I) Premessa

Lo spunto per trattare questo tema nell’ambito della responsabilità della PA per opera legittima proviene dalle recenti polemiche che anche in questi giorni hanno interessato i fondi latistanti alle più importanti opere pubbliche viarie (Superstrada “Pedemontana Veneta” il “Passante di Mestre”, con la barriera “verde”,  il Sistema Ferroviario Regionale Metropolitano – S.F.M.R. – la T.A.V.) oppure per servizi d’interesse generale vari (elettrodotti, gasdotti, pirogassificatori o stazioni radiobase, ecc.).

Tutti sanno che la realizzazione di un’opera pubblica, in particolare lineare, non incide soltanto sulla proprietà immobiliare, su cui viene realizzata, ma può essere altresì idonea a ridurre o eliminare talune qualità inerenti il diritto di proprietà di altri beni, che non siano stati già espropriati.

E’ un tema che resta di forte attualità, di cui si occupa l’art. 44 del vigente T.U. espropriazioni, ma che riproduce, con alcune modifiche, gli artt. 45 e 46 della vecchia L. 25 giugno 1865, n. 2359 ma ancor fondamentale ordinamento sugli espropri, pubblicato agli albori del Regno d’Italia.

Così dispone il comma 1 dell’art. 44, D.P.R. n. 327/01: “È dovuta una indennità al proprietario del fondo che, dalla esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità, sia gravato da una servitù o subisca una permanente diminuzione di valore per la perdita o la ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà”.

Si pensi a quei casi di riduzione della capacità abitativa di un fondo per effetto delle vibrazioni od intollerabili rumori ed odori ovvero per perdita di luminosità, panoramicità e godibilità della casa a seguito sopraelevazione di nuova strada o costruzione di un inceneritore.

 

II) Rapporti con il previgente art. 46 della L. n. 2359/1865. Natura della responsabilità c.d. da asservimento od “espropriazione larvata”.

Questo art. 44 riprende il comma 1 dell’art. 46 della citata L. n. 2359/1865, ma ne elimina l’equivoco in precedenza creato con riferimento alla voce di “danno”[1] permanente, che ora viene sostituita da quella di “permanente diminuzione di valore” del bene. Questa sostituzione lessicale evidenzia – a livello semantico, logico e giuridico – la differente natura dell’indennità di asservimento disciplinata dalla norma in esame, rispetto al risarcimento del danno, derivante da responsabilità extracontrattuale (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 950/2004).

La disposizione prevede, infatti, che al privato spetti un “indennizzo”: termine – questo – che nella comune dogmatica giuridica identifica il ristoro per equivalente monetario dovuto in ragione di un pregiudizio derivante da un atto legittimo della p.a., benché oggettivamente produttivo di un danno patrimoniale; a differenza del termine “risarcimento”, che invece consegue ad un fatto illecito.

Anche nell’acquisizione sanante del diritto di servitù, prevista all’art. 42 bis, co. 6, T.U. Espropri, per servizi pubblici, in particolare acqua, energia, trasporti, telecomunicazioni, permane l’equivoco tra “danno”, “titolo risarcitorio” ed “indennizzo per pregiudizio patrimoniale”.

Così è stato il “diritto vivente”, (come Cass. SS.UU. n. 22096/2015), che ha evidenziato come quelle espressioni letterali siano utilizzate nella norma citata come sinonimi.

 

III) Ambito applicativo della responsabilità per atto legittimo e responsabilità della PA extra contrattuale.

Invero, il riferimento alla nozione di “danno”, contenuto nel testo dell’art. 46, L. n. 2359/1865, ed ora come mantenuto nell’art. 42 bis T.U. Espropri, poteva ingenerare l’equivoco di ricondurre la fattispecie in commento nell’alveo della responsabilità extracontrattuale del neminem laedere ex art. 2043 c.c.

Tuttavia, già nel vigore della previgente legge statale sulle espropriazioni, la giurisprudenza più attenta della Suprema Corte aveva avuto cura di segnalare che l’ambito della responsabilità aquiliana da fatto illecito deve essere tenuto nettamente distinto da quello regolato dal menzionato art. 46 del 1865 ed ora art. 44 T.U. espropri, che, al contrario, presuppone un pregiudizio di fatto, conseguente all’esercizio di un’attività lecita da parte della P.A..

Lo stesso dicasi per la fattispecie di “danno” da acquisizione sanante del diritto di servitù per soggetti pubblici titolari di autorizzazioni, concessioni di servizi d’interesse generale.

