Sommario1. Il ricorrente dibattito sulla collocazione istituzionale del giudice amministrativo. 2. La legge sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa. 3. Gli attacchi della politica alla giurisdizione amministrativa. 4. L’autonomia del Consiglio di presidenza in materia di stato giuridico dei magistrati. 5. Le eccezioni: a) la libera nomina governativa di consiglieri di Stato. 6. b) la nomina del presidente del Consiglio di Stato. 7. Il procedimento disciplinare. 8. Gli incarichi esterni dei magistrati amministrativi.


1. Filosofi e scrittori, dal Platone del Timeo al Nietzsche della teoria dell’”Eterno Ritorno” al Borges della Storia dell’eternità, hanno meditato sulla dottrina dei cicli.

Sarà in forza di essa che il dibattito sulla collocazione istituzionale del giudice amministrativo conferma oggi la sua circolarità, dopo i quasi settant’anni trascorsi dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

I diffusi umori critici della dottrina e della giurisprudenza dei giudici ordinari perpetuano il dibattito svoltosi in sede di Assemblea costituente tra gli esponenti delle due scuole di pensiero contrapposte: quella sul giudice amministrativo come giudice speciale e quella sul principio dell’unicità della giurisdizione.

Sta di fatto che, dopo la costituzionalizzazione del principio del giusto processo, realizzata nel ‘99, la Cassazione ha inaugurato un nuovo orientamento in base al quale il suo controllo sulla giurisdizione del giudice amministrativo, che in precedenza era “controllo sulla spettanza del potere giurisdizionale”, viene dilatato in “controllo sull’osservanza delle regole del giusto processo”.

In tal modo, dice Sassani, si è attuata una “riscrittura dell’art. 111 della Costituzione”.

Ovvero, per dirla con Verde, si è realizzata “una sorta di sindacato ridotto della violazione di legge”.

Al tempo stesso, la dottrina si è chiesta, dubitandone, se alcuni aspetti del processo amministrativo siano in linea con le garanzie del giusto processo: terzietà e imparzialità del giudice; parità tra le parti; contraddittorio; ragionevole durata del processo.

Così, il dibattito sulla collocazione istituzionale del giudice amministrativo ha finito per ricadere su quello del giusto processo amministrativo: in particolare sui profili della terzietà e dell’imparzialità del giudice.

Al di là delle questioni processuali cui ora si è accennato, va ricordato che nella Costituzione le garanzie di indipendenza esterna, mentre sono formulate direttamente nel titolo IV per i magistrati ordinari, vengono riservate alla legge ordinaria (in base agli artt. 100, terzo comma e 108, secondo comma) per i magistrati delle giurisdizioni speciali.

Ciò induce Giovanni Verde a dire che il modello voluto dai Costituenti fu quello di una indipendenza “forte” per la magistratura ordinaria e di una indipendenza “sufficiente” per le altre magistrature.

Intendiamoci.

Nessuno ritiene, come paventava Orsi Battaglini, che giudici e processi speciali godano di un privilegio di extraterritorialità rispetto ai princìpi costituzionali.

Nel suo nucleo forte, l’indipendenza di un ordine di magistratura o c’è o non c’è.

Però il fatto che le garanzie della sua indipendenza siano date con una legge ordinaria, che a grandi linee segue il modello del titolo IV della Costituzione ma con dei contenuti specializzanti, disloca la questione dell’indipendenza dei giudici amministrativi, che non si può dare per scontata, nella verifica di legittimità costituzionale della legge di garanzia.

2. A monte delle questioni di natura processuale stanno quelle di tipo ordinamentale, che, disciplinando il grado di indipendenza esterna dei giudici amministrativi, sono il presupposto anche della loro terzietà ed imparzialità.

Nonché della qualificazione di determinate funzioni.

Pensiamo alla funzione consultiva del Consiglio di Stato che, nel pensiero di Sandulli, è qualificata funzione pubblica neutrale in quanto svolta da un organo cui l’ordinamento assicura una posizione di indipendenza costituzionalmente garantita di fronte al Governo, e quindi realizzata ab extra ed in funzione della più integrale ed assoluta realizzazione dell’ordinamento giuridico.

Se però le garanzie di indipendenza dell’organo non sono contenute direttamente nelle norme costituzionali ma sono invece riservate ad una legge ordinaria, l’esistenza di quelle garanzie non può essere affermata a priori, ma va verificata con riguardo alla legge ordinamentale deputata ad assicurarle.

