Sommario: § 1. Le novità in tema di agibilità; § 2. Le tolleranze costruttive; § 3. I requisiti igienico-sanitari delle residenze; § 4. La proroga dei termini di inizio e fine lavori; § 5. Le modifiche relative alle comunicazioni elettroniche.

1. Le novità in tema di agibilità.

1.1. Il Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, recante: “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 16 luglio 2020, n. 178 ed è entrato in vigore a far data dal 17 luglio 2020, ai sensi dell’art. 65, comma 1.

Il decreto testé citato è stato convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 settembre 2020, S.O. n. 228. La legge di conversione è entrata in vigore a far data dal giorno 15 settembre 2020, ossia dal giorno successivo alla pubblicazione in G.U., ai sensi dell’art. 1, comma 2, della L. n. 120/2020.

L’ennesimo ricorso alla decretazione d’urgenza muoveva dalla crisi conseguente alla pandemia e, stando alle premesse del decreto legge, scopi del decreto in esame erano: (i) accelerare gli investimenti e la realizzazione delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, “senza pregiudizio per i presidi della legalità”; (ii) semplificare i procedimenti; sostenere l’amministrazione digitale; semplificare le responsabilità del personale delle amministrazioni, le attività imprenditoriali, il governo dell’ambiente e della c.d. green economy.

Le norme oggetto di commento contengono disposizioni di novellazione del Testo unico dell’edilizia (in tema di agibilità e di tolleranze costruttive, rispettivamente all’art. 10, comma 1, lettere n) e p), del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020), disposizioni innovative (che non modificano testualmente il DPR n. 380/2001), in tema di requisiti igienico-sanitari delle abitazioni e di proroga dei termini di inizio e fine lavori (rispettivamente all’art. 10, commi 2 e 4), disposizioni di riforma della responsabilità erariale (art. 21), dell’art. 323 c.p. (art. 23) e del codice delle comunicazioni elettroniche (art. 38).

1.2. Per quanto attiene alla novità in tema segnalazione certificata di agibilità, il D.L. n. 76/2020 (testo immutato in sede di conversione in legge) ha introdotto il comma 7-bis all’art. 24 del DPR n. 380/2001.

La novella consente di presentare la SCIA di agibilità, pur se in assenza di qualsivoglia (previo) lavoro, in relazione agli immobili esistenti e legittimamente realizzati (ora normativamente definiti, ai sensi dell’art. 9-bis, comma 1-bis, T.U.Ed.), ma privi di agibilità, ciò a condizione che sussistano i requisiti, da definirsi con apposito decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti (con il concerto del Ministro della salute, del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, del Ministro per la pubblica amministrazione e previa intesa in Conferenza unificata). Allo stato, in attesa del decreto non vi sono i requisiti dell’agibilità, per così dire, “postuma”; mancano quindi i riferimenti attuativi della norma, che sarà in concreto applicabile solo successivamente all’adozione del decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Invero, anche prima della novella nulla vietava di presentare la SCIA di agibilità con riferimento agli edifici esistenti, che ne fossero privi. A prescindere dal nuovo comma 7-bis, nulla vieta – anche allo stato – di presentare la SCIA di agibilità postuma o a prescindere dall’esecuzione di interventi assentiti, seguendo le regole tecniche oggi in vigore; ad esempio, se si tratta di immobili residenziali, nel rispetto dei requisiti igienico-sanitari previsti dal D.M. 5 luglio 1975.

Invero, l’art. 24, comma 2, T.U.Ed. richiede la presentazione della SCIA di agibilità entro quindici giorni “dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento”, ma si tratta di un termine, la cui violazione è punita con una mera sanzione amministrativa di natura pecuniaria (da Euro 77 ad Euro 464), ai sensi dell’art. 24, comma 3, DPR n. 380/2001, fermo il potere generale di dichiarazione di inagibilità totale o parziale, di cui all’art. 26 T.U.Ed. ed all’art. 222 del R.D. n. 1265/1934 (potere esercitabile anche nel caso sia intervenuta la segnalazione certificata di agibilità).