Anche questo istituto non rientra nella responsabilità da illecito, poiché l’atto di costituzione dell’asservimento abusivo è da ritenersi ope legis legittimo, qualora si proceda alla costituzione della servitù nella forma semplificata di cui all’art. 42 bis, co. 1 e 6, T.U. Espropri, con effetti ex nunc, come da Corte Costituzionale n. 71 del 2015.

Cosicché il “titolo risarcitorio o di ristoro” attribuito all’importo del 5% sul valore del bene occupato od asservito non può che essere misura accessoria all’indennizzo, dovuto per il periodo d’occupazione illegittima, così idonea a connotarsi della stessa natura (Cass. SS.UU. 09/05/2018 n. 11180 del 09.05.2018; contra TAR Friuli n. 4 del 10.01.2018).

Nella nuova nozione di responsabilità per attività legittima della p.a., infatti, ciò che deve essere valutato, ai fini del ristoro indennitario, è una apprezzabile diminuzione delle facoltà di godimento e del valore di scambio della proprietà privata, che consegua oggettivamente alla realizzazione di un’opera pubblica, nonostante detta realizzazione sia avvenuta in modo legittimo, sia sul piano ideativo-progettuale, che sul piano esecutivo-materiale (in dottrina si parla comunemente di “espropriazione larvata”[2]).

Questo rilievo introduce il tema sulla differenza tra attività lecita della PA da indennità ed attività da risarcimento, di cui significativi sono alcuni casi.

Così, ad es., si è rilevato che la responsabilità di un Comune per l’attività legittima posta in essere per la costruzione di un collettore fognario, responsabilità certamente da ricondursi nella sfera dell’art. 46, L. n. 2359/1865 in ragione degli eventuali nocumenti oggettivamente recati al godimento e/o al valore di mercato del contiguo fabbricato residenziale privato, si differenzia in modo netto, sul piano concettuale e giuridico, dalla diversa (e potenzialmente compresente) responsabilità dello stesso Comune per fatto illecito, derivante da imperizia o negligenza nell’attività esecutiva dell’opera e, in particolare, nel caso di specie, dalla circostanza che l’Amministrazione non avesse adottato le cautele e le misure atte ad evitare danni a terzi, avendo trasgredito l’art. 227 del T.U. delle leggi sanitarie n. 1265/1934, che fa divieto di immettere in corsi d’acqua i liquidi di rifiuto non previamente sottoposti a processi di depurazione (cfr. Trib. sup. acque pubbliche, 21 maggio 1981, n. 14, in Cons. Stato, 1981, Il, 584).

Ed ancora, si è ritenuto che il potere discrezionale della P.A. nella costruzione e manutenzione delle opere pubbliche trovi limite in ogni caso nel generale principio del neminem laedere, con la conseguenza che configura un’ipotesi di responsabilità per fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., e non di responsabilità per atto legittimo ai sensi dell’art. 46, L. n. 2359/1865 (ed oggi, art. 44, D.P.R. n. 327/2001), l’avere provocato il prosciugamento e la scomparsa di sorgenti, date in concessione a privati per l’alimentazione di un acquedotto, in seguito ai lavori di costruzione di una galleria autostradale, progettata ed eseguita senza un preventivo studio geologico della zona, e senza prendere in considerazione la possibilità che le operazioni di scavo venissero ad intercettare falde freatiche e percorsi di correnti idriche sotterranee dei vicini acquedotti (cfr. Cass., 14 aprile 1983, n. 2602, in Foro it., Rep. 1983, voce Opere pubbliche, n. 64).

Ma quali sono, sul piano giuridico, gli effetti dell’inquadramento della figura in esame come un’ipotesi di responsabilità indennitaria da fatto lecito, anziché di responsabilità risarcitoria da fatto illecito?

a) Sul piano della prescrizione: in primo luogo, basterà ricordare che – di contro al termine quinquennale di prescrizione proprio della responsabilità ex­tracontrattuale, il diritto all’indennizzo spettante al privato in ipotesi di accertata responsabilità della P.A. da atto lecito è sottoposto all’ordinario termine decennale di prescrizione (cfr. Cass., n. 6273/2008). Ma da quando decorre? Questo “scatta” – secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (v., per tutte, , Sez. Unite, 11.01.2008, n. 581; Cass., Sez. III, 17.09.2013 n. 21255) – non già dalla data del fatto lesivo, inteso come fatto storico obiettivamente realizzato, né dal momento della manifestazione del danno all’esterno (e cioè sull’immobile interessato), ma. Dal momento, concettualmente e spesso temporalmente diverso e successivo, in cui maturino, in capo al soggetto leso, “presupposti di sufficiente certezza in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del diritto azionato. sì che gli stessi possano ritenersi, dal medesimo, conosciuti o conoscibili” in base ad un criterio di diligenza dell’uomo medio, e quindi, dal momento in cui il pregiudizio lamentato sia o possa essere percepito quale danno conseguente al comportamento di un terzo (che, nel caso di specie, è l’Amministrazione responsabile dei lavori).