Nella specie, con riguardo alla legge n. 186 dell’ ‘82 (ed alle successive modifiche), che per la prima volta ha dettato un ordinamento complessivo della giurisdizione amministrativa dopo l’istituzione dei tar.

Anche perché, come osservava Orsi Battaglini, l’espressa formulazione dei princìpi del giusto processo, e la loro estensione ad ogni processo e ad ogni giudice, impone un drastico ridimensionamento della discrezionalità del legislatore nel disciplinare quelli speciali.

La legge ordinamentale, com’è noto, ha previsto un triplice sistema di reclutamento dei magistrati amministrativi.

  • Il concorso a referendario dei tar.
  • Il concorso a consigliere di Stato.
  • La libera nomina governativa a consigliere di Stato.

Ha istituito un organo unico di autogoverno, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.

L’idea di fondo era quella di attuare il principio del doppio grado di giurisdizione amministrativa affiancando il concorso per referendario tar, concorso di secondo grado, a quello tradizionale a consigliere di Stato che, per la sua particolare selettività (prevedendo tra l’altro cinque prove scritte) e per gli esiti cui aveva dato luogo, meritava di essere conservato.

Il progetto di creare un plesso unitario e coeso inserendo nell’ordine giurisdizionale amministrativo una magistratura giovane come quella dei tar, saldamente radicata sul territorio e nella società, non ha avuto però completo successo.

Si è a lungo discusso – e si continua ancora a discutere – sul carattere unitario o meno del ruolo del personale della magistratura amministrativa.

Falso problema.

Basta leggere la tabella A allegata alla legge per constatare che quel ruolo è unico, come del resto segnalato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 273 del 2011.

Unico, anche se – secondo le regole di diritto comune – diviso in quadri secondo le qualifiche dell’unica carriera del personale di magistratura.

Il fatto è che, nonostante la progressiva osmosi, giuridica e di fatto, tra magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato e magistrati in servizio presso i tar,  il concorso a consigliere di Stato continua a costituire motivo di divisione tra i due gruppi di magistrati.

Considerato dai primi come bene da conservare per il maggior prestigio della categoria.

Da componenti numerose degli altri – ad esso non interessate – come causa di una discriminazione (per anzianità e per mobilità professionale da un quadro all’altro del ruolo) che non potrà aver fine che con la soppressione di quel concorso.

La divisione dei magistrati amministrativi in due gruppi ideologicamente contrapposti su una questione di fondo è un elemento di intrinseca fragilità rispetto alla difesa dell’indipendenza esterna.

Ciascun gruppo, infatti, per far prevalere il proprio punto di vista, potrebbe essere tentato di cercare, piuttosto che un’intesa con l’altro gruppo – come quella sottostante alla legge 186 – una sponda nella maggioranza politica del momento, in ipotesi interessata ad un qualche progetto di “divide et impera”.

Strategie di gruppo che muovono dalla pulsione che Saverio Vertone chiamava: “la trascendenza dell’ombelico”.

Basti pensare alla composizione del Consiglio di presidenza.

Nella formulazione originaria, era presieduto dal presidente del Consiglio di Stato e prevedeva una rappresentanza paritaria dei magistrati in servizio al Consiglio di Stato (di cui due membri di diritto) e dei magistrati in servizio presso i tar.

Con la riforma attuata con la legge n. 205 del 2000, la composizione venne così mutata: il presidente del Consiglio di Stato, presidente; quattro magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato; sei magistrati in servizio presso i tar; quattro membri laici eletti due dalla Camera e due dal Senato.

In questa riforma, è da ricordare la premessa al nuovo articolo 7: “In attesa del generale riordino dell’ordinamento della giustizia amministrativa sulla base della unicità di accesso e di carriera…”.

Esempio di quella pseudo-categoria, introdotta nella tecnica normativa dalla prassi politico-sindacale ma priva di contenuto precettivo, che Michele Ainis chiama delle “leggi in attesa”.

A ciò si aggiunga il recente avventuroso tentativo parlamentare, poi naufragato, di mutare nuovamente la composizione del Consiglio di presidenza con l’introduzione di due nuovi componenti di diritto.