La nuova disposizione in commento sembra, quindi, volta a consentire il conseguimento dell’agibilità di edifici esistenti, previa statuizione dei requisiti minimi, ad hoc previsti, che dovrebbero verosimilmente essere diversi (presumibilmente meno restrittivi) rispetto ai requisiti generali oggi recati – per seguire l’esempio, con riferimento alle abitazioni – dal D.M. 5 luglio 1975, decreto comunque in predicato di modifica – ai sensi dell’art. 20, comma 1-bis, T.U.Ed., introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. d), n. 2), del D.Lgs. n. 222/2016 – in forza di un ancora emanando decreto del Ministero della Salute, a valere per tutti gli edifici.

Sui decreti attuativi si può concludere, in sintesi, che: (i) è previsto un decreto del Ministro della salute, volto a disciplinare i requisiti igienico-sanitari, per così dire ordinari, applicabile a tutti gli edifici (quindi anche alle abitazioni); al riguardo l’attesa perdura dal 2016, nonostante in allora fosse stato previsto il termine (evidentemente ordinatorio) di novanta giorni per la adozione del nuovo decreto; (ii) è previsto, altresì, un altro e diverso decreto ministeriale, volto a disciplinare i requisiti ad hoc stabiliti per il caso di SCIA di agibilità postuma, ossia presentata in assenza di lavori e riferita agli immobili già (legittimamente) realizzati, ma privi di agibilità.

Si tratta di due decreti diversi, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto il profilo del procedimento di formazione, quando, forse, si sarebbe potuta unificare la regolamentazione attuativa, anche con riferimento ai procedimenti, visto che la novella in commento dovrebbe essere volta alla semplificazione.

Infine, è da chiedersi se anche nell’ipotesi dell’art. 24, comma 7-bis sia applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria, che il comma 3 limita oggettivamente ai “casi indicati al comma 2”, ossia alla mancata presentazione della SCIA di agibilità entro quindici giorni “dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento”. Fattispecie diversa pare essere quella del comma 7-bis, che contempla la SCIA di agibilità “in assenza di lavori” e che sembra sottrarsi al richiamo del comma 3, che si riferisce solo al comma 2.

Vi potrebbe essere, invero, una diversa interpretazione, in base alla quale l’immobile legittimamente realizzato, ma privo di agibilità, rappresenta pur sempre un immobile ultimato a seguito dell’esecuzione di lavori, senza che fosse stata richiesta l’agibilità, di talché si potrebbe comunque rientrare nella fattispecie di cui al comma 2.

Forse è preferibile la prima opzione ermeneutica, sia perché il comma 7-bis si riferisce alla SCIA d’agibilità in assenza di lavori, evidentemente al momento della presentazione della SCIA: ciò che conta appare essere, quindi, la soluzione di continuità tra lavori eseguiti e SCIA d’agibilità, sì che la seconda non segua i primi secondo la scansione temporale e procedimentale ordinaria di cui al comma 2; del resto, anche sotto il profilo logico-sistematico, questa prospettazione appare maggiormente in linea con lo spirito della norma nel senso della semplificazione. Da questo punto di vista, favorire la regolarizzazione, introducendo la SCIA d’agibilità postuma, appare norma di favore in linea con la ratio legis, che verrebbe viceversa frustata se la presentazione postuma scontasse la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 24, comma 3.

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2. Le tolleranze costruttive.

All’interno dell’art. 34 del DPR n. 380/2001, rubricato: “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”, era stato introdotto (dall’art. 5, comma 2, lett. a), numero 5), del D.L. n. 70/2011, convertito con modificazioni dalla L. n. 106/2011) il comma 2-ter, per statuire l’irrilevanza delle ivi indicate difformità rispetto al progetto assentito, siccome rappresentazione della tolleranza costruttiva.

La norma disponeva che: “Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.

Il decreto semplificazioni ha, da un lato, abrogato l’art. 34, comma 2-ter, T.U.Ed., dall’altro, introdotto nel medesimo corpus l’art. 34-bis, rubricato: “Tolleranze costruttive”.