b) Sulla prova: ancora in tema di effetti sostanziali, il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale della P.A. richiede che il privato danneggiato fornisca in giudizio la prova della colpa e negligenza dell’Amministrazione danneggiante, nell’attività realizzativa dell’opera pubblica ovvero in quella progettuale con violazione di norme cautelati o tecnico operative.

Mentre, come si vedrà, una siffatta prova non è richiesta nell’ “espropriazione larvata”, bastando dare dimostrazione dell’oggettività del danno (avente determinate caratteristiche) di significativa compressione della capacità abitativa o produttiva aziendale ed oggettiva riduzione del valore economico nonché della sua origine causale dai lavori contestati

c) Sulla giurisdizione: sul piano processuale, la diversa natura delle due descritte fattispecie di responsabilità comporta che non possano cumularsi le due azioni distinte per petitum (bene giuridico) e per causa petendi o ragioni della domanda.

il giudice, adìto in sede aquiliana ex art. 2043 cod. civ., non possa emettere pronuncia di responsabilità per atto lecito della P.A. ex art. art. 44, D.P.R. n. 327/2001 (già, art. 46, L. n. 2359/1865), trattandosi di azioni che si distinguono tanto per il petitum – ossia per il bene giuridico di cui si chiede il riconoscimento giudiziale – quanto per la causa petendi – ossia le ragioni giuridiche a fondamento della domanda (cfr. Cass., Sez. III, n. 4790/2001). Invero nell’azione risarcitoria, il petitum si estende a tutti i pregiudizi sopportati dalla sfera giuridica patrimoniale del danneggiato e non si limita alla diminuzione patrimoniale, arrecata dall’esecuzione dell’opera pubblica., alle facoltà inerenti all’esercizio ed al pieno godimento del diritto di proprietà del fondo d’interesse, al cui ristoro l’art. 44 è appunto preposto.

 

IV) Rapporti con l’espropriazione parziale di bene unitario di cui all’art. 33, T.U. Espr.

La delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 44 T.U. Espr. si acclara anche per differenza rispetto a quello proprio dell’espropriazione parziale, disciplinata dall’art. 33 del medesimo T.U. mediante il riconoscimento, al soggetto espropriato, di un’indennità commisurata non soltanto al valore venale della porzione fondiaria ablata, ma anche alla perdita di valore sofferta dalla porzione residua per effetto della disintegrazione e sconfigurazione dell’originaria unitarietà economica e funzionale del compendio.

Occorre, pertanto, brevemente soffermarsi sulla problematica dei rapporti tra l’indennizzo da c.d. asservimento del bene (“espropriazione larvata”) e l’indennizzo per l’espropriazione parziale, in senso tecnico, di un bene unitario.

La giurisprudenza di legittimità, assecondata dal T.U. (il capo VIII dedicato all’indennità per imposizione di servitù si intitola – non a caso – “Indennità dovuta al titolare del bene non espropriato”) è da tempo orientata nel senso di configurare i due rimedi in termini di giuridica incompatibilità ed alternatività.

Si afferma, invero, che l’art. 44, D.P.R. n. 327/2001 non attiene ai casi in cui la situazione di asservimento o diminuzione di valore venga a determinarsi in conseguenza di un procedimento espropriativo o di occupazione avente ad oggetto l’immobile “asservito”, ma è funzionale alla tutela di beni non direttamente interessati dall’esproprio, e che, purtuttavia abbiano subito l’imposizione di una servitù o una permanente diminuzione del loro valore.

