cui all’art. 6 TUEd, ciò non esclude che esso possa essere vietato dal vigente strumento urbanistico comunale. A prescindere dalla libertà dell’intervento (quanto a titolo), comunque non potrà essere realizzato.

In dettaglio, possono essere realizzati senza alcun titolo – con gli anzidetti limiti – (i) gli interventi di manutenzione ordinaria; (ii) l’installazione di pompe di calore aria-aria di potenza termica utile nominale inferiore a 12 kW; (iii) interventi di eliminazione di barriere architettoniche senza realizzazione di ascensori esterni o di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio. È consentita però la realizzazione di rampe (anche esterne, è da ritenersi), prima non ammissibile con attività edilizia libera; (iii) opere temporanee per attività di ricerca geognostica nel sottosuolo, eseguite in aree esterne al centro edificato e con esclusione della ricerca di idrocarburi; (iv) i movimenti di terra pertinenti alle attività agro-silvio-pastorali, compresi gli interventi di idraulica agraria; (v) le serre mobili stagionali senza strutture in muratura e funzionali allo svolgimento dell’attività agricola; (vi) le opere dirette al soddisfacimento di esigenze contingenti e temporanee, con obbligo di ripristino al cessare dell’esigenza entro un termine non superiore a 90 giorni. Per questo tipo di attività, per il vero, non si tratta a rigore di attività edilizia libera, propriamente intesa, visto che la norma richiede la comunicazione di avvio dei lavori al Comune, pur se senza alcuna asseverazione e senza alcuna indicazione dei contenuti che detta comunicazione deve avere. Residua, quindi, un’ipotesi di “vecchia” CIL, ora CAL (comunicazione di avvio dei lavori) giustificata forse dal fatto che il Comune deve conoscere dell’intervento edilizio in ragione della sua temporaneità e del connesso obbligo di ripristino cessate le esigenze contingenti; (vii) le opere di pavimentazione e finitura degli spazi esterni, anche per aree di sosta, sempre che rispettino l’indice di permeabilità, ove previsto dallo strumento urbanistico; le intercapedini interamente interrate, le vasche di raccolta delle acque e i locali tombati; (viii) i pannelli solari e fotovoltaici a servizio degli edifici, realizzati fuori dalla zona A di cui al DM 1444/1968; (ix) le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici.

Mentre nel sistema previgente, pur se sotto il medesimo articolo 6, convivevano attività edilizie libere propriamente intese ed attività soggette a comunicazione (talora asseverata), nell’attuale ordinamento alla voce “attività edilizia libera” sono comprese in effetti tutte attività libere (salvo, come visto, le opere dirette a soddisfare esigenze contingenti e temporanee, soggette a comunicazione di avvio dei lavori).

Ancora, per quanto attiene alle opere dirette al soddisfacimento di esigenze contingenti e temporanee, con obbligo di ripristino al cessare dell’esigenza entro un termine non superiore a 90 giorni, merita chiarire se l’indicato termine decorra a cessare dalle esigenze o sia un termine massimo di permanenza sul suolo dell’opera; di talché l’opera sia atta al soddisfacimento di esigenze contingenti e temporanee secondo la durata temporale non maggiore di 90 giorni. La giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 23 maggio 2017, n. 2438) ha scelto questa seconda linea ermeneutica.

Non è prevista alcuna misura sanzionatoria, il che è coerente con la natura dell’attività edilizia libera, meno con l’obbligo di comunicazione nell’unica fattispecie che la impone. Vero è che la permanenza dell’opera oltre il termine di 90 giorni rende la stessa abusiva, a far data dal novantunesimo giorno (Cons. St., sez. VI, n. 2438/2017, cit.), salvo nelle more sia intervenuto un idoneo titolo edilizio. Del pari, non è prevista alcuna comunicazione di fine lavori, in nessuna delle ipotesi contemplate nell’art. 6.

Merita ricordare che il difetto di previsione di un apparato sanzionatorio specifico non fa venir meno i generali poteri di polizia urbanistica, di accertamento degli abusi edilizi e di loro repressione, financo con lo strumento del rispristino, che la giurisprudenza rende implicitamente connesso ai poteri di cui agli articoli 27 e 31 TUEd. (in tal senso, pur se con riferimento alla CILA, Cons. St., Comm. Spec., 4 agosto 2016, n. 1784).

Da ultimo, va osservato il fatto che, a mente dell’art. 6, comma 6, TUEd, le Regioni a statuto ordinario possono estendere (con legge regionale) la disciplina dell’attività edilizia libera ad interventi ulteriori rispetto a quelli previsti dalla norma statale, con esclusione degli interventi di cui all’art. 10, comma 1, soggetti a permesso di costruire, nonché degli interventi soggetti a SCIA alternativa al PdC (art. 23).

 

3. CILA (art. 6-bis).

L’art. 6-bis disegna la nuova categoria della comunicazione di inizio lavori asseverata (in acronimo CILA), già nota in base al previgente ordinamento, ma che oggi assume contenuto residuale, posto che – previa CILA – vanno eseguiti tutti gli interventi edilizi non riconducibili nel novero dell’attività edilizia libera (art. 6), del permesso di costruire (art. 10) e della SCIA (art. 22) e che non interessino parti strutturali dell’immobile.

Valgono anche per la CILA i limiti sostanziali anzi visti per l’attività edilizia libera. In particolare, il necessario rispetto delle norme di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, nonché l’osservanza degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.

Sotto il profilo procedimentale, la comunicazione può essere inviata anche con modalità telematica, trasmettendo il progetto (stato di fatto e di progetto, è da intendersi) e l’asseverazione del tecnico abilitato, che attesti: (i) la conformità agli strumenti urbanistici vigenti; (ii) il rispetto della normativa antisismica e sul rendimento energetico degli edifici; (iii) il mancato interessamento delle parti strutturali dell’edificio.

L’inizio dei lavori è contestuale alla notifica della CILA.

La CILA contiene anche i dati identificativi dell’impresa affidataria dei lavori.

Dall’art. 6-bis, comma III, TUEd si desume la necessità della comunicazione di fine lavori, che, ove munita della documentazione per la variazione catastale, viene tempestivamente inoltrata all’Agenzia delle entrate direttamente dal Comune ai fini dell’introduzione delle variazioni catastali conseguenti.

La necessità della comunicazione di fine lavori è peraltro desumibile anche in ragione dell’apparato sanzionatorio apprestato dall’art. 6-bis, comma V, in particolare dalla sanzione in misura ridotta, applicabile solo nel caso di comunicazione tardiva, ma a lavori ancora in corso, tali essendo quelli non ancora chiusi con comunicazione di fine lavori.

Anche con riguardo alla CILA è facoltà delle Regioni a statuto ordinario estenderne la disciplina ad interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli residuali. Posto che si tratta di un’estensione e che essa non ha i limiti previsti nel caso dell’attività edilizia libera, e posto altresì che gli interventi edilizi sottoposti a CILA sono una categoria residuale e non chiusa, è ragionevole ritenere che il bacino di estensione sia dato dagli interventi sottoposti a SCIA ordinaria (non anche a SCIA alternativa ed a PdC): diversamente non si vedrebbe in quale direzione possa avvenire l’estensione. Il novero degli interventi edilizi soggetti a SCIA alternativa a PdC potrà essere allargato dalle regioni, mediante la riconduzione di essi a SCIA, secondo quanto disposto dall’art. 23, comma 01, ultimo capoverso.

Da ultimo, la mancata presentazione della CILA comporta l’applicazione della sanzione pecuniaria pari a 1.000 Euro, riducibile di due terzi in caso di comunicazione tardiva, quando l’intervento è in corso di esecuzione.

La sanzione si applica per il caso di CILA mancante, ma nulla è disposto nel caso di CILA incompleta o irregolare o nel caso di lavori eseguiti in difformità, ma pur sempre eseguibili con CILA. Quanto agli aspetti sanzionatori, si rinvia per maggior approfondimento al successivo § 7.

Merita osservare che la CILA costituisce una sorta di (primo, come vedremo) titolo non titolo. È oramai prevalente in giurisprudenza il condivisibile orientamento, in base al quale la CILA non costituisce alcun provvedimento, essendo al contrario mera attività del privato (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 29 novembre 2018, n. 2052; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 16 luglio 2018, n. 1497). Ciò comporta che la CILA non può essere fatta oggetto di autonoma impugnazione da parte del terzo (sui rapporti tra CILA e terzi, il rinvio vada all’approfondimento infra sub § 7).