La disunione è l’elemento che rende più ardua la definizione di un interesse comune della categoria, sopraordinato rispetto a quello del gruppo di appartenenza, e più vulnerabile il Consiglio di presidenza che ne costituisce l’organo di autogoverno.

3. A questo proposito, negli ultimi anni, in tempi di post-verità, autorevoli personalità politiche non hanno esitato ad esternare tutta la loro insofferenza verso la giurisdizione amministrativa: evidentemente perchè,  facendo il suo onesto mestiere, essa a volte intralcia il manovratore.

Le cronache hanno registrato diversi interventi a gamba tesa.

Qualcuno ha detto: il giudice amministrativo nuoce all’economia nazionale, aboliamolo.

Qualcun altro ha aggiunto: il giudice amministrativo si ingerisce in tutte le questioni, riduciamone i poteri.

Affermazioni oscurantistiche, suvvia, appartenenti a mondi diversi dalla cultura democratica dei contrappesi; danze macabre sulla parte prima della Costituzione dirette a intercettare i consensi di chi non se ne intende; ostentazioni muscolari indirizzate alla distrazione di massa, per distogliere l’attenzione dei cittadini dalle disfunzioni normative ed amministrative additando i giudici come nuovi untori.

Come se non sia una scontata ovvietà, anzitutto nel diritto sovranazionale, che la tutela giurisdizionale debba insistere sull’intera area del potere amministrativo.

In un Paese normale, gli organi di informazione ne avrebbero dato conto con titoli come: “Avanti, verso il passato”; ovvero: “Ritorno al 1865”; oppure: “Come dimenticare il discorso di Bergamo e vivere felici”; o anche: “E’ la democrazia, bellezza!”.

Qui, invece, ne hanno riferito con supina compunzione e continuano a ricordarle come ineguagliabili alzate d’ingegno.

Non si è trattato della critica ragionata di singoli provvedimenti giurisdizionali, che, piaccia o non piaccia, è un diritto incontestabile.

Chi prende a pretesto quella critica per attaccare un’intera categoria di magistrati brandisce un’arma impropria a scopo intimidatorio.

In effetti è stata – ed è tuttora – una campagna di intimidazione verso l’intero plesso della magistratura amministrativa.

Un’intimidazione cui non consta che all’origine sia stata data una replica immediata e adeguata a tutela della dignità della categoria, come si usa invece in casa altrui.

Un silenzio forse osservato in ossequio al vangelo dell’uomo guicciardiniano, come illustrato da Francesco De Sanctis, secondo il quale miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che “governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra’ malcontenti”.

Il quadro politico, quindi, è un ulteriore motivo per indagare sullo stato delle garanzie di indipendenza esterna dei giudici amministrativi.

4. Nella legge sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa il nucleo forte delle garanzie di indipendenza dei magistrati risiede nella disposizione dell’art. 13, comma secondo, n. 1) concernente il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: “Esso, inoltre, delibera: sulle assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti, promozioni, conferimento di uffici direttivi e su ogni altro provvedimento riguardante lo stato giuridico dei magistrati”.

Il contenuto precettivo di tale disposizione non ha corrispondenza nelle norme sui precedenti Consigli di presidenza, del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali.

Essa ricalca invece il disposto dell’art. 105 della Costituzione, secondo cui: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.

Esprime anch’esso il principio dell’autonomia dell’organo di autogoverno, qui in materia di stato giuridico dei magistrati amministrativi.

Con la forza di legge ordinaria, è vero, ma di una legge che costituisce attuazione degli artt. 100, terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, sancendo le garanzie di indipendenza dei magistrati amministrativi: dunque, di una legge costituzionalmente necessaria.

Il comma terzo dell’art. 13 citato dispone poi: “I provvedimenti riguardanti lo stato giuridico dei magistrati sono adottati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri”.

Il modulo procedimentale di legge per i provvedimenti riguardanti lo stato giuridico dei magistrati amministrativi è quindi quello della “decisione pluristrutturata”, dove gli interessi rappresentati dalle autorità competenti hanno pari dignità e non sono subordinati all’interesse primario.

In particolare, quello della “deliberazione preliminare”, caratterizzato dalla scissione tra determinazione del contenuto del provvedimento ed esternazione dello stesso, costitutiva dell’effetto giuridico.

Tutto chiaro, dunque?

Niente affatto: perché la legge sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa prevede due eccezioni “forti” al principio dell’autonomia del Consiglio di presidenza.