La novella, quindi, non solo conferisce alle tolleranze la dignità di articolo separato ed autonomo, ma amplia il novero delle difformità irrilevanti per l’ordinamento.

L’ora vigente primo comma dell’art. 34-bis è quasi identico al precedente art. 34, comma 2-ter, salvo una sola modifica, ma significativa. Infatti, mentre l’art. 34, comma 2-ter, rendeva irrilevante il mancato rispetto di altezza, distanze (distacchi, nella poco felice formulazione normativa, evocante un istituto di matrice giuslavoristica), cubatura e superficie coperta entro l’indicato limite del 2%, la novella comprende oggi “ogni altro parametro”, ossia la violazione di tutto ciò che non sia altezza, distanze, cubatura e superficie coperta, sempre entro il limite del 2% rispetto alle misure previste nel titolo abilitativo.

Di fresco conio è il secondo comma dell’art. 34-bis, che prescinde da ogni limite dimensionale, ma detta altre condizioni (dal perimetro non così nitido), per considerare irrilevanti (“tolleranze esecutive”) (i) le irregolarità geometriche; (ii) “le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità”, laddove la minima entità dovrebbe evidentemente riferirsi alle modifiche, non agli edifici; (iii) la diversa collocazione di impianti ed opere interne. Queste le condizioni: (a) l’immobile non dev’essere sottoposto ai vincoli di cui al D.Lgs. n. 42/2004, ossia a tutti i vincoli ivi previsti; (b) le opere eseguite in difformità devono essere state realizzate “durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi”, non sine titulo, donde, forse, la specifica denominazione “tolleranze esecutive”; (c) le difformità non devono violare la disciplina urbanistica ed edilizia; (d) le opere difformi non devono pregiudicare l’agibilità dell’immobile.

La portata innovativa del secondo comma, pur ampiamente condivisibile, rischia di scontare limiti troppo lati, sì da non consentirne l’applicazione. Infatti, da un lato, il necessario rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia, nonché delle norme in tema di agibilità, dall’altro, l’insussistenza di vincoli ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 (limite forse evitabile, ad esempio, con riguardo alle opere interne di immobili siti in zona soggetta a vincolo paesaggistico[1]), dall’altro ancora, talune incertezze definitorie (qual è l’esatto significato delle irregolarità geometriche?), rischiano di limitare l’effetto utile della novella.

Inoltre, il terzo comma dell’art. 34-bis, precisa che le opere difformi, di cui ai precedenti commi 1 e 2, realizzate nel corso di “precedenti interventi edilizi”, non costituiscono violazioni edilizie; il che conferma come le difformità rientranti all’interno delle tolleranze normative non costituiscono alcun abuso, alcuna violazione edilizia, non comportano alcuna necessità di sanatoria e non sono soggette ad alcuna sanzione. Le difformità – entro i visti limiti – sono tollerate dall’ordinamento giuridico e, pertanto, del tutto indifferenti.

Da ultimo, le difformità “sono dichiarate”, quindi devono essere dichiarate, dal tecnico abilitato non solo nell’attestazione dello stato di fatto dell’immobile, all’atto della presentazione di istanze edilizie, di segnalazioni o di comunicazioni, ma anche “con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali”. È stato, quindi, introdotto l’obbligo in capo – ad esempio – al venditore di allegare al contratto di compravendita immobiliare la dichiarazione asseverata di un tecnico abilitato, che attesti la sussistenza delle difformità di cui all’art. 34-bis. La norma non prevede espressamente alcuna sanzione in caso di omessa dichiarazione, né alcuna conseguenza sulla validità dell’atto.

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3. I requisiti igienico-sanitari delle residenze.

L’art. 10, comma 2, del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020 reca una norma di interpretazione autentica (quindi, in linea di principio, retroattiva), posto che il D.M. 5 luglio 1975[2], sino all’approvazione del decreto del Ministero della salute, previsto dall’art. 20, comma 1-bis, T.U.Ed. (come Godot, atteso da tempo), si deve interpretare come segue.