Fermo restando il rinvio ai successivi paragrafi attinenti ai profili sanzionatori ed alla tutela del terzo, vanno ora approfonditi i seguenti aspetti legati alla CILA, ossia: (i) l’obbligo del Comune di verificare ogni CILA; (ii) i poteri comunali rispetto ad una CILA (può essa essere annullata o sospesa?); (iii) ancora, come può il Comune reagire rispetto ad una CILA? (iv) esiste la possibilità di una CILA in sanatoria?

Sono tutti interrogativi certo di natura pratica, ma che presuppongo la qualificazione esatta dalla natura della CILA, che, come visto, non può che essere un mero atto del privato.

La CILA, pertanto, non potrà essere oggetto di sospensione o di annullamento da parte del Comune (provvedimenti che postulano un atto da sospendere o annullare), al punto che taluna giurisprudenza ritiene addirittura nullo il provvedimento comunale di annullamento (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 2052/2018, cit.), ai sensi dell’art. 21-septies L. n. 241/1990.

Infatti, a leggere il parere del Consiglio di Stato (n. 1784/2016) si può intravvedere una distinzione tra CILA e SCIA, condivisibilmente sottolineata dal parere: la prima, a differenza della seconda, “non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere soltanto conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”; inoltre, la distinzione tra i due istituti si basa sul “confronto tra un potere meramente sanzionatorio (in caso di c.i.l.a.) con un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di autotutela (con la s.c.i.a.)”, pur se, come si vedrà (§ 4.2), si tratti di autotutela sui generis.

Secondo il Consiglio di Stato, quindi, vi è una differenza tra CILA e SCIA, posto che solo con riferimento alla seconda la norma contempla un complesso apparato procedimentale, non con riferimento al potere amministrativo di riscontrare la SCIA (ché essa non ha alcun approdo provvedimentale), ma con riguardo al potere comunale repressivo, inibitorio o conformativo. Si tratta, all’evidenza di un potere comunale di intervento, esercitabile quando gli effetti generati dalla SCIA si sono in sostanza prodotti, quindi l’amministrazione può solo sospenderli, inibirli o invitare alla conformazione.

Vero è però, che, mentre tali poteri comunali di intervento sussistono in ipotesi di SCIA, nulla di ciò è previsto per la CILA, di talché può essere ragionevolmente sostenuto che rispetto alla CILA (cui sono sottoposti senz’altro gli interventi minori “innominati”, quindi residuali) sussista il solo potere comunale sanzionatorio.

Ciò non significa che qualsivoglia attività edilizia oggetto di comunicazione possa essere solo sanzionata pecuniariamente nelle (peraltro ridotte) misure previste dalla legge.

Possono darsi, infatti, casi in cui la comunicazione predichi la realizzazione di interventi non consentiti dallo strumento urbanistico, di talché non può essere esclusa l’adozione fianco dell’ordine di ripristino da parte dell’amministrazione comunale, nell’esercizio dei propri poteri di cui agli articoli 27 e 31 del D.P.R. n. 380/2001 (Cons. St., parere n. 1784/2016, cit.). Potere che prescinde dal titolo.

Ma anche se il potere comunale rispetto alla CILA è solo sanzionatorio, ciò non toglie che l’Ufficio possa (pur non avendo forse un obbligo giuridicamente inteso) sempre verificare il contenuto della CILA, ad esempio per comprendere se essa possa legittimamente accompagnare l’intervento edilizio comunicato o se esso debba essere assoggettato ad un titolo “maggiore” (SCIA o Permesso). Nel caso in cui, invece, l’intervento possa essere realizzato anche senza CILA (ad esempio CAL o attività edilizia libera), si tratterebbe di un titolo ridondante, ma che ben può essere presentato dal privato, così come il Permesso di Costruire può essere presentato qualora l’intervento necessiti, in realtà, di SCIA.

Se, quindi, la CILA presentata non sia legittima o perché non è il titolo previsto (dovendosi procedere, ad esempio, con Permesso di Costruire) o perché l’intervento non è realizzabile a prescindere dal titolo, siccome non consentito dallo strumento urbanistico, essa non potrà essere annullata o inibita.

Ciò non toglie, però, che l’intervento comunicato sia abusivo, o perché in assenza di titolo (ancorché nella sostanza assentibile con il titolo idoneo) o perché in difformità al Piano. Nel primo caso, il Comune avvierà il procedimento di abuso edilizio, che potrà essere archiviato a seguito del rilascio (ad esempio) di Permesso di Costruire in sanatoria. Nel secondo caso potrà assumere l’ordinanza di ripristino, eventualmente preceduta anche dall’ordine di sospensione dei lavori ex art. 27, comma 3, DPR n. 380/2001, fattispecie di carattere generale che si applica in ipotesi di abuso, comunque ed a prescindere dal titolo. Non potrà, però, il Comune agire in annullamento della CILA, sprovvista di natura provvedimentale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 2052/2018, cit.; TAR Sicilia, Catania, n. 1497/2018, cit.).

Quanto alla possibilità di CILA in sanatoria, l’ordinamento non la prevede. E, probabilmente, non ve ne è neppure necessità. Infatti, se la CILA dovesse essere il titolo corretto, la mancata o tardiva presentazione di essa comporterebbe la sola sanzione pecuniaria, quindi, pagando la sanzione pecuniaria (eventualmente in misura ridotta per il caso di tardiva presentazione) si legittima l’intervento. Se la CILA non dovesse essere il titolo corretto (ferma la realizzabilità dell’intervento a livello panificatorio, ma con titolo diverso), ben potrebbe il privato – nell’ipotesi in cui avesse già iniziato i lavori – richiedere, ad esempio, il Permesso di Costruire in sanatoria. Lo stesso dicasi a lavori realizzati, sempre che sussistano i presupposti per la sanatoria. Se, invece, l’intervento non potesse essere realizzato né con CILA, né con qualsiasi altro titolo (poiché contrario allo strumento urbanistico), non vi sarebbe possibilità di sanatoria alcuna.

Va dato atto, però, che la giurisprudenza (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 18 giugno 2018, n. 1380) ammette la CILA in sanatoria, che si ha presentando la comunicazione unitamente alla ricevuta del pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria.

4. SCIA.

4.1. SCIA ordinaria. Prima di analizzare gli articoli 22 e 23 del nuovo TUEd, dopo le modificazioni introdotte con il D.Lgs. n. 222/2016, meritano un cenno la novellazione dell’art. 20, comma 1 e l’introduzione del comma 1-bis.

Nel primo caso è stato espunto il riferimento alla valutazione tecnico-discrezionale dell’amministrazione in tema igienico-sanitario; l’abrogazione è stata necessitata dalla trasformazione del certificato di agibilità in SCIA.

L’art. 20, comma 1-bis, invece prevede che i requisiti igienico-sanitari degli edifici saranno oggetto di compiuta definizione tramite decreto del Ministero della Salute da adottare – previa intesa in Conferenza unificata – entro 90 giorni dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 222/2016. Si tratta di un’opportuna riscrittura delle regole tecniche, risalenti ancora al DM 5 luglio 1975, in tema di requisiti igienico-sanitari degli edifici.

L’art. 3 del D.Lgs. n. 222/2016 ha completamente abrogato la DIA, sostituendola in toto con la SCIA, anche nell’ipotesi della SCIA alternativa al PdC, adeguando anche Capi e rubriche.

L’art. 22 – nuovo testo – del DPR n. 380/2001 contiene, da un lato, il rinvio all’art. 19 della L. n. 241/1990 (non scontato, per tutto quello che si dirà in seguito), dall’altro, il catalogo delle fattispecie soggette a SCIA, catalogo che non era presente nel previgente art. 22, in ragione della natura residuale della DIA/SCIA.

Nel rispetto della normativa urbanistico-edilizia vigente, sono realizzabili con SCIA:

  • gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), DPR 380/2001, qualora riguardino parti strutturali dell’edificio (diversamente, CILA);
  • gli interventi di restauro e risanamento conservativo di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), qualora riguardino le parti strutturali dell’edificio (diversamente, CILA);
  • gli interventi di ristrutturazione edilizia, di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), diversi da quelli indicati nell’art. 10, comma 1, lett. c);
  • varianti a PdC, che non incidano sui parametri edilizi e sulle volumetrie, che non modifichino le destinazioni d’uso, che non alterino la sagoma degli edifici vincolati exLgs. n. 42/2004 e che non violino le eventuali prescrizioni contenute nel PdC. Tali varianti possono essere presentate fino alla dichiarazione di ultimazione dei lavori;
  • varianti al PdC, che non configurino una variazione essenziale, a condizione che siano conformi agli strumenti urbanistici e che siano attuate solo dopo l’ottenimento degli eventuali atti di assenso (paesaggistico, culturale, idrogeologico, ambientale). Merita osservare che con tale variante (comunicata anche a fine lavori) è possibile incrementare fino al 20% la volumetria, ai sensi dell’art. 92, comma III, lett. b), della L.R. n. 61/1985.