5. La prima eccezione è quella della libera nomina governativa di consiglieri di Stato, in ragione di un quarto dei posti che si rendono vacanti.

La norma dispone che la nomina ha luogo con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere del consiglio di presidenza, contenente valutazioni di piena idoneità all’esercizio delle funzioni di consigliere di Stato sulla base dell’attività e degli studi giuridico-amministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere.

Costituisce perpetuazione del potere governativo ottocentesco di nomina dei magistrati del Consiglio di Stato e legificazione del procedimento introdotto in via regolamentare dal d.P.R. n. 579 del ‘73, in pendenza del giudizio di legittimità costituzionale conseguente alla nota “infornata” di diciassette nomine governative dello stesso anno .

Nessuno ignora la sentenza n. 177 del ‘73, con cui la libera nomina governativa di una quota di consiglieri di Stato ebbe il benevolo avallo della Corte costituzionale.

Una sentenza, peraltro, che la dottrina ha per lo più classificato tra quelle “a maglie larghe”.

Basti pensare al determinante rilievo dato al d.P.R. n. 579 predetto, emanato dal governo in corso di giudizio, con cui venivano fissati i requisiti e il procedimento della nomina (che prevedeva il parere del Consiglio di presidenza del Consiglio di Stato): atto regolamentare successivo ai provvedimenti impugnati dinanzi al giudice a quo, dunque irrilevante in quel giudizio.

Privo inoltre del carattere legislativo richiesto dalla riserva di legge di cui all’art. 108, primo comma, della Costituzione, in materia di ordinamento giudiziario; come ricordato nella stessa sentenza, che ne raccomandava la traduzione in legge.

Ma c’è di più.

La Corte ritenne sufficiente un semplice parere del Consiglio di Stato ovvero una designazione o proposta del medesimo organo ovvero un atto motivato, a conclusione del procedimento di nomina, qualora il Governo ritenesse di provvedere in modo non conforme ai predetti pareri o proposte.

Molta acqua è passata sotto i ponti dell’ordinamento dopo quella risalente sentenza.

In dottrina si è chiarito che con il concetto di “parere” si intendono due figure completamente diverse tra loro, al punto che, come osservava Correale, esso non esiste come figura di genere.

Una cosa è il parere come atto della fase istruttoria, che costituisce esercizio di funzione consultiva.

Altra cosa è il parere che si concretizza invece in una forma di codeliberazione o quanto meno di partecipazione alla fase della decisione.

Come osserva Travi, questi ultimi pareri sono introdotti in una logica di partecipazione alla decisione e quindi di superamento del «monopolio» della funzione amministrativa da parte dell’autorità competente ad assumere il provvedimento finale. Di conseguenza anche la presa in considerazione del parere in esame da parte dell’autorità competente per la decisione finale non può ridursi nella logica della mera motivazione della decisione difforme: deve ispirarsi, piuttosto, ai princìpi di «leale collaborazione» fra amministrazioni diverse.

Se questo è vero, allora il discorso va impostato diversamente, perché il quadro istituzionale è mutato rispetto al tempo in cui fu pronunciata la sentenza n. 177 prima ricordata.

Attualmente, come già visto, una legge costituzionalmente necessaria sancisce l’autonomia del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa in materia di stato giuridico dei magistrati amministrativi.

In materia di magistrati ordinari, la sentenza della Corte costituzionale n. 168 del ‘63 ha segnalato che l’autonomia riconosciuta dall’art. 105 della Costituzione al Consiglio superiore della magistratura esclude ogni intervento dell’esecutivo nelle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati; anche se, non essendo integrale in quanto priva di autonomia finanziaria, tale autonomia non esclude che tra Consiglio superiore e Ministro guardasigilli possa sussistere un rapporto di collaborazione.

Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, per la verità, gode, in seguito all’art. 20 della legge n. 205 del 2000, di autonomia finanziaria.

Ma, anche a voler ritenere non integrale la sua autonomia data la collocazione costituzionale del Consiglio di Stato tra gli organi ausiliari del Governo, va rilevato che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha ripetutamente segnalato che il parere è uno strumento inidoneo a tutelare organi costituzionalmente garantiti.

Così, nei rapporti tra Stato e Regioni, la Corte, da ultimo con la sentenza n. 251 del 2016, ha segnalato che è l’intesa – non già il parere – lo strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie.