I requisiti relativi all’altezza minima ed i requisiti igienico-sanitari dei locali di abitazione, ivi previsti, non si considerano riferiti agli immobili realizzati prima dell’entrata in vigore del D.M. 5 luglio 1975 ed ubicati nelle zone territoriali omogenee di tipo A e B o in zone ad esse assimilabili in base alla legislazione regionale ed ai piani urbanistici comunali.

Di conseguenza, nei casi anzi visti, per la presentazione ed il rilascio dei titoli edilizi relativi ad interventi di recupero e di (ri)qualificazione edilizia e della successiva agibilità, si fa riferimento alle dimensioni legittimamente preesistenti. Con riferimento alla nozione di stato legittimo dell’immobile, si veda l’art. 9-bis, comma 1-bis, T.U.Ed., introdotto dalla legge di conversione n. 120/2020.

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4. La proroga dei termini di inizio e fine lavori.

4.1. C’era una volta l’art. 15, comma 2, del DPR n. 380/2001, che fissava il termine di inizio dei lavori in un anno dal rilascio del titolo ed il termine di fine lavori in tre anni dall’inizio degli stessi.

La proroga (sia del termine di inizio lavori, sia del termine di fine lavori), benché espressamente prevista dallo stesso art. 15, comma 2, T.U.Ed., era fattispecie eccezionale, che presupponeva la formalizzazione della domanda dell’interessato prima della scadenza ed il provvedimento comunale congruamente motivato con le ragioni previste dal medesimo art. 15, comma 2, T.U.Ed.-

La ricordata disciplina, di rango regolamentare e non normativo (l’art. 15 avendo natura di regolamento), è stata sempre il riferimento tradizionale, pur se con qualche oscillazione interpretativa circa il concetto di rilascio del titolo, di completamento dell’opera e le cause giustificatrici della proroga.

Per le ragioni più varie gli indicati termini hanno visto nel tempo molteplici interventi legislativi di proroga: ripetutamente norme di legge hanno prorogato i termini dati dal regolamento in materia di inizio e fine lavori.

Dapprima, l’art. 30, comma 3, del D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 98/2013, la cui rubrica già recava: “Semplificazioni in materia edilizia”, ha prorogato, previa comunicazione (non più istanza) dell’interessato, di due anni il termine di inizio e fine lavori recato dai titoli edilizi formatisi prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 69/2013, a condizione che: (i) il titolo non fosse decaduto per decorrenza degli anzidetti termini al momento della presentazione della comunicazione; (ii) non fossero sopravvenuti nuovi strumenti urbanistici (approvati o adottati) in contrasto con i titoli. Del pari venivano prorogate le autorizzazioni paesaggistiche efficaci alla data di entrata in vigore della legge di conversione.

Dipoi, con l’art. 103, comma 2, del D.L. n. 18/2020 (c.d. “Decreto cura Italia”), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27/2020, la pandemia per Covid-19 ha condotto alla proroga ex lege (quindi automatica, in assenza di qualsivoglia richiesta o comunicazione dell’interessato, in assenza di qualsiasi istruttoria comunale e senza possibilità alcuna in capo al Comune di negare la proroga stessa) dei termini di inizio e fine lavori in scadenza tra il 31 gennaio 2020 ed il 31 luglio 2020. Proroga efficace per i novanta giorni successivi alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza. Dichiarazione che non si è ancora avuta; anzi, lo stato di emergenza, originariamente previsto sino al 31 luglio 2020 in forza del noto D.P.C.M. 31 gennaio 2020 (pubblicato in G.U. 1° febbraio 2020, n. 26), è stato prorogato al 15 ottobre 2020 in forza dell’art. 1, comma 1, del D.L. 30 luglio 2020, n. 83 ed è in discussione l’ulteriore proroga dello stato di emergenza al 31 dicembre 2020. Alla proroga dello steso di emergenza dal 31 luglio 2020 sino al 15 ottobre 2020 non è però seguita la proroga del termine di scadenza dei titoli, sempre compreso tra il 31 gennaio 2020 ed il 31 luglio 2020, quando ragioni di coerenza avrebbero consigliato di allineare il periodo nel quale i titoli andavano a scadere al periodo di emergenza.