Le Regioni a statuto ordinario possono ampliare o ridurre l’ambito applicativo della SCIA, ferme restando le sanzioni penali di cui all’art. 44 TUEd.

È facoltà dell’interessato richiedere il PdC in luogo della SCIA, senza obbligo di pagamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16 (salvo si verta in ipotesi di art. 23, comma 1 – rectius, comma 01 – ossia laddove la SCIA sia alternativa al PdC ed onerosa) e senza soggiacere alle sanzioni penali di cui all’art. 44, ma con l’applicazione dell’art. 37.

Ultima annotazione. In coerenza con quanto stabilito dall’art. 19-bis della L. n. 241/1990 e dall’art. 23-bis del DPR n. 380/2001, ove la SCIA presupponga il rilascio di pareri o autorizzazioni, l’efficacia della SCIA (quindi la possibilità di iniziare i lavori) decorre dal rilascio di detti pareri o di dette autorizzazioni (es. autorizzazione paesaggistica; es. autorizzazione proprietario della strada; es. autorizzazione del gestore del servizio idrico integrato).

Nonostante la SCIA sia stata oramai definitivamente “trapiantata” nel TUEd, la sua disciplina rimane pur sempre a cavallo con la L. n. 241/1990. Infatti, i controlli sulla SCIA, la parentesi procedimentale che può scaturire dalla presentazione della SCIA (inibizione, conformazione, esercizio dei poteri inibitori ricorrendo i presupposti di cui all’art. 21-nonies), continuano ad essere regolati dall’art. 19 e seguenti della L. n. 241/1990.

All’un tempo, vigono le regole dell’edilizia in termini di sanzioni amministrative (art. 37) e penali (nel caso di SCIA alternativa a PdC).

4.2. Natura della SCIA. Non v’è dubbio, ormai, circa il fatto che la SCIA non costituisca un provvedimento amministrativo tacito direttamente impugnabile, ma una mera attività del privato interessato. In tal senso, del resto, è il dettato letterale dell’art. 19, comma 6-ter, della L. n. 241/1990.

Una volta ricevuta la segnalazione, l’Ente può, nel termine di sessanta giorni dalla presentazione (trenta in materia edilizia, di cui qui si tratta), vietare la prosecuzione dell’attività e rimuovere gli effetti medio tempore prodotti o invitare il privato a conformare l’attività – ove possibile – o lasciar decorrere il termine, sì che l’attività possa continuare. Termini non dilatabili dalla legislazione regionale (Corte Costituzionale, 9.3.2016, n. 49, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 84-bis, comma 2, della L.R Toscana 3 gennaio 2005, n. 1).

Il potere inibitorio è pieno, se esercitato entro i termini testé citati, ma patisce un affievolimento, ove esercitato una volta che gli stessi siano decorsi.

L’art. 19, comma 4, della L. n. 241/1990 dispone, infatti, che – spirati gli anzidetti termini – l’amministrazione possa assumere i provvedimenti inibitori solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 21-nonies della Legge sul procedimento amministrativo.

Il rinvio è ai presupposti dell’autoannullamento. È vero che l’annullamento non può avere cittadinanza in un sistema di SCIA quale non-provvedimento: rispetto alla segnalazione non vi è margine per alcun autoannullamento, difettando in radice il provvedimento, rispetto al quale assumere il contrarius actus. È anche vero, però, che il rinvio non è fatto all’annullamento in sé, ma ai suoi presupposti, che vengono mutuati quali condizioni necessarie, affinché il Comune possa inibire l’attività una volta spirati i termini (di trenta giorni), entro cui poter esercitare appieno i propri poteri.

Si tratta, però, di un potere inibitorio depotenziato; può essere esercitato solo al ricorrere di tutte le seguenti condizioni, ossia se: (i) non siano ancora decorsi diciotto mesi, da computare a far data dallo spirare del termine (di trenta giorni) dalla presentazione della segnalazione al protocollo comunale; (ii) sussista l’interesse pubblico all’esercizio dei poteri inibitori; (iii) siano stati bilanciati gli interessi del segnalante, dei controinteressati e della pubblica amministrazione.

La SCIA non è, quindi, ontologicamente qualificabile come un provvedimento amministrativo; tuttavia, sulla segnalazione il Comune può intervenire oltre i termini ordinari, esercitando i poteri inibitori al ricorrere dei medesimi presupposti, coincidenti con i presupposti per l’esercizio dell’autotutela. Si è detto in giurisprudenza che il potere di inibizione tardiva rappresenta un potere residuale di autotutela sui generis, atipica, che non implica un’attività di secondo grado rispetto ad un (inesistente) provvedimento, ma che condivide i medesimi presupposti e lo stesso procedimento dell’annullamento (T.A.R. Marche, 7 ottobre 2016, n. 546; T.R.G.A., Bolzano, 18 luglio 2016, n. 233; Cons. St., sez. V, 11 dicembre 2015, n. 5646). Si tratta, in altri, termini, di un annullamento, per così dire, “travestito” (così, Cons. St., Commissione Speciale, 30 ottobre 2016, n. 839), per poter incidere su un non-provvedimento, qual è la segnalazione.

4.3. SCIA alternativa. La SCIA viene estesa anche agli interventi sostitutivi del PdC, con disciplina che non si rinviene più nell’art. 22, ma nell’art. 23 TUEd (comma 01), non perfettamente aggiornato, posto che parla ancora di DIA in alcuni passaggi. Si tratta di una SCIA ad effetto differito, posto che l’inizio dell’attività edilizia può aversi solo 30 giorni dopo la presentazione della SCIA.

4.4. SCIA di agibilità. Altra novità del D.Lgs. n. 222/2016 consiste nell’abrogazione del certificato di agibilità (anche se rimane in rubrica al Capo I per evidente omissione), che ora non presuppone il provvedimento di agibilità (rilasciato con atto espresso o con silenzio-assenso), ma la segnalazione certificata del professionista circa la sussistenza dei requisiti igienico-sanitari. Qualcosa di simile vi era anche nel previgente art. 25, comma 5-bis, che consentiva di attestare l’agibilità mediante dichiarazione del professionista.

Comunque sia, sparisce ogni procedimento amministrativo volto al rilascio del certificato di agibilità (eventualmente potendosi aprire procedimenti di conformazione o inibizione ex art. 19 L. n. 241/1990), come sparisce ogni valutazione amministrativa di natura tecnico-discrezionale in merito, sostituita dalla SCIA.

Anche l’agibilità diviene mero atto del privato.

È stato abrogato l’art. 25 TUEd, che disciplinava il procedimento di rilascio del certificato di agibilità (nessun procedimento residua), in parte trasfuso, con qualche modificazione, nell’art. 24.

Rimane quindi l’art. 24, integralmente riscritto, che però non si discosta dalla disciplina previgente se non per il ricorso all’istituto della SCIA e per la definitiva consacrazione del fatto che in sede di agibilità dev’essere attestata anche la conformità di quanto realizzato al progetto autorizzato.

Qualche perplessità può destare l’art. 24, comma 6, ed il rinvio ivi contenuto ai soli commi 3 e 6-bis dell’art. 19 della L. n. 241/1990. Invero, il riferimento deve leggersi in stretta connessione con l’utilizzabilità immediata dell’edificio alla presentazione della SCIA di agibilità, salvo l’esercizio da parte del Comune dei poteri inibitori, entro i termini previsti in materia edilizia (30 giorni), non già che alla SCIA di agibilità si applichino solo i citati commi dell’art. 19. Al contrario, di applica l’intera disciplina delle SCIA rinvenibile nella L. n. 241/1990.

Pertanto, la SCIA di agibilità risponde alla medesima logica di ogni SCIA, imponendo al Comune di esercitare i poteri conformativi o inibitori pieni entro il ristretto termine di 30 giorni dalla presentazione della SCIA di agibilità, oltre tale termine essendo aperto lo spazio solo per l’esercizio dei poteri affievoliti, stante la necessaria sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990.