In altri termini, la disposizione si rivolge non ai titolari di fondi parzialmente espropriati, ma a soggetti rimasti completamente estranei al procedimento ablatorio. i quali siano titolari di suoli contigui a quelli su cui è stata collocata l’opera pubblica e che abbiano subito un danno da asservimento o deprezzamento non per effetto dell’espropriazione di tali beni, bensì a causa delle esternalità negative prodotte dall’opera eseguita su fondi di terzi o a causa dei lavori occorrenti per tale realizzazione, pur se effettuati a regola d’arte (cfr. Cass., Sez. Unite, 27.02.2017, n. 4883: “…l’ipotesi prevista dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 44, … come risulta chiaro dal suo inserimento nel capo 8 del D.P.R. cit. (rubricato “indennità dovuta al titolare del bene non espropriato”), riguarda quei soggetti che, quand’anche un procedimento espropriativo vi sia stato, ne siano rimasti completamente estranei (in quanto proprietari di suoli contigui a quelli sui quali è stata eseguita l’opera) e siano rimasti gravati da una servitù, od abbiano subito un danno[3]. A tal proposito, in virtù della sottolineata alternatività tra ablazione parziale e pregiudizio indennizzabile ex art. 44 T.U. Espr., è agevole sgombrare il possibile equivoco nascente dalla lettera del comma 3 della norma in commento, il quale testualmente prevede che l’indennità da “asservimento” sia dovuta anche se il trasferimento della proprietà sia avvenuto per effetto di accordo di cessione bonaria o nei casi di c.d. acquisizione sanante di cui all’art. 43 (oggi, come noto, abrogato e sostituito dall’art. 42-bis). Poiché – come detto – l’art. 44 non riguarda le posizioni giuridiche dei soggetti coinvolti dal procedimento espropriativo, il citato comma 3 deve interpretarsi, per necessaria coerenza logica, nel senso che la predetta cessione volontaria o acquisizione sanante debba riguardare l’area su cui è sorta l’opera pubblica, dalla quale derivano la servitù o la permanente diminuzione di valore, che costituiscono fonti del diritto all’indennizzo; mentre non pare consentito ipotizzare che la cessione bonaria o l’utilizzazione senza titolo possa riferirsi ad una parte del bene in proprietà di colui che aspiri al suddetto ristoro da asservimento (cfr. sentenza  Corte Cass., Sez. I^, 09.11.2018, n. 28788).

In particolare, rileva questa distinzione nel caso di cessione bonaria, poiché l’indennità per asservimento è dovuta anche nel caso di cessione bonaria dell’area su cui è sorta l’opera pubblica.

Quindi occorre prestare attenzione, allorché si sottoscriva l’atto di cessione bonaria c.d. “tombale” con clausole accettate che prevedano il ristoro “di tutti i diritti spettanti per espropriazione, occupazione d’urgenza, asservimento, costituzione di pesi, oneri, vincoli e servitù, immissioni moleste e danni di qualsivoglia natura e specie, indennizzi e risarcimenti tutti”.

In questi casi di accordo bonario la giurisprudenza ha ritenuto che le indennità concordate siano omnicomprensive, in relazione ai danni diretti ed ai danni indiretti e, quindi, compresi quei danni su zone estranee alla dichiarazione di pubblica utilità, qualora determinati da opere previste e conformi al progetto (cfr. Cass SS.UU. n. 10502/2012; Tribunale di Venezia, III Sez. Civ. sentenza n. 1770/2012, confermata da Corte di Cassazione con ordinanza n. 20372/2015), in ordine alla fattispecie di particelle inutilizzabili, strettamente contigue a quelle espropriate ovvero a smontamenti su area limitrofa.

Ne consegue l’infondatezza di quella domanda d’indennizzo per espropriazione parziale ex art. 33 T.U. Espropri per danni diretti a quelle particelle fondiarie, non espropriate, dato che l’accettazione dell’indennità con la cessione bonaria “tombale” esclude che siano ulteriormente ristorati i danni lamentati.

 

V) Fondamento e presupposti della tutela.

Tanto esposto in ordine alla natura ed al campo applicativo dell’art. 44, T.U. Espr., occorre adesso soffermarsi brevemente sul fondamento e sui presupposti oggettivi dell’istituto.

La ratio dell’obbligo di indennizzo previsto dalla norma in esame è stata individuata dalla Suprema Corte in un basilare principio pubblicistico di giustizia distributiva, secondo cui le conseguenze economiche pregiudizievoli causate da opere dirette al conseguimento di pubblici benefici non possono ricadere su un solo privato o su una ristretta cerchia di privati, ma devono essere sopportate dalla collettività (Cass., Sez. III, 3.07.2014 n. 15223; Cass., Sez. Un., 11.06.2003, n. 9341). Non è, dunque, accettabile che la soddisfazione dell’interesse generale passi per il sacrificio dell’interesse o del diritto del singolo, senza che quest’ultimo venga proporzionalmente indennizzato. Il principio ovviamente presuppone un atto legittimo della P.A., che, attraverso l’opera pubblica, persegua i fini della collettività, e non è certamente conciliabile con l’eventuale fatto illecito, doloso o colposo, dell’Amministrazione, cui risponde il diverso rimedio di cui all’art. 2043 c.c.. Sicché, anche per questa via, trova conferma la tesi della natura non aquiliana della responsabilità indennitaria prevista dall’art. 44, T.U. Espr..