Inoltre, in materia di nomina di magistrati ordinari ad uffici direttivi, la Corte, con la sentenza n. 379 del ‘92, ha segnalato che lo strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra Consiglio superiore e Ministro guardasigilli è non già il parere bensì il concerto – tra la commissione per gli incarichi direttivi e il Ministro – inteso come modulo procedimentale diretto alla formulazione di una proposta comune al Consiglio superiore, che implica un vincolo di metodo, e non già di risultato.

Alla luce di queste considerazioni, la dequotazione dell’autonomia del Consiglio di presidenza nella pronuncia di un mero parere da rendere su richiesta del Governo ai fini della libera nomina governativa di un quarto dei consiglieri di Stato appare meritevole di essere riproposta alla Corte costituzionale.

In definitiva, andrebbe chiarito: nell’attuale assetto istituzionale, può spettare al Governo di scegliere, sia pure nel limite di un quarto dei consiglieri di Stato, i giudici del potere pubblico?

Se sì, la partecipazione del Consiglio di presidenza può limitarsi a un parere o non è piuttosto necessario, a garanzia dell’indipendenza dell’organo, il modulo procedimentale del concerto che attui la leale collaborazione?

Un’ultima considerazione.

Tra i requisiti della nomina governativa, l’elemento nella prassi più trascurato è quello delle doti “di carattere”.

Forse perché è l’elemento più difficilmente desumibile da un esame documentale.

Però, a ben vedere, i legami personali che il curriculum rivela consentono di accertare la presenza o l’assenza della dote più importante per l’indipendenza del magistrato: la capacità di dire: “no”, la capacità di tenere la schiena diritta.

6. Considerazioni simili valgono per la seconda eccezione al principio dell’autonomia del Consiglio di presidenza: la nomina del presidente del Consiglio di Stato.

Argomento questo su cui di recente si è concentrata la dottrina: Riccardo Chieppa e Marzio Branca; Verde; Enrico Follieri; De Francisco e Simonetti.

L’art. 22, comma primo, della legge dispone che il presidente del Consiglio di Stato è nominato tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di presidenza.

Qui, il modulo procedimentale del parere per assicurare la partecipazione del Consiglio di presidenza appare ancora più inadeguato.

Perché, una volta riconosciuta, con norma costituzionalmente necessaria, l’autonomia del Consiglio di presidenza in materia di stato giuridico dei magistrati, non è ragionevole creare un’eccezione per la posizione apicale di presidente del Consiglio di Stato, cui spetta di presiedere proprio il Consiglio di presidenza.

Perché, come segnalato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 72 del ‘91, le garanzie costituzionali predisposte per la tutela dello status d’indipendenza dei magistrati e dell’ordine giudiziario ricomprendono nel proprio ambito di applicazione anche la nomina dei magistrati negli uffici direttivi: che peraltro nella magistratura amministrativa si traducono in posizioni di stato giuridico.

Perché, dove entrano in gioco garanzie di indipendenza costituzionalmente garantite e quindi il principio di leale collaborazione, il parere è un modulo procedimentale inidoneo.

Perché il parere dà luogo ad una sequenza di atti (la formulazione del tema, la richiesta del parere, il rilascio del parere), che presuppone l’iniziativa dell’autorità competente alla pronuncia del provvedimento definitivo.

Nell’ipotesi in esame, invece, la scelta della persona avviene – a differenza della libera nomina governativa di consiglieri di Stato che cade su estranei all’Istituto – tra soggetti interni ad esso, sottoposti al governo del Consiglio di presidenza.

Il che rende plausibile non soltanto che abbia luogo un concerto tra Consiglio di presidenza ed autorità governativa, ma anche che la decisione preliminare circa l’individuazione della persona – e quindi il ruolo di autorità concertante – spetti al Consiglio, secondo il modulo procedimentale di cui all’art. 11, comma terzo,  della legge sul Consiglio superiore della magistratura, come interpretato dalla Corte costituzionale con la ricordata sentenza n. 379 del ‘92.

Nella giurisdizione amministrativa, date le sue origini ottocentesche, si avverte spesso quello che Pirandello chiamava “il piacere della storia”.

Se però la magistratura amministrativa vuole avere le carte in regola su indipendenza esterna e  giusto processo, ciò di cui oggi essa abbisogna è piuttosto una cura ricostituente di “costituzionalismo”.