Le nuove modalità di attestazione dell’agibilità possono dar luogo ad alcune perplessità interpretative nel caso (sovente ancora aperto) del condono edilizio, in particolare con riferimento all’art. 35, comma 20, della L. n. 47/1985. La norma consente il rilascio del certificato di agibilità anche in deroga ai requisiti fissati dalle norme regolamentari, sempre che le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica (attestata con apposito certificato di idoneità statica) e di prevenzione degli incendi e degli infortuni.

Al riguardo i profili sono duplici: quello sostanziale, ossia cosa si possa derogare e quello formale o procedimentale, ossia se la deroga debba essere attestata espressamente dall’amministrazione.

Sotto il primo profilo, la giurisprudenza (Corte Cost., n. 256/1996; Cons. St., sez. V, n. 3034/2013, TAR Lazio, Roma, sez. 2-quater, n. 10437/2015) ha ritenuto derogabili le disposizioni regolamentari, ma non quelle normative. Va osservato, peraltro, che la distinzione tra esse non sempre è agevole, posto che talora le disposizioni, pur se aventi natura formalmente regolamentare (es. DM 5 luglio 1975), sono state ritenute di rango normativo, in forza del rinvio espresso dall’art. 218 TULLSS, R.D. 1265/1934 (TAR Veneto, sez. II, n. 284/2014). Ciò che è – in linea generale – derogabile (salvo i contenuti derivino direttamente dalla legge) sono i regolamenti comunali. Il tema meriterebbe ampio approfondimento, ma non è questa la sede per ciò fare.

Passando invece al secondo profilo, che ci occupa nella specie, esso attiene alle modalità di attestazione della deroga, ossia se essa vada formalmente ed espressamente assentita dall’amministrazione o possa essere attestata anche dallo stesso professionista in sede di SCIA di agibilità.

Ritengo preferibile la seconda delle opzioni ermeneutiche, sulla base delle seguenti considerazioni. (i) Il nuovo testo dell’art. 24 TUEd non prevede altre forme di attestazione, se non la SCIA di agibilità; (ii) al di là del dato normativo formale, lo spirito della complessiva riforma Madia, che riflette “un nuovo paradigma nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione” (Cons. St., Comm. Spec., n. 839/2016), postula la “generalizzazione del meccanismo della segnalazione a immediata efficacia legittimante” (Cons. St., id.); (iii) in questo assetto normativo, che è anche il portato della normativa comunitaria (Direttiva Bolkestein n. 123/2006) “non c’è spazio, sul piano concettuale e strutturale, per alcun potere preventivo di tipo ampliativo (autorizzatorio, concessorio ed, in seno lato, di assenso), che sarebbe stato comunque un potere non discrezionale, ma vincolato all’accertamento dei requisiti di legge” (Cons. St., id.); (iv) l’attestazione dell’agibilità, anche quando era espressione di attività amministrativa attraverso l’adozione di un provvedimento espresso (certificato di agibilità), rifletteva purtuttavia l’esercizio di un potere non già discrezionale, ma vincolato (TAR Lazio, Roma, sez. 2-quater, n. 10437/2015), posto che l’amministrazione si limitava a verificare la sussistenza dei presupposti normativi per il rilascio dell’agibilità, ma non esercitava alcuna potere di natura discrezionale; (v) se l’attività amministrativa è di tipo vincolato, allora anche il privato ben può, con l’ausilio del proprio professionista, attestare la sussistenza dei medesimi presupposti normativi, agendo quindi all’interno del perimetro applicativo della SCIA; (vi) con la segnalazione, peraltro, l’amministrazione non abdica affatto all’esercizio del proprio potere, pur se vincolato, mantenendo il potere inibitorio (pieno o affievolito, in ragione del tempo trascorso); (vii) appare coerente con il trend normativo l’estensione anche all’agibilità dello schema segnalazione-inizio attività-eventuale esercizio dei poteri inibitori.

In sintesi, ritengo che la volontà del legislatore sia proprio nel senso di liberalizzare – pur se sotto il controllo dell’amministrazione – l’agibilità, prevedendo che la stessa venga attestata con SCIA. Ciò vale sia in termini generali, sia con riferimento all’agibilità a seguito di condono edilizio.

Ove si volesse diversamente opinare, ossia si ritenesse che residui in capo all’amministrazione il potere di autorizzazione espressa della deroga di cui all’art. 35, comma 20, L. n. 47/1985, neppure ciò sarebbe incompatibile con l’istituto della SCIA, la quale, in tal caso, ai sensi dell’art. 19-bis, comma 3, della L. n. 241/1990 e dell’art. 23-bis, commi 1 e 2 del DPR n. 380/2001, sarebbe condizionata all’acquisizione dell’autorizzazione comunale.

 

5. Le misure di salvaguardia.

5.1. La legislazione, tanto nazionale (art. 12 DPR 380/2001), quanto regionale (in Veneto, art. 29 L.R. n. 11/2004), disciplina l’istituto delle misure di salvaguardia, generalmente noto. Si tratta di misure interinali, volte a salvaguardare il Piano in itinere, sì che quanto adottato non venga vanificato nelle more dell’approvazione in forza di autorizzazioni in tale intertempo eventualmente rilasciate. Nel caso in cui, quindi, l’intervento sia assentibile in base allo strumento urbanistico vigente, ma non in base all’adottato, il Comune non potrà riscontrare l’istanza né in senso favorevole, né in senso sfavorevole, ma dovrà assumere un provvedimento soprassessorio e rinviare la decisione finale ad un momento successivo all’approvazione del Piano. Sono previsti termini massimi per il periodo di salvaguardia di cinque anni, ove lo strumento urbanistico sia stato trasmesso per l’approvazione entro un anno dall’adozione e, diversamente, di tre anni.

Sia la disciplina nazionale, sia quella regionale, invero, si riferiscono, rispettivamente, al permesso di costruire ed alle domande relative ad interventi edilizi, postulando in entrambi i casi un’istanza ed un esito provvedimentale (espresso o tacito che sia in termini di silenzio-assenso).

Il TUEd pone al riguardo alcuni profili problematici, posto che, da un lato, l’anzidetta disciplina generale sulle misure di salvaguardia si riferisce alle domande ed ai titoli espressi aventi natura senz’altro provvedimentale, dall’altro, la disciplina strettamente edilizia ha sovente perso i riferimenti al rispetto degli strumenti urbanistici adottati, quando non ha espressamente citato i soli Piani vigenti.

I casi sono ricorrenti. Ad esempio, in tema di CILA, l’art. 6-bis, comma 1, TUEd, fa salve le prescrizioni della pianificazione vigente (ma non di quella adottata), potendo al riguardo intendersi tanto approvati, quanto adottati, in difetto di qualsivoglia specificazione. Il comma 2, dell’art. 6-bis, però, richiede che l’asseverazione attesti la conformità dei lavori ai soli strumenti urbanistici approvati, ma non la conformità agli strumenti urbanistici adottati.

Per la SCIA l’art. 22, comma 1, richiede la conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. D’altro lato, l’art. 19, comma 1, della L. n. 241/1990 obbliga a corredare la SCIA con le dichiarazioni sostitutive attestanti la sussistenza dei presupposti richiesti da atti amministrativi a contenuto generale, quali sono gli strumenti urbanistici, sia adottati, sia approvati.

Diverso ancora è il caso del Permesso di Costruire e della SCIA alternativa, posto che l’art. 23, comma 1, riprende la formulazione dell’art. 12 del DPR n. 380/2001 e richiede l’asseverazione della conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati ed a quelli adottati.

Con riferimento, infine, all’attività edilizia libera, l’art. 6, comma 1, TUEd fa salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, senz’altro aggiungere.

Il dubbio sorge, quindi, in relazione all’applicabilità delle misure di salvaguardia nei casi in cui esse non siano espressamente previste, ovvero ove sia richiesta la sola conformità rispetto al Piano approvato.

Il problema, come si è visto, non si pone né per il permesso di costruire, né per la SCIA alternativa; si pone, invece, per la SCIA ordinaria, per la CILA e per l’attività edilizia libera, con profili però in parte diversi.

5.2. Con riferimento alla SCIA ritengo che, seppure prima facie le locuzioni utilizzate non appaiano felici, esse in realtà non siano antitetiche, ma complementari.

Il riferimento agli strumenti urbanistici attiene ai Piani (ossia ad atti amministrativi a valenza generale), mentre il riferimento alla disciplina urbanistico-edilizia vigente si riferisce alle disposizioni normative e regolamentari. Ciò spiega perché il rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia sia riferito solo alla normativa (in senso proprio) vigente.