Comunque sia, alla vista proroga ex lege si è sovrapposto l’art. 10, comma 4, del D.L. n. 76/2020, convertito in L. n. 120/2020. Con alcune rilevanti differenze.

La portata oggettiva dell’art. 10, comma 4, comprende i permessi di costruire “rilasciati o comunque formatisi” sino al 31 dicembre 2020, nonché le segnalazioni di inizio attività presentate entro lo stesso termine; inoltre, la novella in commento non prevede una proroga ex lege, ma una proroga – del tutto analoga a quella vista con riferimento all’art. 30, comma 3, del D.L. n. 69/2013 – su iniziativa dell’interessato (comunicazione) per un anno e tre anni (con riferimento, rispettivamente, ai termini di inizio e fine lavori), sempre che i termini non siano già decorsi al momento della comunicazione e purché i titoli edilizi non siano in contrasto, al momento della comunicazione, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati.

La facoltà di comunicare la proroga si applica anche ai titoli, per i quali l’amministrazione abbia già assentito una proroga in via ordinaria, ossia ai sensi dell’art. 15, comma 2, T.U.Ed.; una sola, è da intendersi in base alla lettera della norma, che, altrimenti, avrebbe usato la locuzione “una o più proroghe”. Mentre non pare escluso che la comunicazione di proroga possa riguardare anche i termini già oggetto di proroga con comunicazione dell’interessato, ai sensi dell’art. 30, comma 3, del D.L. n. 69/2013.

Anche con riferimento alla novella in esame si tratta di una comunicazione di proroga, a forma libera, rispetto alla quale il Comune deve verificare – curando la relativa istruttoria – che: (i) i termini non siano già decorsi al momento della comunicazione; (ii) al momento della presentazione della comunicazione i titoli edilizi non risultino in contrasto con nuovi strumenti urbanistici (di qualsivoglia natura, grado e competenza) approvati o adottati. Nessuna istanza, quindi, nessun provvedimento comunale e nessuna motivazione della proroga, ai sensi dell’art. 15, comma 2, T.U.Ed.; resta però l’onere della comunicazione e, in capo al Comune, di accertare la sussistenza dei presupposti di legge e, in difetto, di opporsi alla proroga e di assumere i conseguenti atti in termini di dichiarazione di decadenza del titolo.

L’art. 10, comma 4, del D.L. n. 76/2020, come convertito dalla L. n. 120/2020, non reca alcun cenno, infine, alla proroga dell’efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche.

Problematica appare la proroga dell’efficacia dei titoli con riferimento a quelli ottenuti sulla base del “vecchio” Piano casa, ossia della L.R. n. 14/2009 e successive modifiche ed integrazioni, in particolare laddove essi abbiano assentito interventi edilizi – con istanze presentate entro il 31 marzo 2019 – non più assentibili in base al “nuovo” Piano casa di cui alla L.R. n. 14/2019.

Rispetto ai titoli anzidetti, nessun problema vi era con riferimento ai termini di inizio e fine lavori in scadenza tra il 31 gennaio 2020 ed il 31 luglio 2020, posto che operava la proroga ex lege ai sensi dell’art. 103, comma 2, del D.L. n. 18/2020 (c.d. “Decreto cura Italia”), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27/2020.

Se si trattasse, invece, di fare applicazione dell’art. 10, comma 4, del D.L. n. 76/2020, come convertito dalla L. n. 120/2020, la proroga non sarebbe automatica, ope legis, ma presupporrebbe sia la previa comunicazione (prima della scadenza del titolo), sia l’insussistenza di contrasto del titolo edilizio con i nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati.