Fermo quanto precedentemente chiarito in merito all’estraneità del soggetto pregiudicato rispetto alla procedura ablatoria,

È stata l’elaborazione giurisprudenziale formatasi sulla norma in commento e, prima, sull’art. 46, L. n. 2359/1865, che ha individuato tre presupposti del diritto all’indennità di asservimento, rappresentati:

  1. a) da un’attività lecita della pubblica amministrazione, consistente nell’esecuzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità ovvero nella sua uti­lizzazione in conformità alla funzione per la quale è stata progettata e realizzata;
  2. b) dall’imposizione di una servitù o dal­la produzione di un pregiudizio che si concreti nella permanente perdita di valore dell’immobile contiguo, per estinzio­ne o limitazione dell’esercizio di una facoltà inerente il diritto di proprietà sul medesimo;
  3. c) dal nesso di causalità tra l’esecuzione e gestione dell’opera pubblica e il suddetto pregiudizio (, Sez. III, 3.07.2014 n. 15223; Cass., n. 26261/2007; Cass., n. 18172/2004).

Come già osservato, non è invece richiesta la prova di un comportamento colposo o doloso dell’Amministrazione esecutrice (o gerente) dell’infrastruttura, trattandosi di criteri tradizionali di imputabilità soggettiva del fatto illecito, che, nella fattispecie in esame, sono messi fuori causa dalla presupposta liceità dell’agire pubblico e dalla natura indennitaria, e non già risarcitoria, della responsabilità azionata dal privato leso con conseguente giurisdizione A.G.O. ai sensi dell’art. 53, D.P.R. 327 del 2001 e dell’art. 133, lett. g c.p.a..

 

VI) Caratteri e tipologia del pregiudizio indennizzabile.

Nell’interpretazione della norma in esame, un ruolo centrale assume l’individuazione dei connotati oggettivi del danno indennizzabile. In proposito, come si è rilevato, l’art. 44 menziona – accanto all’imposizione di una vera e propria servitù prediale – la diversa ipotesi data dalla perdita o diminuzione permanente del valore di scambio del bene oggetto di “espropriazione larvata”.

a)- La permanenza del pregiudizio

Dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che il riferi­mento alla permanenza del pregiudizio non vada inteso nel senso di limitare l’indennizzo alle sole lesioni perpetue o irreparabili, essendo da considerare permanente anche il pregiudizio che dura fin quando permane la causa lesiva, a sua volta identificabile non solo nell’opera pubblica, ma anche nei lavori di modificazione o di completamento della stessa. L’indennità può essere riconosciuta, altresì, con riferimento al periodo in cui è in corso la realizzazione dell’infrastruttura (Caringella – De Marzo – De Nictolis – Maruotti, 972), come per gli scoppi di dinamite od i rumori intollerabili da ruspe e camion in costanza di costruzione della galleria della “Pedemontana Veneta” a Malo (VI), con proposta dell’Ente espropriante trasferimento in hotel degli abitanti allarmatisi.

Come si vede, dunque, i commentatori hanno elaborato un’accezione relativa e non assoluta del requisito della permanenza del danno (Cass., Sez. III, n. 15223/2014, cit.). Più prudente la posizione della giurisprudenza, secondo la quale: Ai fini del diritto alla corresponsione della indennità prevista … dall’art. 44 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, il requisito della “permanenza” del danno, valutato con riguardo al momento dell’apprezzamento delle cause lesive in base ad un giudizio prognostico ispirato ad un criterio di normalità causale, sussiste non solo se lo stesso appaia definitivo, ma anche qualora non vi siano elementi per ritenere che la “deminutio” del diritto sia temporanea” .

b)- La significativa riduzione delle facoltà del diritto di proprietà.