Sia l’art. 22 del DPR n. 380/2001, sia l’art. 19, comma 1, della L. n. 241/1990 richiedono il generale rispetto degli strumenti urbanistici, senza approfondire se essi siano solo quelli approvati od anche quelli adottati, ma proprio la formula generale utilizzata non può che comprendere gli uni e gli altri, posto che strumenti urbanistici sono tanto quelli approvati quanto quelli adottati. Ed anche questi ultimi esplicano la loro efficacia seppur limitata, in attesa di approvazione, stante la previsione generale della salvaguardia.

È preferibile, quindi, applicare il regime di salvaguardia anche alla SCIA.

Le difficoltà, però, si pongono sul piano operativo. Infatti, la misura di salvaguardia viene applicata di regola sul titolo edilizio espresso (Permesso di Costruire) ed è di tipo soprassessorio: il Comune non rilascia, né nega il titolo, semplicemente sospende ogni pronuncia in attesa di comprendere se e come il Piano adottato venga infine approvato.

La fattispecie della SCIA è – in linea generale – a formazione istantanea, posto che l’attività edilizia può principiare già con la presentazione della segnalazione, senza spazio per la previsione di alcuna misura soprassessoria. Ma proprio perché l’inizio dell’attività è un effetto di regola automatico, l’unico rimedio esperibile, per garantire che non vengano vanificate le disposizioni del Piano adottato, è quello di vietare la prosecuzione dell’attività entro 30 giorni, chiarendo che l’inibizione è dovuta all’applicazione della salvaguardia. Se si supera il termine dei 30 giorni, diviene più difficile argomentare l’inibizione, dovendo ricorrere i presupposti di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990.

Rimane il problema della natura di questa inibizione, che dovrebbe essere temporanea (in linea con la natura interinale delle misure di salvaguardia), ma che come tale male si attaglia al cliché procedimentale della SCIA. Si possono, pertanto, ipotizzare due soluzioni: (i) l’inibizione ha natura temporanea e la SCIA acquista (o ri-acquista) efficacia nel momento in cui cade la salvaguardia, senza che il privato debba riproporre la SCIA; (ii) l’inibizione ha efficacia definitiva ed allo scadere della salvaguardia il privato deve ripresentare la SCIA.

Qualunque soluzione si voglia adottare (mai ottimale, in ragione del fatto che la salvaguardia, per come concepita, male si adatta alle ipotesi di liberalizzazione, essendo nata come mezzo soprassessorio rispetto all’adozione di un provvedimento), ritengo che comunque il Comune non possa consentire, entro il termine di efficacia delle misure di salvaguardia, l’attività edilizia in violazione del Piano adottato.

Dal punto di vista pratico, poi, le fattispecie ora attratte alla disciplina della SCIA non sfuggono alla salvaguardia. Ad esempio, sovente accade che l’area industriale venga sclassificata come tale e che il Piano adottato ivi vieti ogni intervento salvo la manutenzione ordinaria e straordinaria. Il tema delle misure di salvaguardia rispetto alla SCIA è quindi tutt’altro che teorico.

Il problema interpretativo della salvaguardia rispetto alla SCIA è di rilievo anche con riferimento alle dichiarazioni rese a corredo, sulle quali i professionisti debbono prestare massima attenzione nel momento in cui certificano la conformità agli strumenti urbanistici (in tesi sia approvati, sia adottati) in rapporto al tema del falso.

5.3. Con riguardo alla CILA la difficoltà interpretativa è, se possibile, ancor maggiore.

L’art. 6-bis, comma 1, stabilisce che gli interventi realizzabili con CILA devono essere conformi agli strumenti urbanistici (tanto approvati, quanto adottati, secondo l’opzione ermeneutica preferibile), anche se il comma 2 del medesimo articolo richiede che l’asseverazione del tecnico a corredo della comunicazione venga resa solo in riferimento alla conformità rispetto al Piano approvato.

La natura residuale delle fattispecie soggette a CILA rende difficile ipotizzare casi concreti e comprendere se gli interventi edilizi sottoposti a comunicazione asseverata possano essere interessati dalla salvaguardia. Qualche caso potrà senz’altro porsi (magari in qualche ipotesi limite) e merita quindi valutare come il Comune di debba comportare al riguardo. L’esempio può andare ai frazionamenti dell’unità immobiliare, senza interventi riguardanti le parti strutturali degli edifici.

Il professionista, come visto, ha l’obbligo di asseverare la conformità dell’intervento edilizio rispetto allo strumento urbanistico approvato, ma non è così sicuro che ciò sia sufficiente ad escludere l’intervento del Comune, ove accerti che – in realtà – l’attività edilizia sia preclusa del Piano adottato.

È da ritenersi, al contrario, che l’attività edilizia in forza di fattispecie non provvedimentale (come la SCIA o la CILA) debba essere inibita, ove i lavori contrastino con lo strumento urbanistico adottato. La fattispecie non provvedimentale si perfeziona ritualmente solo se vi sia il rispetto degli strumenti urbanistici; diversamente, è necessario l’intervento (provvedimentale) del Comune, che inibisca i lavori ed eventualmente disponga il ripristino, se essi siano già stati principiati o addirittura conclusi.

Il potere inibitorio è espressamente contemplato in caso di SCIA, non così nel caso della CILA. Vero è però che è applicabile anche per la CILA l’art. 27 del DPR n. 380/2001 (Cons. St., Comm. Spec., 4 agosto 2016, n. 1784, cit.), ai sensi del cui comma 2 la violazione degli strumenti urbanistici approvati o adottati causa la necessaria reazione del dirigente o responsabile dell’ufficio tecnico nel senso della rimessione in pristino (a prescindere dal titolo edilizio vantato) ed, ancor prima, ai sensi del comma 3, l’ordine di sospensione dei lavori.

Lo stesso può dirsi per l’attività edilizia libera.

In conclusione, ritengo che anche per le fattispecie legittimanti in forza di SCIA, CILA o di attività edilizia libera (eventualmente anche con comunicazione nell’unica ipotesi residua) valgano le misure di salvaguardia e debbano essere applicate pur se in assenza di alcun titolo formalmente inteso.

Nel caso di violazione del Piano adottato, il Comune ben può – anzi, deve – sospendere i lavori o inibire la prosecuzione degli stessi, come peraltro affermato dalla giurisprudenza in casi analoghi, ossia in ipotesi di DIA (Cons. St., sez. IV, 9 ottobre 2012, n. 5257) e di SCIA (TAR Toscana, sez. III, 13 gennaio 2015, n. 27). Nessun titolo – inteso atecnicamente – può validamente perfezionarsi in assenza dei presupposti urbanistici (Cons. St., sez. IV, 5 settembre 2016, n. 3805).

 

6. Onerosità dei titoli.

Merita fare il punto della situazione anche sull’onerosità dei titoli edilizi.

È bene ricordare che l’art. 16 del DPR n. 380/2001 prevede il contributo di costruzione, suddiviso in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e costo di costruzione.

Prevede anche il contributo straordinario, ma di questo non tratterò.

Non è soggetta a contributo di costruzione l’attività edilizia libera e, di regola, non lo è la CILA.

Non lo è neppure la SCIA, eccezione fatta per la SCIA alternativa, equiparabile al Permesso di Costruire, è da ritenersi. L’art. 22, comma 5, prevedeva espressamente che la DIA alternativa fosse soggetta a contributo, tale comma è stato abrogato dal D.Lgs. n. 222/2016, ma trasposto nell’ultimo capoverso del comma 01 dell’art. 23.

In generale, guardando l’orientamento giurisprudenziale consolidato, esso afferma come il fondamento del contributo di costruzione non si rinvenga nel titolo edilizio in sé, ma nell’aumento del carico urbanistico e nell’esigenza di ridistribuire i costi sociali di tale incremento (Cons. St., sez. V, 30.8.2013, n. 4326; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 7.4.2016, n. 1769).

Questa, quindi, è la chiave di lettura da utilizzare, per transitare da uno stereotipo sillogismo titolo-contributo al collegamento sostanziale dell’aumento del carico urbanistico quale causa del contributo.