Il problema si pone per il fatto che nell’ipotesi avanzata (titolo rilasciato in base al “vecchio” Piano casa, non più assentibile in base al “nuovo” Piano casa) non vi sarebbe contrasto con “nuovi” strumenti urbanistici approvati o adottati, anche se al momento della comunicazione non è più in vigore il “vecchio” Piano casa, norma di deroga che in allora consentiva il rilascio del titolo. V’è da chiedersi, quindi, se, venuto meno il “vecchio” Piano casa, il Comune debba opporsi o no alla richiesta di proroga.

Secondo una prima tesi, per così dire, formalistica, basata sull’interpretazione formale della normale, non vi sarebbero nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati, ragione ostativa rispetto alla comunicazione di proroga, quindi il Comune non potrebbe opporsi alla proroga.

Secondo una seconda e contrapposta tesi, per così dire, sostanzialistica, non essendo più in vigore il “vecchio” Piano casa, che autorizzava la deroga allo strumento urbanistico, esso si riespande appieno, impedendo la proroga.

La prima tesi si sostiene interamente in base alla lettera della norma, in particolare all’attributo “nuovi” in riferimento agli strumenti urbanistici approvati o adottati, non potendo a tal fine essere di supporto l’art. 17, comma 1, della L.R. n. 14/2019, che estende l’efficacia della L.R. n. 14/2009 e s.m.i. alle segnalazioni certificate di inizio attività o alle istanza di permesso di costruire presentate entro il 31 marzo 2019, le quali continuano a trovare disciplina nel “vecchio” Piano casa, posto che il riferimento pare riferirsi alla disciplina sostanziale e procedimentale della L.R. n. 14/2009, per giungere alla formazione del titolo; dopo il suo rilascio, però, si applica la disciplina in tema di inizio a fine lavori, non innovata, né derogata dal “vecchio” Piano casa.

È forse preferibile, quindi, la tesi sostanzialistica, in base alla quale il Comune, all’atto della comunicazione di proroga in riferimento all’efficacia del titolo edilizio, conseguito a norma della L.R. n. 14/2009, deve considerare il fatto che la norma di deroga – che sorreggeva il titolo, non sorretto neppure dal “nuovo” Piano casa – non vige più e non consente quindi più di derogare allo strumento urbanistico, che riespande appieno tutta la propria efficacia, impedendo la proroga, posto che, pur non essendo nuovo, è comunque nuovamente applicabile in pieno.

4.2. Merita anche ricordare che l’art. 10, comma 4-bis, aggiunto in sede di conversione dalla L. n. 120/2020, estenda la proroga (in questo caso automatica, ope legis) di tre anni anche alle convenzioni urbanistiche, agli accordi urbanistici comunque denominati, ai piani attuativi formatisi (approvati, è da ritenersi, con riferimento tanto ai piani attuativo, quanto ai piani generali, ad esempio nel caso di accordi pubblico-privato ex art. 6 L.R. n. 11/2004 in variante al Piano degli Interventi) entro il 31 dicembre 2020, nonché ai termini di inizio e fine lavori ivi previsti.

Anche con riferimento alle proroghe testé ricordate, molteplici sono stati gli interventi del legislatore, dall’art. 30, comma 3-bis, introdotto in sede di conversione dalla L. n. 98/2013, relativamente alla proroga di tre anni delle convenzioni o degli accordi stipulati sino al 31 dicembre 2012, all’art. 103, comma 2-bis, introdotto in sede di conversione dalla L. n. 27/2020, relativo alla proroga di novanta giorni delle convenzioni, agli accordi ed ai piani in scadenza tra il 31 gennaio 2020 ed il 31 luglio 2020.

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5. Le modifiche relative alle comunicazioni elettroniche.

Merita esaminare l’art. 38 del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020 e rubricato: “Misure di semplificazione per reti e servizi di comunicazioni elettroniche”. La norma apporta modifiche in particolare (ma non solo) alla L. n. 36/2001, al D.Lgs. n. 259/2003, ed al D.Lgs. n. 33/2016.

Giova muovere dal nuovo testo dell’art. 8, comma 6, della L. n. 36/2001, recante: “Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”, norma riscritta dall’art. 38, comma 6, del D.L. n. 76/2020, senza ulteriori modifiche in sede di conversione.