E’ il momento di riporre in un cassetto il culto della tradizione e di regolare l’orologio istituzionale sull’ora del dialogo tra le Corti europee.

Sarebbe importante che la Corte costituzionale potesse rispondere a due quesiti fondamentali.

Nell’attuale assetto ordinamentale, può spettare al Governo di scegliere il vertice dei giudici del potere pubblico?

Se sì, la partecipazione del Consiglio di presidenza può limitarsi a un parere o non è piuttosto necessario, a garanzia dell’indipendenza dell’organo, il modulo procedimentale del concerto che attui la leale collaborazione?

7. Nè miglior quadro si prospetta quanto al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati amministrativi.

Nell’analogo procedimento per i magistrati ordinari, la titolarità dell’azione disciplinare spetta al Ministro della giustizia e al Procuratore generale della Corte di cassazione (art. 14 del d.lgs. n. 109 del 2006) e la competenza a deliberare spetta alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (art. 4 della legge n. 195 del 1958).

Per i magistrati amministrativi, invece, la legge n. 186 dell’ ‘82 attribuisce improvvidamente la titolarità dell’azione disciplinare al presidente del Consiglio di Stato, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri (art. 33), e la competenza a deliberare al Consiglio di presidenza (art. 13, comma secondo, n. 2), di cui il presidente del Consiglio di Stato è presidente.

Sicchè quest’ultimo cumula nello stesso procedimento le funzioni di promotore dell’azione disciplinare e di presidente dell’organo decidente.

A ciò si aggiunga che, non essendo il d.lgs. n. 109 del 2006 applicabile ai magistrati amministrativi per espresso disposto dell’art. 30, per essi non vige nemmeno il principio della tipicità degli illeciti disciplinari, introdotto da quel provvedimento legislativo.

Il codice disciplinare dei magistrati amministrativi, dunque, risiede ancora nei generici enunciati, buoni per tutte le stagioni, della legge delle guarentigie, enunciati che possono dar origine, come la cronaca dimostra, ad azioni disciplinari “normalizzatrici” per “illeciti di opinione”.

Vero è che il Consiglio di presidenza ha adottato due delibere dirette a promuovere una legge di adeguamento del procedimento disciplinare a quello in vigore per i magistrati ordinari.

Ma è vero altresì che, nel frattempo, nel porto delle nebbie della funzione disciplinare esercitata in forma amministrativa e blindata dalla tutela della privacy, esso, per quanto è dato sapere, non brilla per cultura illuministica.

Dove vige la massima di esperienza: “Voltaire non abita più qui”, forte è la tentazione di usare il potere disciplinare per correggere il carattere ai più riottosi o ai meno allineati alle convenzioni sociali.

8. Altro tradizionale fattore di criticità in punto di indipendenza del giudice amministrativo è quello degli incarichi esterni.

E’ nota l’eterna disputa di cui essi sono oggetto.

Tra i difensori di questa prassi, che mettono in evidenza l’utilità degli incarichi esterni: per le amministrazioni, che si avvalgono della professionalità di magistrati esperti nelle materie giuridico-amministrative, e per questi ultimi, che dagli incarichi traggono occasione per affinare le loro conoscenze.

E i detrattori, che la segnalano come esiziale per l’indipendenza dei giudici.

Il punto nodale è quello che concerne il legame che può venirsi a creare tra il magistrato e chi detiene il potere politico e amministrativo.

La citata sentenza della Corte costituzionale n. 177 del ‘73, sulla provvista governativa di una quota di consiglieri di Stato, così motivava la pronuncia di rigetto: “Gli eventuali rapporti tra il prescelto e la pubblica Amministrazione che abbiano preceduto la nomina o che, intervenuta questa, potrebbero in ipotesi suscitare vincoli di sorta, si dissolvono nelle persone che siano idonee a ricoprire l’ufficio e all’atto in cui esse acquistano uno status. E per ciò non hanno alcun rilievo in sede di valutazione in astratto della ricorrenza o meno dell’indipendenza del giudice.”

Osserva in contrario Follieri che lo status di magistrato mette a riparo dall’amovibilità, dal trasferimento e dalla instabilità, ma non consente di ottenere gli incarichi extragiudiziari, per i quali occorre mantenere e rinsaldare il rapporto di fiducia con coloro che esercitano il potere politico e amministrativo.