Seguendo questo filo interpretativo, si può più facilmente dedurre che anche “titoli” (atecnicamente detti) d’ordinario non soggetti a contributo, possono a talune condizioni esserlo. Si pensi, ad esempio, alla SCIA ordinaria per cambio di destinazione d’uso meramente funzionale o senza opere (art. 10, comma 2, DPR n. 380/2001), ove il carico urbanistico aumenti; si pensi anche all’ipotesi della SCIA in variante ai sensi dell’art. 22, comma 2-bis, TUEd in combinato disposto con l’art. 92 della L.R. n. 61/1985, ossia al caso in cui con la variante finale si aumenti la cubatura dell’edificio nei limiti del 20%. Ciò si può fare, perché entro questi limiti la variante non comporta una variazione essenziale, ma l’aumento della cubatura conduce necessariamente al pagamento del contributo di costruzione, perché è scontato l’aumento del carico urbanistico.

 

7. Profili sanzionatori.

I titoli non titoli.

Oramai il TUEd prevede che la maggior parte delle attività edilizie, di minor caratura ma non per questo meno significative, sia sottratta al regime autorizzatorio ed attratta al regime di liberalizzazione con o senza comunicazione o segnalazione: attività edilizia libera, CAL, CILA, SCIA.

Per l’attività edilizia libera (eventualmente con comunicazione di avvio dei lavori, nell’unico caso residuo) non sono previste sanzioni specifiche, come non è prevista alcuna sanatoria. Non sono previste sanzioni penali, salvo la norma penale in bianco di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), DPR n. 380/2001, che copre ogni inosservanza delle norme, dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici.

Rimangono ferme, poi, le sanzioni previste da altre norme (ad esempio il D.Lgs. n. 42/2004), che possono essere violate.

Con riferimento alla CILA, è prevista, invece, la sanzione pecuniaria specifica di 1000 Euro in ipotesi di mancata presentazione della CILA (sanzione ridotta di due terzi se la CILA viene presentata spontaneamente quando l’intervento è in corso di esecuzione). Nulla viene detto in tema di difformità edilizie rispetto alla CILA, di talché alle stesse non pare applicabile alcuna sanzione, né pare che le difformità possano essere oggetto di CILA in sanatoria, come visto supra, l’accertamento di conformità essendo possibile solo in riferimento al PdC ed alla SCIA. Forse sarebbe coerente concludere che sia in ipotesi di mancata CILA, sia in ipotesi di presentazione della CILA, ma di realizzazione di opere in difformità da essa (ma pur sempre realizzabili con CILA) si applichi parimenti la sola sanzione pecuniaria, posto che le opere in difformità sono pur sempre in manca di una CILA per gli aspetti difformi.

Nel caso in cui la CILA sia utilizzata in violazione della normativa o della pianificazione urbanistica, l’amministrazione eserciterà i poteri repressivi e sanzionatori dell’abuso edilizio (in tal senso anche Cons. St., Comm. Spec., 4 agosto 2016, n. 1784).

Sia con riferimento all’attività edilizia libera, sia con riferimento alla CILA, inoltre, le stesse postulano comunque la conformità urbanistica dell’intervento, di talché, seppure non sia possibile la sanatoria, non è escluso il ripristino, quanto meno secondo una parte della giurisprudenza, che ritiene applicabile la sanzione ripristinatoria a prescindere dal titolo, in forza del generale potere-dovere in capo al Comune, dato dall’art. 27 del D.P.R. n. 380/2000, nonché dall’art. 31, comma 6, della medesima fonte, Testo Unico fatto salvo anche dall’art. 19, comma 6-bis, nonché dall’art. 21, comma 2-bis, della L. n. 241/1990. È stato sostenuto permangano in capo all’Ente locale i poteri di vigilanza e repressione degli abusi edilizi (TAR Veneto, sez. II, 25 febbraio 2016, n. 211; id., 22 luglio 2016, n. 861) a prescindere dal titolo e la tesi è stata ripresa anche da Cons. St., Comm. Spec., 4 agosto 2016, n. 1784, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 2 novembre 2018, n. 2052 e T.A.R. Marche, 7 ottobre 2016, n. 546.

Se quanto realizzato senza CILA fosse effettivamente in tal modo realizzabile (irregolarità di mera forma), la sanzione pecuniaria è l’unica contemplata; con il pagamento di essa si paga ogni tributo nei confronti dell’ordinamento, senza necessità di sanatorie di sorta. Diversamente, l’opera sarebbe abusiva ed andrebbe repressa secondo con i mezzi ordinari, salva la possibilità di sanatoria, ove, pur ammessa da norme e strumenti urbanistici, essa fosse assoggettata a titolo diverso, mancante, ma soggetto a sanatoria.

Più semplice appare l’apparato sanzionatorio rispetto alla SCIA: ad essa non si applicano le fattispecie penali (salvo SCIA alternativa e salva, è da ritenersi, la fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lett. a); si applicano gli articoli 37 (SCIA ordinaria) e 31 (SCIA alternativa). Ove ricorrano i presupposti, si può far luogo a SCIA in sanatoria ex art. 37 (SCIA ordinaria) o ex art. 36 (SCIA alternativa).

 

8. SCIA e falso.

Il falso costituisce una delle criticità della nuova SCIA, come condivisibilmente sottolineato anche dal Consiglio di Stato nel citato parere n. 839/2016.

In apparenza, invero, il legislatore sembra aver confinato gli effetti del falso entro ambiti angusti, pur avendo inasprito la pena conseguente al delitto di falso in connessione alla segnalazione di inizio attività, punito con la reclusione da uno a tre anni ai sensi dell’art. 19, comma 6, della L. n. 241/1990.

La disciplina del falso è affrontata sia dall’art. 19, comma 3, sia – in modo diametralmente opposto – dall’art. 21, comma 1, sia dall’art. 21-nonies, comma 2-bis, della L. n. 241/1990.

La prima delle citate norme consente la conformazione dell’attività (con contestuale sospensione dell’attività principiata) “in presenza di attestazioni non veritiere”. Pertanto, la falsa dichiarazione resa in sede di presentazione della SCIA non scatena ex se la reazione inibitoria dell’amministrazione, ma l’invito alla regolarizzazione, ove possibile. In tutta franchezza, sfuggono i casi nei quali si possa conformare il falso, che ha insanabilmente vulnerato il rapporto di fiducia tra amministrazione ed amministrato, fondamento della segnalazione di inizio attività.

Ancor di più, appare eccentrico l’invito alla conformazione, quando l’art. 21, comma 1, secondo periodo, della stessa L. n. 241/1990 (e di poco successivo rispetto all’art. 19) dispone espressamente che: “In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività”.

Evidente è l’imbarazzo dell’interprete, non risolvibile dando applicazione alla norma posteriore (nuovo testo dell’art. 19, comma 3, introdotto dal D.Lgs. n. 126/2016) e ritenendo implicitamente abrogato l’art. 21, comma 1, della L. n. 241/1990, ma dando un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in considerazione. I parametri costituzionali interposti, in particolare gli articoli 3 e 97 Costituzione, paiono convergere verso un’ermeneutica, che faccia salvo il potere comunale di inibire l’attività iniziata sulla base di una falsa dichiarazione, non potendosi regolarizzare il mendacio. Diversamente opinando, si andrebbe in risonanza sia con il rigore dello stesso legislatore, che ha inasprito la pena per l’ipotesi di falso a corredo della segnalazione (art. 19, comma 6), sia con il principio generale desumibile dall’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, che dispone la decadenza da ogni beneficio per chi abbia dichiarato il falso.

Se, in apparenza, il falso non impedisce la conformazione (tesi che, come visto, non merita condivisione), rende anche assai difficile l’inibizione dell’attività una volta decorsi i diciotto mesi; ma anche in questo caso non è come sembra.

Il previgente (rispetto alla L. n. 124/2015) art. 19, comma 3, ultima frase, della L. n. 241/1990 disponeva che in caso di dichiarazioni false l’amministrazione potesse in ogni tempo assumere i provvedimenti di inibizione dell’attività.

La Legge Madia ha riformato l’art. 19, comma 3, ultima frase, che nel nuovo testo ha perso ogni riferimento alla possibilità di esercitare il potere inibitorio in ogni tempo nel caso di mendacio.

È vero che l’art. 19, comma 4, della L. n. 241/1990 consente l’inibizione dell’attività anche decorsi i termini di trenta giorni, ma ciò è possibile fare solo entro i limiti di cui all’art. 21-nonies, come visto. Norma che è stata del pari novellata dalla L. n. 124/2015, con l’inserimento del nuovo comma 2-bis; in caso di falso si può annullare d’ufficio in ogni tempo il provvedimento, solo però ove il falso derivi da condotta costituente reato, accertato con sentenza passata in cosa giudicata.