La novella, da un lato, limita il potere regolamentare in capo ai Comuni, dall’altro, elide il potere comunale di assumere provvedimenti contingibili ed urgenti circa i limiti di esposizione riservati alla competenza statale.

5.1. Sotto il primo profilo, in realtà, la nuova norma recepisce il consolidato orientamento giurisprudenziale, in base al quale, pur se sussiste il potere comunale (di competenza del Consiglio) di regolamentare il corretto insediamento urbanistico degli impianti, esso non può spingersi sino al divieto generalizzato di localizzazione degli impianti in determinate aree (Cons. St., sez. VI, 4.11.2019, n. 7529; TAR Veneto, sez. II, 28.7.2020, n. 679) o, a maggior ragione, sull’intero territorio comunale; così come non può incidere – anche in via indiretta – sui limiti di esposizione (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 26.11.2019, n. 2858).

Per il vero, a prescindere dalla novella in commento, lo stesso potere regolamentare comunale è stato recentemente messo in discussione in radice; infatti, il Consiglio di Stato (sez. VI, ordinanza 27 marzo 2019, n. 2033) ha rinviato in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia U.E. proprio l’art. 8, comma 6, della L. n. 36/2001 (nel testo previgente), dubitando circa la compatibilità della norma con l’ordinamento europeo, in particolare con il principio del servizio universale, rinvenibile nella Direttiva 2002/22/CE. Il Consiglio di Stato dubita della compatibilità della norma nazionale in esame con il diritto eurounitario, laddove la prima attribuisce ai Comuni il potere di individuare limiti localizzativi degli impianti di telefonia mobile attraverso il divieto di installazione su specifici edifici (ospedali, case di cura, scuole) o attraverso l’imposizione di distanze minime inderogabili degli impianti rispetto ai c.d. obiettivi sensibili. Non è certo questa la sede per approfondire il tema, tanto delicato quanto interessante, ma dalla risposta della Corte di Giustizia dipenderà ab imis il destino del potere regolamentare comunale, oggi solo limitato (seppur significativamente) dalla novella in commento ed ancor prima, dalla giurisprudenza.

5.2. Oltre alla vista limitazione del potere regolamentare comunale, il nuovo art. 38, comma 6, della L. n. 36/2001 prevede anche il divieto in capo ai Comuni di assumere provvedimenti contingibili ed urgenti con riguardo ai limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, ai valori di attenzione ed agli obiettivi di qualità, riservati alla competenza statale, ai sensi dell’art. 4 della L. n. 36/2001.

È la risposta del legislatore a tutta la lunga teoria di ordinanze sindacali, che da qualche tempo si stanno moltiplicando, anche in Veneto, nel tentativo di impedire la sperimentazione, l’installazione o la riconfigurazione di impianti con la tecnologia c.d. 5G.

In tal senso, si stanno avendo le prime pronunzie dei giudici amministrativi (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 24.7.2020, n. 3324; TAR Sicilia, Catania, sez. I, ord. 27.7.2020, n. 566, che ha affermato testualmente: <<L’elaborazione giurisprudenziale seguita dal Collegio è stata, per altro, ormai “certificata” dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76 …>>, ed ancora, in riferimento sempre all’art. 38, comma 6, in commento: “La disposizione, recependo evidentemente la giurisprudenza consolidata, sancisce, per un verso, l’illegittimità di un divieto generalizzato alla installazione degli impianti del genere in esame, per un altro, l’impossibilità di adottare ordinanze contingibili ed urgenti in una materia la cui competenza è riservata allo Stato”; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 26.11.2019, n. 2858; id., 22.5.2020, n. 1126; id., 7.7.2020, n. 1641).

5.3. Altre disposizioni dell’art. 38 introducono modifiche non marginali, di cui merita dare breve cenno. Tra le innovazioni normative inerenti al D.Lgs. n. 259/2003, recante: “Codice delle comunicazioni elettroniche”, vanno segnalate quelle che appaiono maggiormente significative.