Il punto di vista della Consulta, che considera l’indipendenza pregiudicata dall’amovibilità e non anche dall’aspettativa agli incarichi esterni,  non sembra quello più provvisto di concretezza.

Ciò che è determinante in punto di incarichi esterni – nella diatriba di cui essi sono oggetto – è la loro durata.

Il punctum discriminis si incontra quando gli incarichi esterni, a causa del loro ripetersi o comunque della loro eccessiva durata, si trasformano in “carriere parallele”, amministrative o politiche, reversibili nella carriera d’istituto secondo il meccanismo attuale cui la prassi attribuisce il nome di “porte girevoli”.

Ma l’esperienza umana non è a compartimenti stagni: è un tutt’uno.

In questo caso, i magistrati possono trovarsi a giocare la partita della loro carriera tenendo in mano un numero eccessivo di carte: con il rischio di far confusione e di calare sul tavolo dell’istituzione giudiziaria le carte pescate ad un altro tavolo.

L’art. 29 della legge n. 186 dell’ ‘82, per la verità, pone limiti al collocamento fuori ruolo: soltanto per i magistrati che abbiano svolto funzioni di istituto per almeno quattro anni; con durata non superiore a tre anni consecutivi, reiterabile dopo due anni di effettivo esercizio delle funzioni di istituto; entro il contingente di 20 unità.

Ma, a parte la diffusa disapplicazione dei limiti che vi è stata nella prassi, il trend normativo è in senso contrario.

Le ripetute modifiche all’art. 9 dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri (d. lgs. n. 303 del 1999) hanno compresso i limiti al collocamento fuori ruolo e definito uno statuto di equipollenza del servizio prestato dai magistrati in quella posizione presso quella amministrazione.

Statuto che rende il collocamento fuori ruolo obbligatorio, anche in deroga ai limiti temporali, numerici e di ogni altra natura eventualmente previsti dagli ordinamenti di appartenenza ed equipara a tutti gli effetti il servizio prestato in fuori ruolo a quello istituzionale.

Una sorta di mutazione genetica ope legis.

Vero è che il comma 68 della legge Severino (l. n. 190 del 2012, art. 1)  ha stabilito un limite massimo complessivo della durata del collocamento fuori ruolo dei magistrati: dieci anni, anche se continuativi.

Ma dieci anni è il termine entro il quale, come i diritti si prescrivono, così il modo di essere di ogni figura soggettiva si trasforma.

Viene in mente il personaggio di un film di Ettore Scola, che amaramente riconosceva: “Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi”.


Relazione al convegno di studi “La giustizia amministrativa: attualità e prospettive”, Firenze, 9 giugno 2017.
1. B. Sassani, Sindacato sulla motivazione e giurisdizione: complice la translatio, Sezioni Unite riscrivono l’articolo 111 della Costituzione in Dir. proc. amm., 2013, 1589.
2. G. Verde, La Corte di cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito) in Dir. proc. amm., 2013, 377.
3. Cfr. M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo in Dir. proc. amm., 2013, 100 ss.
4. G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente in Dir. proc. amm., 2003, 343 ss.
5. A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005, 78.
6. A.M.Sandulli, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione in Scritti giuridici, Napoli, 1990, vol. II, 266-267.
7. A. Orsi Battaglini, op. cit., 78.
8. G. Morbidelli, Il procedimento amministrativo in AA.VV,  Diritto amministrativo, Bologna 1993, vol. II, 1118.
9. G. Correale, Parere in Enc. dir., Milano, 1981, XXXI, 676 ss.
10. A. Travi, Parere nel diritto amministrativo in Dig. pubbl., Torino, 1995, X, 601 ss.
11. Ri. Chieppa – M. Branca, La nomina del presidente del Consiglio di Stato: tra prassi e innovazione in Giur. cost., 2016, 447.
12. G. Verde, Perché bisogna difendere la giustizia amministrativa in Il Mattino, 21 ottobre 2016.
13. E. Follieri, Le garanzie di indipendenza del Consiglio di Stato in Dir. proc. amm., 2016, 1234.
14. E. De Francisco – H. Simonetti, La nomina del presidente del Consiglio di Stato: quello che noi credevamo in www.giustamm.it
15. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1970, II, 848.
16. Nello stesso senso, Ri. Chieppa – M. Branca, op. cit., 505.
17. E. Follieri, op. cit., 1262.

 

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