Applicando alla nuova fattispecie principi giurisprudenziali già formulati con riguardo all’art. 46 della L. n. 2359/1865, la Suprema Corte ha, altresì, precisato – in tempi recenti – che il pregiudizio economico deve incidere direttamente sul bene, in modo tale da determinare un’apprezzabile diminuzione del valore venale del medesimo. Per l’effetto, è stato ritenuto che l’indennizzo di cui all’art. 44, D.P.R. n. 327 del 2001 spetti se l’opera pubblica abbia realizzato una significativa compressione del diritto di proprietà, conseguente alla riduzione della capacità abitativa, che può verificarsi sia per effetto di immissioni intollerabili di rumori, vibrazioni, gas di scarico ed altre esalazioni direttamente provenienti dall’infrastruttura, sia in tutti i casi in cui il bene privato subisca un’oggettiva ed apprezzabile riduzione della luminosità, panoramicità e godibilità, purché idonea a tradursi in una altrettanto oggettiva riduzione del suo valore economico (cfr. Cass., Sez. I, 26.05.2017 n. 13368; Id., Sez. I, 3.07.2013 n. 16619).

È stato, invece, escluso che possano costituire oggetto di indennizzo le utilità marginali del bene, cioè di piccolissime variazioni di valore. che non trovano tutela nell’ordinamento come attributi ca­ratteristici e qualificanti del diritto di proprietà.

Parimenti, si tende ad escludere l’indennizzo del lucro cessante (cfr., sul punto, Cass., Sez. III, 3.07.2008, n.18226), argomentandosi dal dato testuale del comma 2 dell’art. 44 in commento, secondo il quale: “L’indennità è calcolata senza tenere conto del pregiudizio derivante dalla perdita di una utilità economica cui il proprietario non ha diritto”. Laddove l’espressione “non ha diritto” è intesa nel senso che non possano essere oggetto di ristoro utilità di cui il proprietario non benefici attualmente[4].

Ovviamente, anche l’indennità da c.d. espropriazione larvata – al pari di quella da espropriazione diretta – non spetta qualora l’immobile oggetto di pregiudizio sia urbanisticamente irregolare, per dimensioni o per destinazione d’uso, o comunque non sia ancora stato sanato, ovvero sia abusivo. salvo soltanto il caso in cui si lamenti un danno generico alla proprietà del fondo inedificato (cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI, 22.11.2017 n. 27863). Ugualmente, onde scongiurare facili tentazioni di un utilizzo improprio e strumentale del beneficio, esso è negato per le costruzioni realizzate dopo l’approva-zione del progetto di opera pubblica, dalla cui realizzazione il proprietario abbia ragione di temere la compressione delle proprie facoltà dominicali (cfr. ancora Cass., Sez. VI, n. 27863/2017, cit.).

Infine, il co. 5 dell’art. 44, T.U. Espr. riproduce l’art. 45 della L. n. 2359/1865 nell’escludere l’indennizzo nel caso in cui la servitù costituita sul bene, ad esempio da enti pubblici o privati che svolgano servizi lineari d’interesse pubblico, possa essere conservata o trasferita senza arrecare grave incomodo al fondo dominante o a quello servente. Nell’eventualità in cui la conservazione o il trasferimento della servitù comportino la realizzazione di opere, la norma prevede che il soggetto pubblico possa scegliere se eseguirle a propria cura, oppure se rimborsare al privato proprietario del fondo le spese da questi sostenute per realizzarle.

Ma se il Comune realizzasse a proprie spese il marciapiede od altra opera accessoria su strada vicinale ad uso pubblico, costituito per dicatio ad patriam, può essere soggetto all’indennizzo previsto dall’art. 42 bis, 1 co. D.P.R. 327/01, per ristrutturazione radicale con acquisizione semplificata del diritto di proprietà ovvero alla percentuale d’indennizzo, di cui all’art. 42 bis, VI co. D.P.R cit., per acquisizione senza titolo del diritto di servitù?

La risposta è negativa poiché la servitù viaria pubblica era originata dalla volontà del privato proprietario di assoggettare a percorso pedonale e carrabile a favore della collettività.

Con il nuovo marciapiede od altra infrastruttura accessoria realizzata non viene radicalmente trasformata l’area in assenza di valido ed efficace provvedimento amministrativo né acquisito sine titulo il diritto di servitù.

Infatti, è applicabile alla situazione dei nuovi lavori di miglioria stradale la disciplina di cui all’art. 936 c.c. sull’incorporazione di opere fatte da 1/3 (es. Comune) con materiali propri, con diritto dei proprietari alla rimozione, da proporsi entro sei mesi dall’avvenuta incorporazione del marciapiede, salvo, però, che l’opera sia stata eseguita dal Comune in buona fede ovvero senza opposizione dei proprietari, oppure sia stata fatta a loro conoscenza (Cass. Civ. Sez. I^, 27/06/2018 n. 16979).