Il panorama normativo consegna, quindi, all’interprete una tutela apparentemente “spuntata” avverso il mendacio: consente l’annullamento del provvedimento in ogni tempo, ma con il rilevante limite dell’accertamento del falso per il tramite di una sentenza del giudice penale passata in giudicata. Una volta decorsi trenta giorni dalla segnalazione, quindi, la repressione del mendacio tramite l’esercizio del potere inibitorio parrebbe di fatto impossibile, perché l’art. 21-nonies, comma 2-bis, ammette l’esercizio dei poteri inibitori solo se il mendacio risulti accertato con sentenza di condanna passata in giudicato.

La situazione è complicata dal fatto che l’art. 6, comma 1, lett. b), punto 2), della L. n. 124/2015 ha espressamente abrogato l’art. 21, comma 2, della L. n. 241/1990, che estendeva anche alla SCIA le sanzioni previste in caso di svolgimento dell’attività in mancanza dei requisiti richiesti o in contrasto con la normativa vigente.

Risulta, quindi, in apparenza un sistema per cui il mendacio non troverebbe possibilità di repressione, decorsi i trenta giorni dalla presentazione della segnalazione. Ma tale conclusione non appare condivisibile, perché così l’ordinamento finirebbe per tutelare il mendacio e non il virtuoso rapporto di buona fede sottostante alla logica delle autocertificazioni. La falsa certificazione elide in radice la buona fede del dichiarante ed ogni suo legittimo affidamento, tradendo egli il principio di autoresponsabilità e venendo quindi meno la leale collaborazione (su detti principi si vedano: Cons. St., Ad. Plen., 30 agosto 2018, n. 12; id., 17 ottobre 2017, n. 8; id., 25 febbraio 2014, n. 9).

Allo stesso risultato conduce anche l’ordinamento positivo. Infatti, da un lato, l’art. 19, comma 4, della L. n. 241/1990 rinvia all’art. 21-nonies, ed anche al suo comma 2-bis, dall’altro, la norma da ultimo citata consente l’esercizio del potere inibitorio, se il mendacio è stato accertato con sentenza passata giudicato, facendo, però, fa salvo il capo VI del D.P.R. n. 445/2000 e, con esso, l’art. 75, norma di portata generale, che impedisce il prodursi di effetti favorevoli in capo a chi abbia reso false dichiarazioni.

È vero che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 fa riferimento al provvedimento amministrativo (e tale la SCIA non è), ma è altrettanto vero che all’art. 75 rinvia espressamente l’art 21-nonies, comma 2-bis, al quale rinvia a sua volta l’art. 19, comma 4, di talché anche alla SCIA (meglio, al potere di inibizione dell’attività principiata con la segnalazione) si applicano – spirati i termini entro i quali sono esercitabili in via ordinaria i poteri inibitori – non solo i principi dell’autoannullamento, ma anche quelli rinvenibili nell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, fatti espressamente salvi dallo stesso art. 21-nonies, comma 2-bis. In forza del citato gioco di rinvii, si può ragionevolmente sostenere che il potere di inibizione si applichi anche decorsi i diciotto mesi, il mendacio impedendo il conseguimento del risultato utile, cui è sottesa la SCIA, senza necessità di previa sentenza di condanna passata in giudicato.

Tale prospettazione consente, quindi, al Comune di esercitare il potere inibitorio – relativamente all’attività principiata con la segnalazione affetta da mendacio – in ogni tempo ed a prescindere dall’accertamento del falso con sentenza passata in giudicato.

La conseguenza sotto il profilo esegetico – va detto – è rappresentata dalla sostanziale inutilità del riferimento alla garantistica necessità della previa sentenza d’accertamento del falso, passata in giudicato, e dal venir meno del termine dei diciotto mesi in caso di mendacio, con la conseguente frustrazione del regime di tendenziale stabilità della segnalazione, sacrificio giustificabile in ragione del falso, che ha minato il paradigma fiduciario sottostante all’istituto della SCIA.

Merita però segnalare che è stata recentemente sollevata (T.A.R. Puglia, Lecce, ordinanza 17 settembre 2018, n. 1346) la questione di incostituzionalità dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, in particolare del suo rigido automatismo legale, ritenuto dal remittente lesivo dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità ed uguaglianza.

Allo stato, comunque, l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 è norma vigente e va applicata, potendo un domani essere travolta dalla sentenza della Corte Costituzionale, che dovesse accogliere gli argomenti di incostituzionalità devoluti dal T.A.R. Puglia. In questo caso, la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe effetto retroattivo, con l’unico limite dei rapporti definiti (il che, proprio in tema di SCIA, ma anche, come vedremo, in tema di CILA, potrebbe costituire un aspetto problematico in relazione alla particolare tutela del terzo accordata da taluni arresti giurisprudenziali).

Merita, forse ancor di più, segnalare una recente interpretazione della giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4374), che reca almeno due principi di diritto di sicuro interesse.

Il primo principio, non attinente al falso, ma riferito al tema di diritto intertemporale, in base al quale l’art. 21-nonies, comma 2-bis, della L. n. 241/1990, si applica solo ai provvedimenti assunti dopo l’entrata in vigore della novella, ossia dopo il 28 agosto 2015.

Il secondo principio, invece, attiene proprio al falso e cerca di dare un’interpretazione all’apparente aporia del sistema poc’anzi denunciata. Ciò fa, distinguendo la “falsa rappresentazione dei fatti” dalle “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. Le due fattispecie citate sono riportate dalla legge con l’uso della disgiunzione “o” e solo alla seconda di esse (dichiarazioni sostitutive falsi o mendaci) è riferibile l’accertamento della condotta costituente reato con sentenza passata in giudicato.

Il Consiglio di Stato, forte anche di altro precedente (Cons. St., sez. V, n. 3940/2018), ritiene quindi che la mera falsa rappresentazione dei fatti (che può anche limitarsi al silenzio su fatti rilevanti o all’omessa indicazione di essi o al riferimento solo parziale – si pensi, ad esempio, alla mancata indicazione di un edificio a confine, o di un edificio con pareti finestrate a distanza inferiore ai dieci metri rispetto all’edificio in progetto -) sia altra e diversa fattispecie rispetto alla falsa autocertificazione. Entrambe le fattispecie consentono all’Amministrazione l’esercizio dell’autotutela anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi, sempre con riferimento alla falsa rappresentazione dei fatti, mentre, con riferimento alle false autocertificazioni, solo ove il falso sia stato accertato con sentenza passata in giudicato.

 

9. SCIA, CILA e tutela del terzo.

9.1. L’art. 19, comma 6-ter, della L. n. 241/1990 ha positivizzato la tutela indiretta del terzo, che si ritenga leso dalla segnalazione: egli non può impugnare alcunché, stante la natura della SCIA quale atto del privato e non quale provvedimento tacito, ma può sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione. Ove essa rimanga inerte, il terzo potrà esercitare l’azione avverso il silenzio inadempimento, ai sensi degli articoli 31 e 117 c.p.a.-

In questo senso v’è da chiedersi se i diciotto mesi – dati come spartiacque insuperabile dal nuovo art. 21-nonies della L. n. 241/1990 – siano invalicabili solo in ipotesi di azione dell’amministrazione iniziata d’ufficio, o anche in ipotesi di sollecitazione da parte del terzo.

Appare difficile distinguere le due fattispecie e sottoporle a discipline differenti, senza vulnerare il principio di logicità ed uguaglianza di cui all’art. 3 della nostra Costituzione.

In altri termini, per ragioni di stabilità, certezza degli effetti giuridici scaturiti dalla SCIA e tutela dell’affidamento in capo al segnalante, il legislatore ha deciso di comprimere il potere di reazione della pubblica amministrazione, che da pieno (se esercitato entro i sessanta o trenta giorni dalla segnalazione), diventa affievolito (se esercitato dopo i termini anzidetti ma entro i diciotto mesi), per poi – decorsi i diciotto mesi – venire meno.

Ora, se il potere inibitorio viene meno, significa che esso non può essere esercitato dall’amministrazione, a prescindere dal fatto che essa operi d’ufficio o su segnalazione del privato, ché – tra l’altro – quest’ultima opzione non si distingue dalla prima, se non quanto ad iniziativa. Pertanto, se il provvedimento di inibizione non può essere assunto, ciò vale ove esso consegua sia all’attività di controllo dell’amministrazione, sia alla sollecitazione del terzo. Il tema, infatti, attiene alla sussistenza del potere inibitorio, che o c’è o non c’è una volta decorsi i diciotto mesi (e normativamente non c’è), indipendentemente dal fatto che l’amministrazione si attivi d’ufficio o su denuncia del terzo.