All’art. 87-ter del D.Lgs. n. 259/2003 tra le variazioni non sostanziali degli impianti esistenti ed autorizzati vengono ora espressamente incluse anche le modifiche al profilo radioelettrico, anch’esse autocertificabili, con potere in capo all’Ente, che ha rilasciato il titolo autorizzativo, di pronunciarsi entro trenta giorni dal ricevimento dell’autocertificazione (per inibire l’intervento, è da ritenersi).

Viene, inoltre, inserito il nuovo art. 87-quater al D.Lgs. n. 259/2003, rubricato: “Impianti temporanei di telefonia mobile”. Essi sono di due specie: (i) gli impianti di telefonia mobile necessari per il potenziamento delle comunicazioni mobili in situazioni di emergenza, o per esigenze di sicurezza, esigenze stagionali, manifestazioni, spettacoli o altri eventi, destinati ad essere rimossi entro centoventi giorni dalla loro installazione. Tali impianti sono soggetti a comunicazione di avvio dei lavori, a seguito della quale l’impianto realizzato è attivabile se entro trenta giorni dalla presentazione della richiesta di attivazione l’Ente di controllo non abbia comunicato il diniego d’attivazione; (ii) qualsiasi impianto di telefonia mobile, la cui permanenza in esercizio non superi i sette giorni, deroga ogni vincolo previsto dalla normativa vigente ed è soggetto ad autocertificazione d’attivazione nel rispetto dei limiti di emissione. L’autocertificazione dev’essere inviata sia al Comune, sia all’Ente di controllo.

Ancora, l’installazione e l’esercizio di sistemi di videosorveglianza da parte degli Enti locali è qualificata espressamente come attività libera, non soggetta all’autorizzazione generale di cui agli articoli 99 e 104 del D.Lgs. n. 259/2003.

Da ultimo, ove per l’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità vengano utilizzate infrastrutture esistenti e tecnologie di scavo a basso impatto ambientale in presenza di sottoservizi, ai fini dell’art. 25, comma 1, ultimo periodo del D.Lgs. n. 50/2016 e rispetto agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, l’avvio dei lavori è subordinato solo alla trasmissione da parte dell’operatore alla Soprintendenza ed al Comune della documentazione cartografica del tracciato, dei sottoservizi e delle infrastrutture esistenti, nonché della documentazione fotografica dello stato della pavimentazione ante operam.

Alessandro Veronese

 

[1] Anche in relazione al fatto che, ai sensi dell’art. 2 e dell’Allegato A (segnatamente punto A.1) del D.P.R. n. 31/2017 le “opere interne che non alterano l’aspetto esteriore degli edifici, comunque denominate ai fini urbanistico-edilizi, anche ove comportanti mutamento della destinazione d’uso”, non sono soggette ad autorizzazione paesaggistica, pur se eseguite su immobili vincolati.

[2] Giova osservare come, da un lato, le norme del D.M. 5 luglio 1975 integrino una norma di rango primario, giusta il rinvio operato dall’art. 218 del R.D. n. 1265/1934, dall’altro, tali norme non siano derogabili (Cons. St., sez. III, 3 maggio 2011, n. 2620; T.A.R. Toscana, sez. III, 14 giugno 2019, n. 857), dall’altro ancora, la giurisprudenza (Corte Cost., 18 luglio 1996, n. 256; Cons. St., sez. VI, 16 dicembre 2019, n. 8502; Cons. St., sez. V, 3 giugno 2013, n. 3034; Cons. St., sez. IV, 3 maggio 2011, n. 2620; T.A.R. Toscana, sez. III, 14 giugno 2019, n. 875; T.A.R. Veneto, sez. II, 14 febbraio 2014, n. 201), formatasi in tema di condono edilizio sulla base dell’art. 35, comma 20, della L. n. 47/1985, consenta al più (invero per le sole ipotesi di condono edilizio) la deroga dei soli regolamenti comunali in tema di requisiti igienico-sanitari, giammai la deroga delle norme di legge (qual è il complesso di rango normativo primario dato dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934 e dal D.M. 5 luglio 1975).

 

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