 

VII) Criteri di determinazione quantitativa dell’indennità.

La norma in commento non prevede una disciplina espressa in ordine ai criteri tecnico-estimativi di commisurazione dell’indennità. limitandosi – come detto – a stabilire che non possano essere ristorate utilità cui il proprietario non abbia diritto.

In proposito, la Cassazione ha statuito che l’indennità di asservimento di un fondo, dovuta in base all’art. 44, deve essere determinata sulla base di un calcolo percentuale dell’indennità di espropriazione, affidato al motivato apprezzamento del giudice di merito, con l’unico limite che la sua misura non può, comunque, superare l’ammontare di quest’ultima indennità. fermo restando che i due istituti rimangono nettamente distinti sia sotto il profilo dogmatico che sul piano oggettivo, stante che, mentre l’indennità di espropriazione è diretta ad attribuire al proprietario un ristoro per la perdita del bene oggetto di ablazione, l’indennità di asservimento è destinata a ristorare il pregiudizio effettivo ed attuale subito, a causa dell’ese­cuzione dell’opera pubblica dal proprietario non espropriato, che rimane pur sempre tale (Cass., sez. I, 30.11.2007, n. 25011).

In ogni caso, secondo gli interpreti, dovendo l’indennità in questione apportare un ristoro integrale ed effettivo del pregiudizio arrecato all’immobile privato, la medesima può – in concreto – essere commisurata al costo dei lavori necessari ad eliminare o contenere il pregiudizio, purché tale importo non superi il valore venale del fondo.

Nella prassi d’estimo odierno sono adottati degli appositi coefficienti d’indennizzo distinti in relazione a ciascuna voce di deprezzamento degli immobili per pregiudizio permanente.

Ad esempio per riduzione di luminosità e soleggiamento il valore massimo, adottato dalle autorità esproprianti si attesta sul deprezzamento pari al 10% del costo di ricostruzione degli ambienti danneggiati.

E così via per l’immissione di rumore, il deprezzamento è valutato secondo la seguente formula: la misura dell’indennizzo è uguale alla percentuale del 3,50% o 12,50% del costo di costruzione di ciascun vano destinato al riposo di persone o non destinato al riposo di persone.

Mentre per le vibrazioni in fabbricati, la quota d’indennizzo è pari al coefficiente 6,14 per la quota annua di costo manutentivo dovuto per le vibrazioni (rinvia alla “Galleria della Pedeontana” S.P.V. in Malo).

È il risultato pratico ed attendibile dell’applicazione del metodo estimativo sintetico-comparativo che viene più frequentemente abbracciato dai Tribunali e dalle Corti d’Appello (Cass. Civ., ord. n. 6243 del 31.03.2016), in alternativa a quello analitico- ricostruttivo che muove dalle caratteristiche specifiche del fondo espropriato.

Il primo metodo, è notorio, consiste nell’accettare il più probabile valore di mercato dell’area da asservire in base alla destinazione urbanistica della zona ed ai prezzi praticati per i suoli vicini omogenei.

= Ma, mentre nel caso di espropriazione parziale la diminuzione di valore subita dalla parte residua del fondo è indennizzabile secondo criteri differenziali predeterminati dall’art. 33 D.P.R. 327/01, allorché sussista un rapporto immediato e diretto tra la parziale ablazione ed il danno (ordinanza Corte Cass., Sez. I,  9.11.2018 n. 28788).

= Nella situazione, invece, dell’“espropriazione larvata” di cui all’art. 44 in parola, quantificheranno indennizzi secondo il variabile pregiudizio, effettivo ed attuale, subito dal proprietario del fondo, non espropriato.

Fondamentale, a questi fini, è la giurisprudenza formatasi sul caso dell’ampliamento dell’Aeroporto Malpensa e di Milano, chiamato alla condanna dei danni causati alle proprietà immobiliari private sottostanti ai sorvoli degli aerei per immissioni acustiche e da gas di scarico (Cass., Sez. III,  03.07.2014 n. 15223).

Il tutto è similare a quanto sta succedendo per l’aeroporto “Canova” di Treviso, con l’aumento del numero di voli autorizzati dall’E.N.A.C. e relative intollerabili immissioni.

Non sono, però, offerti dalla norma in commento criteri certi per la quantificazione dell’indennizzo, con indubbio successivo ricorso al Giudice.