Invero, la giurisprudenza (T.A.R. Veneto, sez. II, 12 ottobre 2015, n. 1039) si è attestata su posizioni contrarie, ritenendo che oltre al potere di intervento d’ufficio, entro i termini e con le modalità anzi viste, sussista l’autonoma e diversa fattispecie (data dall’art. 19, comma 6-ter, della L. n. 241/1990), costituente l’obbligo in capo all’amministrazione di provvedere su richiesta di terzi anche oltre i termini di cui agli articoli 19, commi 3 e 4 e comunque oltre ai limiti temporali e sostanziali codificati dall’art. 21-nonies della L. n. 241/1990. In particolare, il Giudice amministrativo ritiene che la tendenziale stabilità del titolo abilitativo non possa spingersi – secondo una prospettiva ermeneutica costituzionalmente orientata – sino al sacrificio dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale del terzo, positivizzati negli articoli 24, 111 e 113 della Costituzione.

L’argomentare della giurisprudenza muove dalla tutela indiretta del terzo, che può solo sollecitare l’intervento dell’amministrazione, la quale però – ove attivata successivamente allo scadere dei termini di cui all’art. 19, commi 3 e 4 – non deve incontrare gli stessi limiti, che avrebbe ove agisse d’ufficio oltre i termini, mercé l’irrimediabile sacrificio della tutela giurisdizionale del terzo.

Resta ancora da trovare una posizione di equilibrio tra il segnalante ed i terzi, perché accogliendo la tesi dalla consumazione d’ogni potere in capo all’amministrazione una volta spirati i diciotto mesi, la tutela del terzo sarebbe difficile; secondo la tesi opposta, decorsi i diciotto mesi la tutela del terzo sarebbe piena ed esercitabile potenzialmente sine die.

In questa seconda prospettiva (cui accede il TAR Veneto) la posizione di affidamento del segnalante evidentemente scricchiola e lo scricchiolio è accentuato dal fatto che la sollecitazione del terzo non soggiace a limiti temporali, così come, in tesi, il conseguente potere inibitorio comunale.

È evidente che l’effettiva tutela di questi ultimi e l’esigenza di certezza del segnalante debbano ancora trovare equilibrata composizione, che, secondo il Consiglio di Stato (parere n. 839/2016), potrebbe essere data da una forma di tutela speciale basata sull’azione di accertamento – sottoposta ad un termine certo – circa l’assenza dei requisiti di legge per l’esercizio dell’attività oggetto di segnalazione.

Merita però segnalare un’interessante pronuncia del Consiglio di Stato (sez. VI, 3.11.2016, n. 4610; nello stesso senso: TAR Calabria, Catanzaro, n. 1533/2016), che ha dato una lettura diversa da quella del TAR Veneto, scegliendo una sorta di terza via interpretativa, per così dire, intermedia.

Sostiene il Consiglio di Stato che la tutela del terzo non possa mantenere in bilico sine die la SCIA: il terzo ben può sollecitare l’amministrazione all’esercizio dei propri poteri anche scaduti i termini, ma l’amministrazione deve agire nei limiti degli altri presupposti previsti per l’autotutela (ossia sussistenza dell’interesse pubblico e bilanciamento dello stesso con l’affidamento insorto nel privato segnalante).

Le tesi allo stato compendiabili appaiono essere le seguenti:

  • decorsi i 30 gg. è consumato il potere inibitorio comunale; il terzo può sollecitare anche successivamente allo scadere di tale termine e del termine di 18 mesi l’intervento dell’amministrazione, che però dovrà osservare i presupposti di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 (salvo il termine);
  • la tutela del terzo è talmente forte che su sua denuncia l’intervento del Comune può avvenire senz’alcun limite anche decorsi i 18 mesi;
  • la tutela del terzo è talmente debole, sì che su sua denuncia il Comune non può intervenire per nulla una volta decorsi i 18 mesi;
  • la tesi dell’incostituzionalità dell’art. 19, comma 6-ter, L. 241/1990, nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche comunali sulla SCIA, tesi affermata da TAR Toscana, sez. III, ordinanza 11 maggio 2017, n. 667, con cui ha investito del tema la Corte Costituzionale.

Sullo sfondo, il suggerimento, de jure condendo, del Consiglio di Stato (parere n. 839/2016), che affiderebbe al terzo la tutela speciale basata sull’azione di accertamento – sottoposta ad un termine certo – circa l’assenza dei requisiti di legge per l’esercizio dell’attività oggetto di segnalazione

La rilevanza del problema si vede nella fuga dalla SCIA per i progetti di notevole investimento, collegata alla scarsa propensione degli istituti bancari di finanziare progetti assentiti con SCIA, proprio per l’instabilità del titolo, sottoposto all’attacco sine die del terzo.

Sul citato rinvio del TAR Toscana, la Corte Costituzionale, con sentenza 13 marzo 2019, n. 45, ha inciso sul corretto inquadramento dei diritti dei terzi rispetto alla SCIA, concludendo in sintesi che:

(i) decorsi i termini riservati all’Amministrazione per incidere sulla SCIA (atto privato), ossia decorsi i 30 gg. (per la SCIA edilizia) o i 18 mesi, i poteri amministrativi sono definitivamente consumati, quindi l’Amministrazione non può più esercitare i poteri inibitori, neppure su segnalazione del terzo;

(ii) decorsi i detti termini, da un lato, la posizione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente, dall’altro, il potere inibitorio comunale si consuma altrettanto definitivamente, venendo meno ogni potere del terzo, anch’esso definitivamente consumatosi;

(iii) il terzo è titolare di un interesse pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo sulla SCIA; se si consuma il potere amministrativo di controllo, viene meno l’interesse legittimo del terzo;

(iv) se, in via amministrativa, decorsi i termini, la posizione del segnalante si consolida definitivamente, residuano tuttavia alcune possibilità in capo al terzo, ossia: (a) sollecitare le verifiche dell’Amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni (nel qual caso non vi sono termini che tengano, l’A. mantiene i pieni poteri); (b) sollecitare i poteri di polizia edilizia in capo all’Amministrazione, ai sensi dell’art. 27 DPR n. 380/2001; (c) agire in sede risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione (del funzionario ex art. 21, comma 2-ter, L 241/1990), che non abbia esercitato il doveroso potere di verifica.

La Corte Costituzionale, da ultimo, ha invitato il Legislatore ad intervenire su due profili: 1) rendere possibile in capo al terzo una più immediata conoscenza della segnalazione; 2) impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione.

Si ritrae, in sintesi, la posizione della Consulta di aperto favor per la stabilità della situazione giuridica a beneficio del segnalante, la cui segnalazione è in posizione di sostanziale intangibilità, una volta decorsi gli anzi ricordati termini, senza che l’Amministrazione abbia esercitato i propri poteri. Di contro, la tutela del terzo appare indebolita, pur se continuino a sussistere i rimedi dianzi compendiati sub (iv).

9.2. Va ora affrontato il tema della tutela del terzo rispetto alla CILA (ma analoghi ragionamenti possono valere per l’attività edilizia libera). Infatti, in questi casi nulla è previsto in tema di tutela del terzo, al contrario della SCIA, per la quale è l’art. 19, comma 6-ter, della L. n. 241/1990 che richiama l’azione sul silenzio.

Potrebbe però estendersi – in via analogica e garantendo anche al terzo i diritti costituzionali di difesa, ex artt. 24, 111 e 113 Cost. – lo stesso rimedio anche rispetto alla CILA e, ricorrendo l’eadem ratio, anche rispetto all’attività edilizia libera.

Con riferimento alla CILA, v’è anche un primo arresto giurisprudenziale (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 16 luglio 2018, n. 1497); il Giudice catanese afferma che la CILA – similmente alla SCIA (anzi, forse ancor di più) – non rappresenta un provvedimento amministrativo, ma una mera attività del privato. Il terzo, quindi, non può impugnare la CILA o il tacito provvedimento ad essa in ipotesi conseguente, ma solo sollecitare l’intervento dell’Amministrazione e, se essa rimane inerte, il privato potrà attivare il rimedio avverso il silenzio inadempimento ex artt. 31 e 117 c.p.a.-

Alessandro Veronese

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