 

CONCLUSIONI

Già s’è detto che l’indennizzo dovuto dalla P.A. o suoi concessionari che interferisce con i diritti dei privati per effetto della scelta pubblicistica dell’opera pubblica o del pubblico servizio ottemperi ad un principio di giustizia distributiva, per cui le conseguenze economiche di vantaggi pubblici debbono essere a carico della collettività e non del singolo.

Soltanto che questo indennizzo, anche secondo l’art. 44 in commento, deve avere le caratteristiche della indefettibilità, serietà e certezza, senza essere soltanto formale previsione legislativa.

Ma il parametro astratto, previsto dalla presente norma di quantificazione, non è dotato di effettività, perché troppo variabile per stessa previsione legislativa, in quanto fa riferimento a criteri di percentuali d’indennizzo, così elastici e di alta discrezionalità tecnico-estimativa, da porre l’“amministrato cittadino” a subire l’offerta indennitaria proposta dall’autorità pubblicistica, in genere irrisoria od incongrua, date le scarse o nulle risorse finanziarie degli enti locali.

Cosicché il perimetro della serietà e della effettività del giusto indennizzo, è demandato di volta in volta al Giudice e, così, alla giurisprudenza ordinaria di legittimità, che emenda le norme e colma le lacune con l’ausilio dell’analogia all’indennità d’esproprio della proprietà.

Ma questo criterio interpretativo analogico non sarebbe applicabile nella fattispecie esaminata, trattandosi di norma speciale che prevede percentuali d’indennizzo per attività lecita della P.A. ed in totale assenza di fenomeno ablativo od espropriativo della proprietà privata, che viene, invece, conservata nell’ “espropriazione c.d. larvata”, di cui si è discusso.

Per cui, occorre l’intervento completivo del legislatore statale per questo istituto, con recepimento in positivo dei principi consolidati dalla giurisprudenza in materia e, così, si farà applicazione dell’aforisma di Jean-Jacques Rousseau, che ancor al tempo della monarchia assoluta di metà del 1700 aveva a scrivere nel “contratto sociale”: “Le leggi sono le condizioni di una scelta civile. Il popolo sottomesso alle leggi deve essere anche l’autore: il funzionamento della società, infatti, non appartiene che a coloro che si associano” (e non all’unico monarca od al governo totalitario).

Nella presente fattispecie l’indennità sarà seria e certa, qualora le stesse situazioni oggettive omogenee siano egualmente valutate in tutto il territorio nazionale, senza arbitrio o favoritismi locali e, quindi, con esercizio unitario a livello statale del potere di asservimento o di “espropriazione larvata”, qui trattata.

Primo Michielan

 

* Relazione tenuta il 23 novembre 2018 al convegno annuale dell’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti svoltosi a Castelfranco Veneto su i “Nuovi profili di responsabilità della PA e danno“.

 

[1] Si trascrive di seguito, a maggior chiarezza, il co. 1 dell’art. 46, L. n. 2359/1865: “È dovuta una indennità ai proprietari dei fondi, i quali dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità vengano gravati di servitù, o vengano a soffrire un danno permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto”.

[2] V., ad esempio, P. Pirruccio, L’espropriazione per pubblica utilità, Padova, 2011, p. 691.

[3] Così continua la sentenza SS.UU. n. 4883/2017 “…non per effetto della mera separazione (per esproprio) di una parte di suolo, ma in conseguenza dell’opera eseguita sulla parte non espropriata ed indipendentemente dall’espropriazione stessa: l’indennizzo dovuto a tale specifico titolo non compete, pertanto, al proprietario del fondo espropriato, ma esclusivamente ai proprietari degli immobili circostanti l’opera pubblica, non assoggettati alla procedura espropriativa”; negli stessi termini, Cass., Sez. I, 15.06.2017, n. 14891; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 30.09.2013, n. 4871, ove si conferma che “l’art. 44, D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, al pari dell’omologo art. 46, L. 25 giugno 1865 n. 2359, riguarda indennità dovute a terzi estranei e diversi rispetto al proprietario espropriato, ed è quindi inapplicabile all’ipotesi di occupazione parziale di unitario compendio immobiliare che comporti diminuzione di valore della residua porzione, per il quale deve aversi invece riguardo al valore venale residuo, secondo il criterio di cui all’art. 40 della cit. L. n. 2359 del 1865 [oggi, art. 33, T.U. Espr., n.d.r.]” ).

[4] Cfr. ancora R. FERRARA – G.F. FERRARI, Commentario breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, II^ ed., Padova, 2015, sub art. 44, D.P.R. n. 327/2001.

image_pdfStampa in PDF